La bandiera è un simbolo che ci unisce, non solo come membri
di un reparto militare
ma come cittadini e custodi di ideali.
Valori da tramandare e trasmettere, da difendere
senza mai darli per scontati.
E’ desiderio dell’uomo riposare
là dove il mulino del cuore non macini più
pane intriso di lacrime, là dove ancora si può sognare…
…una vita che meriti di esser vissuta.
GUERRA …. o OPERAZIONE MILITARE SPECIALE - Da “National Geografic Italia”:
“””Mentre in Italia e nel resto del mondo le piazze si riempiono per manifestare contro la guerra, il cielo sopra a Kiev continua a essere illuminato dai bagliori delle esplosioni. Truppe russe sono entrate a Kharkiv e hanno colpito un sito di smaltimento di rifiuti radioattivi a Kiev. Putin ha ordinato la chiusura dello spazio aereo russo alle compagnie legate o registrate in Lettonia, Estonia e Slovenia. Il Presidente americano Joe Biden ha dichiarato che l'alternativa alle sanzioni economiche imposte alla Russia è la Terza Guerra Mondiale, ma la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato che sarà impedito a Putin di usare "il suo forziere da guerra".
Intanto il governo italiano ha approvato un decreto che prevede uno stato di preallerta dei militari italiani per essere a disposizione della Nato e ha potenziato la presenza in Romania. L'Italia ha previsto la "cessione di mezzi ed equipaggiamenti militare all’Ucraina, a titolo gratuito, non letali di protezione, la semplificazione delle procedure per gli interventi di assistenza o di cooperazione in favore dell’Ucraina (ad esclusione delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), il potenziamento per la funzionalità e la sicurezza degli uffici e del personale all’estero, il potenziamento dell’Unità di crisi del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale".
Le delegazioni si incontreranno al confine tra Russia e Ucraina nella speranza di trovare un accordo: "Non credo molto nel risultato dei negoziati, ma lasciate che ci provino. In modo che in seguito nessuno abbia dubbi sul fatto che io non abbia cercato di fermare la guerra quando c'era la possibilità di farlo", ha affermato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Scene di caos hanno travolto la capitale dell’Ucraina il 24 Febbraio, dopo che gli abitanti sono stati svegliati all’alba dal rumore dei missili che piovevano su Kiev. La seconda città più grande del Paese, Charkiv, che confina a nord-est con la Russia, ha ricevuto costanti raffiche di colpi.
Nel corso della giornata le autostrade sono state bloccate dalle auto incolonnate in un disperato tentativo di fuggire dalle città bombardate, migliaia di persone hanno cercato riparo nelle stazioni della metropolitana, e molti rifugiati si sono messi in cammino con solo uno zaino sulle spalle per attraversare il confine.
Questa escalation, che la Russia ha descritto come un’“operazione militare speciale” e gli Stati Uniti hanno chiamato “guerra premeditata” è diventata la maggiore minaccia alla pace in Europa dalla Seconda guerra mondiale, affermano i leader mondiali.
L’invasione russa dell’Ucraina si sta svolgendo via terra, mare e aria. Centinaia di missili sono stati lanciati verso l’Ucraina, mirando a obiettivi militari come campi di aviazione, caserme e depositi di munizioni.
Colonne di soldati russi hanno passato i confini di Russia e Bielorussia, secondo le fonti di stampa, e altre truppe stanno sbarcando sulle coste meridionali. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato coprifuoco e legge marziale.
Il Presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato di voler “demilitarizzare” l’Ucraina, ma analisti e storici ritengono che il leader russo tema l’alleanza dell’Ucraina con l’Ovest e veda le prospettive del Paese di aderire all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) come una minaccia alla sicurezza per la Russia.
Russia e Ucraina condividono oltre mille anni di storia, scandita da guerre, carestie e politiche identitarie. Secoli di guerre europee hanno separato e unito le due nazioni sotto imperi e repubbliche diverse. L’Ucraina ha vissuto brevi momenti di indipendenza nel XX secolo, segnato dalle rivoluzioni, ma è stata inglobata nell’ex Unione Sovietica nel 1922.
L’Ucraina ha raggiunto l’indipendenza a seguito del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, e ha ottenuto un accordo firmato da Russia, Stati Uniti e Regno Unito per la protezione della propria sovranità. Ma Putin da tempo rivendica l’Ucraina come parte integrante della Russia.
Le regioni separatiste e le alleanze etniche hanno provocato profonde spaccature tra l’Ucraina orientale, con i suoi forti legami con la Russia, e le regioni occidentali del Paese, che si sono alleate con l’Europa e le Americhe. Nel 2014, poco dopo l’annessione della regione ucraina della Crimea, Putin ha dichiarato che Kiev è “la madre delle città russe”. In un recente discorso Putin ha negato l’indipendenza dell’Ucraina, descrivendo il Paese come parte integrante “della storia, della cultura e dello spazio spirituale” della Russia.
Un’invasione vera e propria dell’Ucraina diventerebbe la più grande guerra territoriale in Europa dal 1945. “È dalla Seconda guerra mondiale che non si vedevano mosse convenzionali come queste, tra Stati-nazione”, ha detto un ufficiale senior della difesa USA al Washington Post.
La NATO ha in programma di inviare truppe a est e si è impegnata a garantire che i combattimenti non si estendano ai suoi Paesi membri. Nazioni tra cui la Lituania, che confina con la Bielorussia e un’enclave russa chiamata Kaliningrad, hanno già dispiegato le truppe per proteggere i propri confini.
La vicina Polonia, aiutata dalle truppe americane, si sta preparando ad accogliere i rifugiati che stanno passando il confine. Gli ufficiali hanno stimato che potrebbero essere un milione gli ucraini che cercheranno rifugio nel Paese confinante. Mentre il mondo si prepara alla guerra, si vedono già le prime ripercussioni a livello economico e di sicurezza, con i prezzi delle azioni in picchiata in USA, Europa e Asia.
Presso il quartier generale della NATO a Bruxelles, il Segretario Generale Jens Stoltenberg ha tenuto un briefing con la stampa durante il quale ha affermato: “La Russia ha attaccato l’Ucraina. La pace nel nostro continente è stata infranta”.”””.
PACE - L’opinione di Vittorio Feltri (da IlGiornale): Il padre scomodo della pace
“”””Mi pare chiaro che, in questo raro caso la Realpolitik, la presa d'atto della situazione, con decisioni conseguenti imperfette, coincida con la Moralpolitik.
Adesso che la guerra sta forse finendo, avverto tra i capataz progressisti della informazione e della politica un dolore più sincero per la pace in arrivo che per i morti le cui cataste crescono ancora. Infatti la proposta di pace che si sta facendo strada e ha bucato il muro del Cremlino ha un difetto che nessuno di quella crème le perdona: è figlia di Donald Trump, e dunque è bastarda, filofascista, bacia le chiappe all'autocrate. Ed ha un difetto ulteriore: è possibile, realistica, e come tutte le paci non è perfetta, ha un prezzo, lascia Putin al potere, gli lascia terre anticamente russe e abitate ancora da russi, e si accontenta di farla finita con le cataste di cadaveri nelle fosse comuni. Mezzo milioni di morti bastano? Per me ci si poteva arrivare molto prima, evitando di mietere generazioni di ragazzi.
Le élite occidentali dei quartieri alti sono però alquanto scontente. Dicono tuttora di volerla anch'esse, come no?, ma quando le sorti della guerra gireranno a favore di Kiev (e della Nato). Cioè? Non si sa. Anzi mai. E caso mai accadesse, sarebbe al prezzo comodissimo di milioni di caduti ucraini (fino all'ultimo ucraino, ha predicato applauditissimo Zelensky): cadaveri sì, ma alla fine vittoriosi per salvaguardare la ghirba e il sistema di pensiero di lorsignori nostrani.
La gente comune e meno male - tira il fiato alla notizia di un accordo, che almeno sia utile a chiudere i rubinetti del sangue di miriadi di giovani slavi. Chi ha un dubbio al riguardo chieda in giro, o legga i sondaggi. La gente speciale - il club degli ottimati - è perciò disgustata da quella comune, la quale mostrerebbe, secondo i migliori, un eccesso di sensibilità per i corpi squarciati di vecchi e bambini che non sono neanche suoi parenti, ed invece ignora l'amore per la democrazia, al punto da non aver convinto il governo
con petizioni a Sanremo a mandare più armi a Zelensky. Che importa (pensano le prime linee guerresche, col culo caldo nelle retrovie) se questa fornitura di carri armati e missili allunga i tempi della carneficina, basta che intanto si indebolisca Putin, che alla fine crollerà, parapapunzipunzipà.
Mi scuso. Il finalino da tiritera dell'asilo è in disaccordo con la tragedia. Ma è utile per sottolineare la perfetta idiozia degli scontenti. Perché tale è. Mi dispiace fare la parte del Pierino che alza il dito e fa l'antipatico dicendo: io l'avevo detto subito. Che cosa? Che bisognava andare immediatamente a una trattativa. Non c'è bisogno di essere esperti nella teoria dei giochi. Se il tuo avversario è una potenza nucleare, ed è disposto a usare la bomba atomica, e tu ti accontenti di passare armi convenzionali a una piccola potenza, si sa già chi vincerà. Un gigante armato di missili strategici nucleari non può perdere una guerra con il vicino. Nel caso che sanzioni economiche e la fornitura di un arsenale apocalittico come avevano pianificato Biden e i Paesi anglosassoni avessero rischiato davvero di schiantare l'autocrazia russa e il suo zar Putin (si chiama minaccia esistenziale) lo Zar avrebbe schiacciato il pulsante fatale. Se vuoi morto me, ammazzo anche te.
A Roma e in giro per il mondo c'era e c'è, per fortuna c'è un tale vestito di bianco che ha sostenuto una verità inconfutabile: la guerra è sempre una sconfitta, in realtà nessuno è vincente in una guerra. Anche chi crede di aver trionfato raccoglie alla fine il male con i secchi, e il bene in un cucchiaino. Finirla con le stragi è la sola saggezza. A Francesco, a cui auguro una pronta guarigione, ho confessato di essere d'accordo totalmente sul punto.
Conosco l'argomento avverso. Una pace che assegni territori ai russi, alla fine legittimerà i comportamenti del tiranno
moscovita. Che prenderà la rincorsa per conquistare l'Europa. Infatti, Hitler a Monaco si avvantaggiò firmando l'accordo di pace proposto da Chamberlain e Daladier e mediato anche da Mussolini. E quando fu pronto il Fuhrer intraprese le sue conquiste lampo.
Non c'è paragone storico che tenga. 1) Non c'era allora una guerra in corso. E non esiste controprova di che cosa sarebbe successo se non avesse prevalso l'appeasement del 1937. Forse Hitler avrebbe scatenato subito i suoi eserciti, e l'Inghilterra, assolutamente impreparata, non avrebbe avuto il tempo di armarsi. 2) Non esistevano allora le armi atomiche. E quando le ebbero ad usarle contro civili inermi (Hiroshima e Nagasaki!) furono i buoni: non mi si parli perciò di superiorità etica dell'America, e di precedenti storici. Valgono per tutti. Neppure le democrazie sono vaccinate contro errori e orrori.
Mi pare chiaro che, in questo raro caso la Realpolitik, la presa d'atto della situazione, con decisioni conseguenti imperfette, coincida con la Moralpolitik. Consentire alle famiglie ucraine e russe di piangere i loro morti, di ritrovare un minimo di vita decente è oggi il massimo dell'etica possibile.
Una morale di buon senso, sicuramente più umana dell'idea stupenda delle élite intellettuali d'Occidente che amano sacrificare i figli degli altri per poter campare serenamente a casa propria, e per di più sentendosi dalla parte giusta della storia. Mettere le armi in mano ai poveri cristi di Kiev, e poi portare fiori sulle loro tombe? Meglio la pace di Trump.”””.
Ripensare la guerra, e il suo posto
nella cultura politica europea contemporanea,
è il solo modo per non trovarsi di nuovo davanti
a un disegno spezzato
senza nessuna strategia
per poterlo ricostruire su basi più solide e più universali.
Se c’è una cosa che gli ultimi eventi ci stanno insegnando
è che non bisogna arrendersi mai,
che la difesa della propria libertà
ha un costo
ma è il presupposto per perseguire ogni sogno,
ogni speranza, ogni scopo,
che le cose per cui vale la pena di vivere
sono le stesse per cui vale la pena di morire.
Si può scegliere di vivere da servi su questa terra, ma un popolo esiste in quanto libero,
in quanto capace di autodeterminarsi,
vive finché è capace di lottare per la propria libertà:
altrimenti cessa di esistere come popolo.
Qualcuno è convinto che coloro che seguono questo blog sono dei semplici guerrafondai!
Nulla di più errato.
Quelli che, come noi, conoscono le immense potenzialità distruttive dei moderni armamenti
sono i primi assertori della "PACE".
Quelli come noi mettono in campo le più avanzate competenze e conoscenze
per assicurare il massimo della protezione dei cittadini e dei territori:
SEMPRE!
….Gli attuali eventi storici ci devono insegnare che, se vuoi vivere in pace,
devi essere sempre pronto a difendere la tua Libertà….
La difesa è per noi rilevante
poiché essa è la precondizione per la libertà e il benessere sociale.
Dopo alcuni decenni di “pace”,
alcuni si sono abituati a darla per scontata:
una sorta di dono divino e non,
un bene pagato a carissimo prezzo dopo innumerevoli devastanti conflitti.…
…Vorrei preservare la mia identità,
difendere la mia cultura,
conservare le mie tradizioni.
L’importante non è che accanto a me
ci sia un tripudio di fari,
ma che io faccia la mia parte,
donando quello che ho ricevuto dai miei AVI,
fiamma modesta ma utile a trasmettere speranza
ai popoli che difendono la propria Patria!
Violenza e terrorismo sono il risultato
della mancanza di giustizia tra i popoli.
Per cui l'uomo di pace
si impegna a combattere tutto ciò
che crea disuguaglianze, divisioni e ingiustizie.
Signore, apri i nostri cuori
affinché siano spezzate le catene
della violenza e dell’odio,
e finalmente il male sia vinto dal bene…
Come i giusti dell’Apocalisse scruto i cieli e sfido l’Altissimo:
fino a quando, Signore? Quando farai giustizia?
Dischiudi i sette sigilli che impediscono di penetrare il Libro della Vita
e manda un Angelo a rivelare i progetti eterni,
a introdurci nella tua pazienza, a istruirci col saggio Qoelet:
“””Vanità delle vanità: tutto è vanità”””.
Tutto…tranne l’amare.
(Fonti: https://svppbellum.blogspot.com/, Web, Google, NationalGeografic, GettyImages, Vittorio Feltri da IlGiornale, Wikipedia, You Tube)
Sono 700mila, stando all'allarme lanciato dal Copasir, i clandestini (cosiddetti "migranti") pronti a mettersi in viaggio dalle coste del Nord Africa per raggiungere l'Italia, unico Paese disposto ad accogliere chiunque senza protestare più di tanto. Un ruolo a cui il nostro Paese si è rassegnato e a cui esso, erroneamente, si ritiene votato a causa della sua posizione geografica, essendo collocato nel cuore del mare Mediterraneo e non troppo lontano dal continente africano. Settecentomila clandestini che si preparano ad assalirci in un lasso di tempo alquanto breve, giungendo a raffiche, costituiscono senza dubbio una minaccia alla sicurezza e all'ordine pubblico, in quanto si tratta di masse non controllabili di individui senza documenti che arrivano e pretendono assistenza, incidendo quindi notevolmente anche sulle casse dello Stato e sul nostro sistema di Welfare. Va da sé che, davanti a una situazione tanto preoccupante, è necessario ricorrere a misure di urgenza, addirittura eccezionali, in quanto il compito principale di un governo è la tutela del popolo e della Nazione, specifico: del suo di popolo.
Questa attività non configura un abuso, un crimine, ma rientra nei doveri essenziali di un buon governo. L'esecutivo Meloni, da quando si è insediato, si è impegnato nel contrasto efficace al fenomeno della immigrazione illegale, conseguendo anche risultati notevoli, ovvero una diminuzione degli sbarchi e dunque pure dei morti in mare. Tuttavia, esso ha incontrato un ostacolo non da poco nell'attuazione di quei provvedimenti predisposti allo scopo di regolare una situazione fuori controllo, ereditata da lustri di politiche di accoglienza, scellerate e pericolosissime. Tale ostacolo è rappresentato da una magistratura, evidentemente politicizzata, che si diverte questa è l'impressione collettiva, non soltanto la mia a mettere i bastoni tra le ruote a Meloni poiché è Meloni. E questa è la ragione fondamentale per la quale il protocollo con l'Albania non ha incontrato piena attuazione.
Cosa fare allora? È questa una domanda essenziale. Insomma, cosa fare davanti alla minaccia di uno tsunami di arrivi e a fronte di una magistratura che non collabora al bene del Paese costringendoci ad accogliere pure chi non ha diritto di asilo e di protezione umanitaria?
Ebbene, io direi che è ora di rispolverare il cosiddetto «blocco navale», ovvero di tornare a quella idea originaria, reputata troppo forte e inattuabile, che abbiamo abbandonato, in quanto ci siamo forse fatti persuadere che sia irrealizzabile.
Invece no. E vi spiego.
Realizzare il blocco navale per respingere le migrazioni di massa irregolari per via marittima è alquanto complesso, in quanto la materia si interseca con la disciplina del mare territoriale e delle acque internazionali e con la tutela dei diritti umani, ma è fattibile. La soluzione sarebbe più semplice qualora le operazioni fossero condotte dalle organizzazioni internazionali (Ue e Onu), ma scarto a priori questa ipotesi, essendo allo stato poco realistica. Innanzitutto, cos'è il blocco navale? Il blocco navale è un'azione militare diretta a impedire l'entrata o l'uscita delle navi dai porti o dal territorio di uno Stato. Si tratta di un vero e proprio istituto giuridico, contemplato dal diritto bellico marittimo, ammesso (oltre che per legittima difesa) solo in occasione di conflitti armati. Le operazioni marittime di contrasto al trasporto illegale di migranti non rientrano nel concetto di blocco navale. Pertanto l'espressione va intesa in senso a-tecnico, per designare l'attività volta a impedire il passaggio di imbarcazioni cariche di extracomunitari che risultino univocamente dirette a raggiungere il territorio di un altro Stato, in violazione delle norme sull'immigrazione. Del resto, il traffico e trasporto illegale di migranti è punito gravemente dal T.U. immigrazione, in particolare nell'ipotesi di cui all'art. 12-bis, che prevede un reato universale (punibile, cioè, ovunque commesso). Ciò che interessa è stabilire quali siano i poteri dell'Italia (quale Paese di destinazione) di impedirlo, e quali siano gli obblighi degli Stati costieri dell'Africa (quali Paesi di provenienza) di non consentirlo. Ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Unclos): «La sovranità dello Stato costiero si estende, al di là del suo territorio e delle sue acque interne a una fascia adiacente di mare, denominata mare territoriale».
Inoltre, «Il passaggio nel mare territoriale è inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero». Suddetta Convenzione specifica che «il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività: il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero». Ai sensi dell'art. 25 della Convenzione: «Lo Stato costiero può adottare le misure necessarie per impedire nel suo mare territoriale ogni passaggio che non sia inoffensivo». Dunque, lo Stato costiero ha il potere di impedire il transito di una nave straniera che trasporti persone per favorirne l'ingresso nel suo territorio in violazione delle leggi nazionali sull'immigrazione e, a maggior ragione, di impedirne l'ingresso nei porti o nelle acque interne. Anche in alto mare lo Stato costiero ha taluni poteri. Le sue navi, ad esempio, sono autorizzate a esercitare il diritto di inseguimento in alto mare nei confronti di una nave che sia sospettata di agevolare l'immigrazione illegale. Il blocco può essere realizzato dallo Stato di destinazione o al confine con le proprie acque territoriali o all'interno delle acque territoriali dello Stato di provenienza o in alto mare.
L'ipotesi più ragionevole è, a mio avviso, quella di un blocco operato in acque internazionali, ma in prossimità dello Stato di partenza: più il natante si trova a breve distanza dalla costa da cui è partito e meno è il tempo trascorso dalla partenza, maggiore sarà la probabilità che l'imbarcazione o i suoi passeggeri non versino in quello stato di pericolo che fa scattare l'obbligo di soccorso. Il governo italiano potrebbe decidere di adottare questa misura per contrastare la potenziale «minaccia umana» provocata dall'esodo di milioni di africani verso l'Europa e, in primo luogo, verso l'Italia.
Il mancato contrasto ai movimenti migratori di massa ha portato in questi anni a un incremento di tale fenomeno, tanto da essere ormai da lustri incontrollabile e ingestibile. L'art. 42 della Carta Onu prevede che, in caso di minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione «se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell'articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di membri delle Nazioni Unite». L'art. 51 della Carta fa salvo, negli stessi casi, il diritto di autotutela individuale e collettiva dei singoli Stati. Le norme in questione non sono certamente applicabili all'immigrazione clandestina, ancorché gestita da organizzazioni criminali. Tuttavia nei casi in cui un'immigrazione di dimensioni tali da mettere a rischio le strutture sociali del Paese di arrivo sia deliberatamente consentita o addirittura incoraggiata dagli Stati di partenza, l'azione dello Stato di arrivo potrebbe essere inquadrata, in base a un'interpretazione estensiva del concetto, quale atto di aggressione o atto terroristico. In quest'ottica il blocco navale, ossia il respingimento, si sostanzierebbe in una forma pienamente legittima di difesa preventiva, secondo la dottrina Bush, nata dopo gli attentati dell'11 settembre.
In sostanza, in caso di migrazioni di tale portata da mettere in pericolo la sicurezza e la tenuta sociale dell'Italia, ed è questa la situazione in cui versiamo, il blocco è ammissibile anche unilateralmente, ossia attuato senza la collaborazione degli altri Stati membri dell'Ue.
Ho il sospetto che non ci resti altra soluzione. E presto ne prenderemo amara coscienza, purtroppo.
La bandiera è un simbolo che ci unisce, non solo come membri
di un reparto militare
ma come cittadini e custodi di ideali.
Valori da tramandare e trasmettere, da difendere
senza mai darli per scontati.
E’ desiderio dell’uomo riposare
là dove il mulino del cuore non macini più
pane intriso di lacrime, là dove ancora si può sognare…
…una vita che meriti di esser vissuta.
Sebbene le forze russe non siano finora riuscite a raggiungere una svolta operativa e a spingere le linee di battaglia più in profondità in Ucraina, stanno facendo importanti guadagni tattici. Questi guadagni tattici stanno lentamente rimodellando il campo di battaglia a beneficio di Mosca e minacciando importanti punti ucraini sulla linea di contatto.
La leadership militare russa continua a gettare la maggior parte delle sue truppe e risorse nei combattimenti che si stanno svolgendo nell'Oblast di Donetsk, nell'Ucraina orientale.
"La maggior parte dei progressi russi nelle ultime settimane è stata incentrata su tre aree, l'asse Pokrovsk, l'asse Kurakhove e l'asse Velyka Novosilka, tutti nell'oblast di Donetsk, nel sud-est dell'Ucraina e strettamente collegati", ha valutato l'intelligence militare britannica nella sua ultima stima operativa dei combattimenti in Ucraina.
Sull'asse Pokrovsk, le forze russe hanno fatto guadagni graduali verso il centro urbano. Pokrovsk è un hub logistico chiave che può supportare sia operazioni offensive che difensive. È un punto chiave della linea di difesa ucraina.
“Le forze russe stanno probabilmente combattendo nel centro di Kurakhove che costituisce una sezione importante della linea del fronte e la sua conquista consentirebbe alle forze russe di consolidare le posizioni nell'area e stabilire le condizioni per ulteriori avanzamenti verso ovest".
Nel frattempo, ”le forze armate ucraine avrebbero organizzato un contrattacco limitato a nord di Velyka Novosilka, una riconquista del villaggio di Novyy Komar dalle forze russe”.
Attraverso queste controffensive limitate, le forze ucraine stanno cercando di tenere sbilanciati gli attacchi russi e ritardare ulteriori progressi tattici. Tuttavia, senza gli uomini e le risorse, questi contrattacchi servono semplicemente a prendere tempo.
Nonostante ciò, gli sforzi russi per tagliare le rotte di approvvigionamento sull'approccio settentrionale di Velyka Novosilka e circondare la città continuano. Le forze russe stanno anche spingendo verso Velyka Novosilka da sud, ed hanno catturato recentemente il villaggio di Blahodante”.
Oltre 750.000 vittime russe e altrettanto ucraine?
Naturalmente, i guadagni tattici russi non sono economici o privi di perdite. Al contrario, Mosca può fare questi guadagni territoriali grazie alla sua ferrea volontà di sacrificare uomini e sistemi di armi pesanti. Questa strategia di attrito ha visto le vittime russe salire alle stelle a più di 750.000, secondo gli ultimi dati rilasciati dal Ministero della Difesa ucraino. (I servizi di intelligence occidentali e i militari hanno spesso avvalorato questi dati).
Le forze russe stanno subendo perdite estremamente pesanti ogni giorno. Ad esempio, nelle ultime 24 ore, l'esercito russo, le unità paramilitari e le forze separatiste filo-russe avrebbero perso quasi 1.500 uomini uccisi o feriti.
Inoltre, hanno perso circa trentasei veicoli da combattimento di fanteria e mezzi cingolati, ventinove sistemi aerei senza equipaggio, diciassette veicoli tattici e camion carburante, cinque carri armati principali, tre sistemi di artiglieria e sistemi di lancio multipli di razzi, due pezzi di equipaggiamento speciale e una batteria di difesa aerea distrutta o danneggiata.
Queste perdite materiali sono piuttosto leggere rispetto ad altri giorni in cui le forze russe perdono più di 200 sistemi di armi pesanti e veicoli tattici in un solo giorno.
Ripensare la guerra, e il suo posto
nella cultura politica europea contemporanea,
è il solo modo per non trovarsi di nuovo davanti
a un disegno spezzato
senza nessuna strategia
per poterlo ricostruire su basi più solide e più universali.
Se c’è una cosa che gli ultimi eventi ci stanno insegnando
è che non bisogna arrendersi mai,
che la difesa della propria libertà
ha un costo
ma è il presupposto per perseguire ogni sogno,
ogni speranza, ogni scopo,
che le cose per cui vale la pena di vivere
sono le stesse per cui vale la pena di morire.
Si può scegliere di vivere da servi su questa terra, ma un popolo esiste in quanto libero,
in quanto capace di autodeterminarsi,
vive finché è capace di lottare per la propria libertà:
altrimenti cessa di esistere come popolo.
Qualcuno è convinto che coloro che seguono questo blog sono dei semplici guerrafondai!
Nulla di più errato.
Quelli che, come noi, conoscono le immense potenzialità distruttive dei moderni armamenti
sono i primi assertori della "PACE".
Quelli come noi mettono in campo le più avanzate competenze e conoscenze
per assicurare il massimo della protezione dei cittadini e dei territori:
SEMPRE!
….Gli attuali eventi storici ci devono insegnare che, se vuoi vivere in pace,
devi essere sempre pronto a difendere la tua Libertà….
La difesa è per noi rilevante
poiché essa è la precondizione per la libertà e il benessere sociale.
Dopo alcuni decenni di “pace”,
alcuni si sono abituati a darla per scontata:
una sorta di dono divino e non,
un bene pagato a carissimo prezzo dopo innumerevoli devastanti conflitti.…
…Vorrei preservare la mia identità,
difendere la mia cultura,
conservare le mie tradizioni.
L’importante non è che accanto a me
ci sia un tripudio di fari,
ma che io faccia la mia parte,
donando quello che ho ricevuto dai miei AVI,
fiamma modesta ma utile a trasmettere speranza
ai popoli che difendono la propria Patria!
Violenza e terrorismo sono il risultato
della mancanza di giustizia tra i popoli.
Per cui l'uomo di pace
si impegna a combattere tutto ciò
che crea disuguaglianze, divisioni e ingiustizie.
Signore, apri i nostri cuori
affinché siano spezzate le catene
della violenza e dell’odio,
e finalmente il male sia vinto dal bene…
Come i giusti dell’Apocalisse scruto i cieli e sfido l’Altissimo:
fino a quando, Signore? Quando farai giustizia?
Dischiudi i sette sigilli che impediscono di penetrare il Libro della Vita
e manda un Angelo a rivelare i progetti eterni,
a introdurci nella tua pazienza, a istruirci col saggio Qoelet:
“””Vanità delle vanità: tutto è vanità”””.
Tutto…tranne l’amare.
(Fonti: https://svppbellum.blogspot.com/, Web, Google, TheNationalInterest, NationalGeografic, Wikipedia, You Tube)
La bandiera è un simbolo che ci unisce, non solo come membri
di un reparto militare
ma come cittadini e custodi di ideali.
Valori da tramandare e trasmettere, da difendere
senza mai darli per scontati.
E’ desiderio dell’uomo riposare
là dove il mulino del cuore non macini più
pane intriso di lacrime, là dove ancora si può sognare…
…una vita che meriti di esser vissuta.
L'attacco chimico di Ghūṭa è un episodio accaduto la mattina del 21 agosto 2013 durante la guerra civile siriana in cui alcune aree controllate dai ribelli nei sobborghi orientali e meridionali di Damasco, sono state colpite da missili superficie-superficie contenenti l'agente chimico sarin. Ribelli e governo siriano si accusarono a vicenda di aver perpetrato l'attacco.
Il numero complessivo di morti non fu definito. Le stime variarono da "almeno 281" a 1.729 morti. Se venissero confermate le cifre più alte, questo attacco chimico risulterebbe il più grave episodio verificatosi dall'attacco chimico di Halabja, durante la guerra Iran-Iraq.
Le indagini svolte dalle Nazioni Unite dal 26 al 31 agosto 2013 rivelano chiare tracce di gas sarin nel terreno e sui cadaveri nelle zone colpite e accerta che la tipologia di gas è quello contenuto nei depositi siriani. Tuttavia non viene indicato chi possa essere il responsabile, essendo anche i ribelli nella possibilità di accedere ai depositi.
L'attacco ebbe una forte ripercussione a livello internazionale. Infatti il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nell'agosto 2012 aveva indicato come "linea rossa" per un possibile intervento armato contro la Siria proprio l'utilizzo di armi chimiche. La comunità internazionale si divide, con Stati Uniti, paesi membri della NATO, Unione europea e Lega Araba che accusarono il governo di Bashar al-Assad, mentre la Russia e l'Iran appoggiarono il governo siriano, accreditando l'ipotesi di un attacco perpetrato dai ribelli.
La netta opposizione russa ad un intervento militare internazionale in Siria impedì una risoluzione ONU. Inoltre la forte opposizione dell'opinione pubblica e l'incertezza sulle conseguenze di un intervento militare frenano le nazioni più orientate all'attacco.
Su iniziativa russa, la crisi internazionale si risolve con l'adesione della Siria alla Convenzione sulle armi chimiche implicante la distruzione sotto egida ONU dell'arsenale chimico siriano.
Secondo parte della comunità internazionale, sono state utilizzate armi chimiche contro gli insorti, in un attacco effettuato nella periferia della capitale, il 21 agosto 2013. Per verificare la veridicità di tale violazione, l'ONU ha effettuato, dopo cinque giorni dall'attacco, ispezioni sia negli ospedali in cui sono curati i superstiti sia nei siti sottoposti a tale attacco.
In un'intervista a Le Figaro (il 2 settembre) e poi il 9 alla CBS (che verrà trasmessa lunedì 16), Assad ha smentito l'uso di armi chimiche il 21 agosto e minacciato ritorsioni in caso di attacco USA.
Il 28 agosto 2013 lo speaker alla Camera dei Rappresentanti John Boehner ha inviato una lettera a Obama nella quale concorda sull'esistenza delle prove dell'uso delle armi chimiche e che la Siria con questo atto abbia superato la red-line del non-intervento, e chiede i dettagli operativi e la giustificazione legale di un attacco statunitense. La lettera segue quella del 26 agosto, in cui invita il Presidente a non prendere decisioni unilaterali e a consultare il Congresso, prima di autorizzare qualsiasi azione militare.
L'interpretazione di tali eventi, fatti dagli Stati Uniti, non viene accettata dalla Russia, per la quale le prove non sono sufficienti a dimostrare un coinvolgimento del regime siriano nel lancio di tali ordigni. Tale contrapposizione venne ad aumentare con l'intenzione di Mosca di difendere il regime da ogni possibile embargo e aumentando la presenza militare in Siria.
Il 14 settembre 2013, a Ginevra, viene siglato un accordo tra gli Stati Uniti e la Russia con cui si stabilisce la distruzione delle armi chimiche in mano alla Siria entro la prima metà del 2014.
Qualora il governo siriano non avesse collaborato alla distruzione, sarebbe stata richiesta una risoluzione all'ONU in cui si poteva paventare anche l'uso della forza.
Lunedì 16 settembre 2013 il team indipendente delle Nazioni Unite incaricato di verificare l'eventuale uso di armi chimiche in Siria ha consegnato il suo rapporto definitivo al segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon. Il rapporto, lungo 38 pagine, ha confermato che le «armi chimiche sono state usate relativamente su larga scala nel conflitto tra le due parti in Siria, anche contro i civili, inclusi i bambini». Nel rapporto, come previsto, non sono stati individuati esplicitamente i responsabili dell'attacco del 21 agosto: l'inchiesta del team guidato dallo scienziato svedese Ake Sellstrom è stata principalmente di tipo tecnico, cioè si è limitata a stabilire se siano state usate armi chimiche in Siria, ma non ha indagato su chi le abbia usate. Il rapporto comunque ha fornito delle prove significative dell'uso di gas sarin in tre quartieri diversi di Ghuta, sobborgo a est di Damasco: gli ispettori dell'ONU hanno spiegato di avere raccolto sui posti bombardati prove mediche, chimiche e ambientali fino al 31 agosto, giorno in cui hanno lasciato il paese.
Ban Ki-moon riceve ufficialmente il 28 settembre Ahmad Jarba, presidente del Governo provvisorio siriano, ostile ad al-Assad.
Molti sono i motivi per ricordare questo anniversario, prima di tutto perché si tratta dell'ultimo evento di disarmo raggiunto finora a livello mondiale. E di un disarmo significativo, che ha distrutto l'intero arsenale nazionale di una classe di armi "di distruzione di massa", con l'eliminazione definitiva della completa filiera di acquisizione, dalla produzione degli agenti alla confezione dei proiettili finali. Importante anche lo stato disarmato, la Siria, coinvolta in una multiforme guerra civile e internazionale in cui stavano ripetendosi gravi attacchi chimici; altri aspetti importanti il fatto che il disarmo è avvenuto sotto il controllo e la guida delle istituzioni internazionali preposte, l'ONU e l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW), e la concorde volontà di tutta la comunità internazionale a perseguirlo fino in fondo, impostando, in un raro momento di razionalità politica, una diplomazia "creativa" e superando attriti su altre tematiche.
Dopo solo dieci anni e sembra un altro mondo.
L'attuale clima internazionale di duro scontro e di aperto conflitto non lascia speranze non solo di disarmo, ma neppure di qualche minima forma di limitazione degli armamenti e siamo invece in una fase di corsa per nuove e più numerose armi di ogni genere.
Il merito del disarmo chimico della Siria in tempi estremamente rapidi va soprattutto alla tenacia e al costante impegno dell’OPCW e dei suoi ispettori e all’azione del segretariato generale dell’ONU, in particolare della vice-segretario generale Sigrid Kaag, coordinatrice speciale della commissione costituita allo scopo, che è riuscita a negoziare sia con il governo che con gli insorti, con la diplomazia mondiale, nonché con organizzazioni ecologiste contrarie alle operazioni di trattamento in mare.
La particolare attenzione internazionale all’impiego di armi chimiche è dovuta alla loro speciale natura e al loro status nell’immaginario collettivo, che hanno portato a generare a livello mondiale un vero tabù all’uso di tali armi, concretizzato nel Protocollo di Ginevra del 1925, che proibisce l'uso di tali armi nei conflitti fra i firmatari, e nella quasi universale Convenzione per la proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinamento e uso di armi chimiche e per la loro distruzione del 1995, con la creazione a L'Aia dell’OPCW “per assicurare l'attuazione delle sue disposizioni, comprese quelle relative a una verifica internazionale della sua osservanza”.
Il processo che portò al disarmo chimico della Siria prese avvio dal tragico susseguirsi di attacchi con agenti tossici nel corso della ferocissima e complessa guerra civile siriana, coinvolgente più fazioni e gruppi armati di vari paesi, a seguito della dura repressione delle proteste popolari del 2011 contro il regime di Bashar Hafez al-Assad.
A partire dal 2012 cresce il numero di denunce di impieghi di armi chimiche dalle parti in lotta, segnalate da mezzi di comunicazione e dai social media, denunciate da organizzazioni umanitarie, fino a dichiarazioni formali di alcuni stati. La Repubblica Araba Siriana, che continuava a negare il possesso di armi chimiche, non era allora membro della CWC, per cui l'OPCW non poteva svolgere indagini per verificare i fatti.
L'impiego di armi chimiche nei confitti, anche se in forma limitata, hanno grande impatto sulla popolazione e gravi ripercussione politiche; pertanto sono frequenti illazioni e accuse del loro uso, spesso in malafede per calunniare e diffamare i nemici. Per accertare la sostanza delle denunce di attacchi chimici, nel novembre 1987 l’Assemblea Generale dell’ONU affidò al Segretario generale il compito di svolgere specifiche investigazioni a seguito della denuncia di un paese membro.
Il “meccanismo del Segretario generale” viene riaffermato l’anno seguente dal Consiglio di sicurezza, e il 4 dicembre 1990 l’UNGA ne approva le linee guida e le procedure operative. Il Segretario generale ha formalizzato accordi bilaterali per avvalersi del supporto tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’OPCW.
L'escalation chimica della guerra civile siriana risultava inaccettabile alla comunità internazionale, tanto da indurre il presidente Barak Obama ad annunciare il 20 agosto 2012 una “linea rossa” per un possibile intervento militare USA nel conflitto a fronte di ulteriori impieghi di armi chimiche.
Anche a seguito dell'ultimatum americano, il 20 marzo 2013 il governo siriano presenta al Segretario generale una richiesta formale di investigazione dell'attacco contro suoi militari successo il 19 marzo nel sobborgo Khan al-Assal di Aleppo. Attivato immediatamente il SGM, l'ONU crea, con la collaborazione di WHO e OPCW, una missione investigativa con il compito di verificare (senza accertare responsabilità) anche gli eventi di Sheikh Maqsoud (Aleppo) e Saraqueb (Idlib) denunciati da Francia, Inghilterra e USA.
Anche per difficoltà create dalla Siria, la missione giunge a Damasco solo il 18 agosto, e il giorno 21 è presente al gravissimo attacco chimico condotto in vari quartieri periferici di Damasco nella zona di Ghouta che produsse migliaia di vittime, inclusi molti bambini. Il Segretario generale, ottenuto (su pressioni russe) il permesso siriano, ordina alla missione di dedicarsi primariamente allo studio di tale evento. Raccolta una considerevole quantità di informazioni e di campioni ambientali e biologici adeguati ai fini dell’ispezione, il 31 agosto la missione rientra a L’Aia e, come previsto, il materiale raccolto viene inviato a differenti laboratori europei per analisi e valutazioni tecniche incrociate.
Il 13 settembre il Segretario generale dell’ONU trasmette il rapporto sugli eventi di Ghouta: tutti i risultati confermano un massiccio attacco con l'agente nervino sarin compiuto nelle prime ore del mattino. Il 12 dicembre la missione presenta il suo rapporto conclusivo, attestando l’uso di gas nervino anche a Khan al-Assal (20 morti e 124 intossicati), Saraqueb (12 intossicati, un morto), Jobar (intossicati 24 soldati) e Ashrafiah Sahnaya (attaccati 5 soldati). Come da mandato, la missione non attribuisce responsabilità degli eventi, ma mette in evidenza la disponibilità in Siria del potente aggressivo chimico e di mezzi per la sua dispersione in operazioni militari.
A fronte del grande impatto degli eventi di Goutha sull'opinione pubblica mondiale, con sostanziali sospetti di responsabilità governativa della strage, al summit G20 di Mosca (5 e 6 settembre 2013) Russia e USA concordano sulla necessità di porre le armi chimiche siriane sotto una qualche forma di controllo internazionale; il 9 settembre la Russia propone alla Siria un piano di disarmo chimico, che verrà rielaborato con gli USA.
Il 14 settembre la Siria deposita il documento di accessione, impegnandosi a ottemperare immediatamente agli impegni previsti dalla convenzione, e, a partire dal 19 settembre, fornisce informazioni sul proprio programma militare chimico, che risulta particolarmente rilevante: 51 strutture di immagazzinamento, produzione, ricerca e sviluppo, 1230 munizioni non riempite e 1308 t di agenti chimici (1047 t fra agenti e precursori e 261 t di materiale grezzo); i precursori sono sostanze meno tossiche che miscelate producono gli agenti finali.
Gli agenti chimici dichiarati erano: acido cloridrico, iprite e precursori di iprite, precursori degli agenti nervini sarin (isopropanolo e agente DF), VX e VM (precursori A, B, BB e BBsale). L’iprite e i precursori dei nervini sono di massima pericolosità ("categoria 1" della CWC), le altre sostanze di "categoria 2" o di "categoria 3". L'inventario richiederà un continuo aggiornamento (non ancora completamente verificato).
Ricordiamo che l'iprite è l'agente tossico più impiegato nei conflitti, a partire dalla prima guerra mondiale, mentre gli agenti nervini sono gli aggressivi chimici più letali mai sviluppati.
Tenendo conto della situazione eccezionale della Siria, il piano russo-americano di disarmo (messo a punto da Sergey Lavrov e John Kerry) richiedeva significative deviazioni dalle regole e procedure, in particolare: completamento del disarmo entro giugno 2014 secondo un preciso programma temporale, invece di scadenze pluriennali; possibilità di ispezioni in ogni sito in Siria, e di “speciali” ispezioni senza preavviso; informazione immediata dei dati e sullo svolgimento del piano a tutte le parti; inclusione nel piano di verifica e distruzione anche dei centri di ricerca e sviluppo; creazione di una commissione congiunta OPCW-ONU per sovrintendere alle ispezioni e operazioni; un processo “ibrido” di disarmo da svolgersi sia in Siria che all’estero, mentre la CWC impone che il disarmo avvenga completamente all’interno del paese interessato e proibisce il trasporto degli agenti fuori della sua giurisdizione; eliminazione di sostanze chimiche duali anche di ampio uso civile, di cui la CWC permette il riutilizzo; distruzione di tutti gli impianti connessi alla produzione e ricerca sulle armi chimiche, mentre la CWC consente la loro conversione a scopi civili; ricorso a contributi internazionali in mezzi e servizi per far fronte alle spese ispettive e per la distruzione delle armi fuori dalla Siria.
Le “anomalie” del piano richiedono un duplice passaggio formale: approvazione sia da parte dell'OPCW che del UNSC, il che avviene il 27 settembre, entrambe all'unanimità. Particolarmente importante è la Risoluzione 2118 del Consiglio di sicurezza, che proietta il caso specifico nel contesto globale, dichiarando l’uso di armi chimiche costituire una minaccia alla pace e sicurezza mondiali, condannando gli attacchi chimici in Siria e ritenendo i responsabili perseguibili penalmente, decidendo di imporre le misure previste dal cap VII della Carta delle Nazioni unite nel caso di inadempienze. Poiché la risoluzione è vincolante per tutti i paesi membri dell’ONU, essa rende di fatto universale il bando delle armi chimiche, estendendolo anche ai paesi non ancora parte della CWC, e riconosce la natura di crimine di guerra per il loro uso in qualsiasi contesto.
Il 16 ottobre viene costituita la missione congiunta (OPCW-UN Joint Mission in Syria – JMIS) con coordinatore speciale la vice-segretario generale dell’ONU Sigrid Kaag (olandese); ella, dopo un'ispezione in Siria il 21 seguente, costituisce basi logistiche a Damasco e a Nicosia e crea al porto di Latakia il centro di raccolta dei materiali e le attività di verifica, analisi, inventario dei materiali e confezione dei container per il trasporto marittimo. In Siria verrà mantenuto il personale strettamente necessario per specifiche operazioni; nella prima fase vengono impegnati 26 esperti OPCW e 50 persone dell’ONU (personale di sicurezza, logistica, medici e interpreti), le forze della missione variando in numero (fin oltre 100) e competenze a seconda degli impegni.
Il piano richiede uno stretto scadenzario temporale, per prevenire possibili ulteriori impieghi di armi chimiche e per realizzare il disarmo siriano prima che la guerra civile potesse avere degli imprevedibili sviluppi che avrebbero potuto renderlo del tutto o in parte impossibile.
Le prime operazioni riguardano l'ispezione delle strutture segnalate e il controllo dei materiali, anche per eliminare urgentemente la capacità di produzione e dispersione di nuovi agenti tossici. La JMIS si trovò immediatamente a confrontarsi con la complessità della guerra civile con esposizione ad attacchi e le conseguenti limitazioni per motivi di sicurezza, per cui alcuni siti non risultavano raggiungibili. Comunque, al 1° novembre erano state ispezionate 39 delle 41 strutture segnalate e sorvegliata e certificata la distruzione funzionale di tutta la strumentazione delle strutture di produzione e riempimento; al 6 dicembre verificata la distruzione, nelle varie sedi, del materiale di categoria 3, inclusi tutti i proiettili per gli agenti chimici, ed entro dicembre distrutte tutte le unità mobili di riempimento.
Intanto veniva definito il piano di distruzione delle sostanze tossiche, da attivare nel pieno rispetto della salute e dell’ambiente. Per l'eliminazione degli agenti chimici vi sono essenzialmente due metodologie, una basata sul "fuoco" e una sull’"acqua".
L'incenerimento è il metodo più diretto e veloce e non implica reazioni chimiche; gli agenti in fase liquida vengono trattati in due tempi: dopo una prima combustione a circa 1.500°C e una post-combustione a circa 1.100°C oltre il 99% del materiale viene distrutto e si raggiunge una completa mineralizzazione dei composti organici. Gli ossidi e i gas acidi generati vengono rimossi con lavaggi; eventuali residui solidi sono eliminabili come normali scarti di produzione industriale.
L'idrolisi tratta gli agenti con acqua calda (non necessariamente bollente) o idrossidi alcalini, a seconda dei casi, per scindere le molecole originarie in frammenti più piccoli e innocui; gli effluenti possono rientrare fra i materiali proibiti dalla CWC, nel qual caso vengono sottoposti a un secondo ciclo di degradazione mediante biodegradazione, ossidazione acquosa supercritica o trattamento con sali d’argento in acido nitrico, ovvero incenerimento. I prodotti di reazione vengono ridotti allo stadio di normali scorie industriali.
Mentre l'incenerimento dell'isopropanolo non pone particolari problemi e andava eseguito in Siria, il piano di trattamento degli agenti chimici fuori dalla Siria prevede l'incenerimento degli agenti fluoruro d’idrogeno, A, B, BB e BBsale (categoria 1) e delle sostanze inorganiche e organiche di categoria 2 e invece l'idrolisi dell’iprite e del DF; gli effluenti dell'idrolisi da eliminare mediante incenerimento. Per l'incenerimento vengono messi a disposizione impianti dal Regno Unito (a Ellesmere e Runcorn), dalla Finlandia (a Riihimäki), dagli USA (a Houston) e dalla Germania (a Münster); per l'idrolisi, non essendosi trovati impianti a terra disponibili, il 28 novembre viene accolta la proposta americana per il trattamento in mare aperto su una nave (la Cape Ray) opportunamente attrezzata con impianti Field Deployable Hydrolysis Sistem – FDHS e dotata dei necessari reagenti e acqua dolce, nonché dei contenitori per gli effluenti, in modo da evitare sversamenti in mare.
Scelto e attrezzato il porto di Latakia per la concentrazione dei materiali da trattare fuori dal paese, la Danimarca e la Norvegia mettono a disposizione per il trasporto ai punti di distruzione le navi Ark Futura (danese) e Taiko (norvegese), che permettono il carico tramite rampe rotabili; il governo italiano fornisce il porto di Gioia Tauro attrezzato per il movimento di materiali rischiosi di classe 6 per il trasferimento dei materiali fra le navi.
Le navi nell’attesa di completare il loro carico restano in acque internazionali al largo di Cipro con la protezione di una scorta internazionale di vascelli militari sotto la direzione della reale marina danese (operazione RECSYR – REmoval of Chemical weapons from Syria). Per il coordinamento delle operazioni le marinerie coinvolte si incontrano con funzionari dell’OPCW e della JMIS il 11-13 dicembre a Stuttgart e il 27 dicembre a Mosca. Sono coinvolte la fregata norvegese Helge Ingstad, la nave supporto danese Esbern Snare, la fregata UK Montrose (in seguito sostituita dall’incrociatore lanciamissili Diamond), l’incrociatore lanciamissili russo Pyotr Veliky e la fregata lanciamissili cinese Yan Cheng. Le navi mercantili ricevono protezione militare fino al completamento dello scarico degli agenti chimici nei vari porti di destinazione finale.
Il problema maggiore fu il lento trasporto degli agenti chimici dai vari depositi al porto, operazione di cui era responsabile la Siria; nonostante l'assistenza russa e americana, con fornitura di speciali container e mezzi di trasporto, si ebbero sei mesi di ritardo sul piano: solo il 7 gennaio 2014 vi fu una prima modesta (4,5%) consegna di agenti C1 ad Ark Futura e il seguente 27 la prima consegna (2,5%) di agenti C2 a Taiko; le consegne parziali continuano lente nei mesi successivi e la Taiko l'8 giugno parte per la Finlandia e il Texas. Per Ark Futura le consegne di agenti C1 e C2 sono completate il 23 giugno e la nave si reca a Gioia Tauro, ove trasborda circa 600 t di agenti C1 sulla Cape Ray (1-2 luglio) e quindi parte per l'UK e la Finlandia.
La Cape Ray era partita dagli USA il 27 gennaio e, giunta il 13 febbraio nella base americana di Rota in Spagna, nell'attesa del carico degli agenti da trattare esegue prove a mare per accertare fino a quale forza di mare possono avvenire in piena sicurezza le operazioni di neutralizzazione e l’immagazzinamento degli agenti tossici, dei reagenti e degli effluenti.
Il 9 luglio iniziano le operazioni di neutralizzazione in acque internazionali a sud di Creta, proseguite con due unità FHDS lavorando con più turni 24 ore al giorno per 6 giorni la settimana.
Fortunatamente il mare rimane sempre calmo e il tempo bello e il processo è completato il 17 agosto, in soli 42 giorni (invece dei 60–90 giorni previsti), con il trattamento di oltre 14 t di agenti per giorno lavorativo. La Cape Ray si dirige poi agli impianti di smaltimento degli effluenti in Finlandia e a Brema.
Per assicurare la sicurezza della Cape Ray durante le operazioni nel Mediterraneo, a bordo erano imbarcati una squadra per la difesa CBRN e un gruppo di forze speciali della marina USA con un elicottero SH-70B Seahawk ad assicurare anche la possibilità di evacuare la nave in caso di gravi incidenti. La protezione militare delle operazioni in mare viene garantita da una squadra aeronavale sotto il comando della Combined Task Force 64 della Sesta flotta americana, comprendente oltre ai mezzi statunitensi le fregate Yan Cheng cinese, Salih Reis turca, Schleswig-Holstein tedesca e Leopold I belga, un aereo di ricognizione e controllo navale portoghese con base a Sigonella, i pattugliatori Comandante Foscari italiano e Infanta Elena spagnolo e un sommergibile greco. Era prevista anche la partecipazione dell’incrociatore russo, ma la NATO sospese (in aprile) la collaborazione militare con la Russia a seguito dell’invasione della Crimea, e il Pyotr Veliky continuò la protezione del convoglio mercantile. Nelle due operazioni furono coinvolti oltre 2000 uomini delle varie forze militari.
Il 30 settembre 2014 il Segretario generale dell’ONU dispone la chiusura della missione congiunta, essendosi raggiunti gli obiettivi proposti: completate le operazioni in Siria e raggiunta la totale distruzione degli agenti di categoria 1, dell’87,8% di quelli di categoria 2 e del 4,5% degli effluenti; il materiale rimanente si trova al sicuro negli impianti di trattamento che sarà il 4 gennaio 2016.
Il tempismo della distruzione dell'arsenale chimico siriano si è rivelato critico, dato il tragico aggravamento della situazione politica e militare a partire dalla seconda metà del 2014: lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (DAESH) espande la sua penetrazione in Siria, fino a occupare quasi la metà del territorio; nel settembre si forma la Coalizione globale contro il DAESH (85 paesi guidati dagli USA) e iniziano le azioni militari anche in Siria, che restano intense fino al 2017; la Russia dal settembre 2015 intraprende una vasta azione militare contro gli oppositori del governo, con pesanti bombardamenti aerei, lancio di missili e con truppe sul campo, fino a quadruplicare il territorio controllato della RAS, ove stabilisce basi permanenti aeree e una navale.
Nel quinquennio seguente si aggrava la crisi dei rapporti dei paesi occidentali e la Russia a seguito dell'occupazione della Crimea e l'inizio dei combattimenti nel Donbass con significativi riflessi negativi sulla questione chimica siriana: il governo siriano, pienamente sostenuto dalla Russia, riduce la collaborazione con l’OPCW a completare e chiarire le informazioni sul proprio programma chimico e a fornire assistenza per le missioni sul campo e la Russia blocca le azioni del Consiglio di sicurezza e dell'OPCW per le indagini sulle responsabilità di nuovi attacchi chimici (oltre 150 segnalazioni nel periodo 2015-2022) e impedisce la condanna dei responsabili (spesso militari della Siria).
Dal 15 al 19 maggio successivi si svolse a L'Aia la quinta conferenza di revisione della CWC e la questione siriana sarà uno dei temi caldi in discussione, dato che secondo l'OPCW "la dichiarazione sottoposta dalla Siria non può essere ancora considerata accurata e completa" (24 gennaio 2013) e il governo siriano "non riconosce l’Investigation and Identification Team dell'OPCW e i suoi rapporti precedenti e futuri" (2 febbraio 2023).
Dopo l'incapacità della quarta conferenza di revisione della CWC (ottobre 2018) a raggiungere l'approvazione di un documento finale condiviso, è estremamente importante che i lavori della prossima conferenza siano in grado di rafforzare la Convenzione e di ridare respiro alla diplomazia per il controllo degli armamenti in questo momento di dura contrapposizione fra le potenze mondiali.
Una guerra mai finita, che torna a far parlare di sé dopo anni di disattenzione generale.
Il 27 novembre 2024 è stata una doccia fredda per chi, erroneamente, considerava il conflitto in Siria un capitolo chiuso della storia mediorientale. L’offensiva lanciata dai ribelli antigovernativi e da un cartello di milizie jihadiste guidato da Hay’at Tahrir As-Sham (HTS) ha portato nel giro di poche ore alla caduta di Aleppo, seconda città della Siria, che il governo di Bashar Al-Assad aveva impiegato diversi anni a strappare ai ribelli nel 2016, dopo averne perso solo una metà. Il successo dell’iniziativa bellica dei ribelli, confinati fino a pochi giorni fa nel solo governatorato di Idlib e in alcune località rurali a ovest di Aleppo, non è però spiegabile senza considerare il più ampio contesto locale, regionale e internazionale. L’avanzata delle forze anti-Assad, che in un tempo brevissimo hanno più che raddoppiato l’estensione dei territori sotto il loro controllo, ha subito generato interrogativi sul futuro della Siria e, in particolare, sulla tenuta del regime di Damasco.
Un sistema di potere che, tra il padre Hafez e il figlio Bashar, ha governato il paese per più di mezzo secolo.
Sin dall’inizio dell’attacco, che ha rapidamente visto le forze regolari siriane sciogliersi come neve al sole, indietreggiare e cedere terreno agli insorti, la comunità degli analisti ha individuato nel tempismo l’elemento centrale del successo militare di HTS e degli altri gruppi ribelli. Il regime di Assad, com’è noto, doveva la propria sopravvivenza alla guerra civile iniziata nel 2011 – diventata poi un conflitto regionale e internazionale – al sostegno di due grandi sponsor esterni: la Russia, che controllava le basi costiere di Latakia e Tartus; l’Iran, che in Siria operava soprattutto indirettamente tramite il partito-milizia libanese Hezbollah, alcuni gruppi armati sciiti provenienti dall’Iraq e il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Iraniana (IRGC, o Pasdaran). Gli insorti siriani avrebbero approfittato della ‘distrazione’ russa, legata agli ultimi sviluppi della guerra in Ucraina e altri teatri, e dell’indebolimento della rete regionale iraniana per mano di Israele, che non solo in Libano, ma anche in Siria, ha condotto decine di raid aerei contro leader, infrastrutture e obiettivi filoiraniani (tra cui il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, eliminato a fine settembre a Beirut).
Questi elementi, tuttavia, spiegano solo in parte il modo in cui i ribelli sono penetrati in territorio nemico, come un coltello caldo nel burro, arrivando fino alle porte di Hama e in direzione di Homs. Il crollo dell’Esercito Arabo Siriano (SAA), come venivano chiamate ufficialmente le forze governative, è dovuto anche a questioni di debolezza interna all’apparato militare.
La Siria è un paese fallito, distrutto da una guerra lunga 13 anni: tra rifugiati all’estero, sfollati interni, diserzioni, caduti in battaglia, il regime di Damasco si ritrovava con una forza sul campo sensibilmente ridimensionata da una sorta di ‘buco demografico’ difficile da colmare.
Durante gli anni più duri della guerra, l’azione e la presenza di russi e (filo)iraniani sul campo era piuttosto limitata nel nord. I primi si ‘limitavano’ a condurre raid aerei dalla costa sulle posizioni dei ribelli e dello Stato Islamico – penetrato nello scacchiere siriano nel 2014 – mentre i secondi, nella Siria settentrionale, avevano più un ruolo tecnico (addestratori, consiglieri militari etc.). In altre parole, ad eccezione dei paramilitari della russa Wagner (che in Siria si sono fatti le ossa), per Assad la carne da cannone è sempre stata siriana.
Come evidenziano giustamente Hassan Hassan e Michael Weiss su New Lines Magazine, non è stata lanciata una sola campagna militare nel nord della Siria, bensì due. La prima, denominata “Respingere l’aggressione“, è stata guidata ed eseguita da HTS e ha portato alla caduta di Aleppo, esclusi pochi sobborghi nell’est; la seconda è stata “Alba della libertà”, è stata lanciata più a nord dall’Esercito nazionale siriano (SNA), un gruppo di insorti filoturchi.
Ma cosa sono queste due realtà?
HTS è una coalizione di gruppi jihadisti formatisi nell’ambito della guerra civile siriana. Nata nella galassia di Al-Qaeda, l’organizzazione ha tagliato i ponti con la ‘casa madre’ tra il 2016 e il 2017, per poi avviare una durissima repressione delle frange qaidiste. Guidata da Abu Mohammed Al-Jolani, designato come terrorista dal dipartimento di Stato USA dal 2013, HTS è ad oggi l’organizzazione più importante nell’area di Idlib, dove ha persino formato un proprio governo locale alternativo a quello di Damasco. L’SNA, invece, nasce dai resti di quello che fu l’Esercito siriano libero (FSA) e da altre formazioni, cooptate negli anni dalla Turchia per perseguire i suoi obiettivi strategici.
Al giorno d’oggi, per approfondire quanto sta accadendo in Siria, è necessario tenere d’occhio gli atti concreti e le dichiarazioni politiche dei due soggetti che escono decisamente rafforzati dalla rovinosa caduta del criminale regime degli Assad: Turchia e Israele.
E’ del tutto evidente il sostegno operativo dato dalla Turchia alle milizie che hanno preso Damasco in meno di un mese; senza l’offensiva israeliana contro la filiera Hamas-Hezbollah-Iran nulla di quello che abbiamo visto nell’ultima settimana sarebbe accaduto. Ecco emergere il primo elemento importante delle ultime ore, cioè la critica turca ad Israele che il presidente Erdogan ha espresso nei colloqui con Giorgia Meloni.
Una critica che investe le attività militari sulle alture del Golan, dove l’esercito israeliano sta posizionando una zona cuscinetto di una ventina di chilometri oltre il confine tra Israele e Siria.
Erdogan parla di «aggressione», facendo così capire al mondo intero che intende svolgere sino in fondo il ruolo di «protettore» della nuova Siria.
Il secondo elemento di non minore importanza sono le intense attività militari israeliane che in queste ore stanno annientando quel che resta della marina militare siriana quanto i principali depositi di armi dell’esercito regolare (che in questo momento è totalmente disorientato, privo di comandanti nel pieno delle funzioni e ancora del tutto scollegato dai nuovi governanti).
In Medio Oriente - comunque - le cose non stanno mai come sembrano.
E’ necessario leggere attentamente parole e fatti: Erdogan critica Israele, ma per il momento si ferma alle parole. Potrebbe spingere le milizie ad avvicinarsi ai reparti israeliani, ma non lo fa. Potrebbe utilizzare corpi scelti delle potenti divisioni turche, ma evita accuratamente ogni confronto militare diretto. Insomma, Erdogan sta dicendo a Israele qualcosa di molto simile ad un semplice messaggio: «non esagerate».
Dall’altra parte Israele sa che non può perdere l’occasione del vuoto di potere creato in quella Siria che da decenni minaccia in ogni modo la sua sicurezza nazionale. L’elemento decisivo con cui Netanyahu ha riguadagnato credibilità a livello internazionale è stata proprio la capacità di usare la forza, in una zona del mondo dove ogni altro linguaggio ha credibilità pari a zero.
La sintesi è quindi la seguente: Turchia e Israele mai saranno d’accordo al 100% e nessuno dei due ha interesse a questo, però possono convergere di fatto nel lavorare per un equilibrio (precario) in grado di ridimensionare la strategia terroristica dell’Iran. È quello che chiedono loro Stati Uniti e Arabia Saudita: cercano entrambi di far capire a Turchia e a Israele che prima bisogna comunque risolvere il problema Russia, per non creare troppi problemi al nuovo nascente regime di Damasco.
Ripensare la guerra, e il suo posto
nella cultura politica europea contemporanea,
è il solo modo per non trovarsi di nuovo davanti
a un disegno spezzato
senza nessuna strategia
per poterlo ricostruire su basi più solide e più universali.
Se c’è una cosa che gli ultimi eventi ci stanno insegnando
è che non bisogna arrendersi mai,
che la difesa della propria libertà
ha un costo
ma è il presupposto per perseguire ogni sogno,
ogni speranza, ogni scopo,
che le cose per cui vale la pena di vivere
sono le stesse per cui vale la pena di morire.
Si può scegliere di vivere da servi su questa terra, ma un popolo esiste in quanto libero,
in quanto capace di autodeterminarsi,
vive finché è capace di lottare per la propria libertà:
altrimenti cessa di esistere come popolo.
Qualcuno è convinto che coloro che seguono questo blog sono dei semplici guerrafondai!
Nulla di più errato.
Quelli che, come noi, conoscono le immense potenzialità distruttive dei moderni armamenti
sono i primi assertori della "PACE".
Quelli come noi mettono in campo le più avanzate competenze e conoscenze
per assicurare il massimo della protezione dei cittadini e dei territori:
SEMPRE!
….Gli attuali eventi storici ci devono insegnare che, se vuoi vivere in pace,
devi essere sempre pronto a difendere la tua Libertà….
La difesa è per noi rilevante
poiché essa è la precondizione per la libertà e il benessere sociale.
Dopo alcuni decenni di “pace”,
alcuni si sono abituati a darla per scontata:
una sorta di dono divino e non,
un bene pagato a carissimo prezzo dopo innumerevoli devastanti conflitti.…
…Vorrei preservare la mia identità,
difendere la mia cultura,
conservare le mie tradizioni.
L’importante non è che accanto a me
ci sia un tripudio di fari,
ma che io faccia la mia parte,
donando quello che ho ricevuto dai miei AVI,
fiamma modesta ma utile a trasmettere speranza
ai popoli che difendono la propria Patria!
Violenza e terrorismo sono il risultato
della mancanza di giustizia tra i popoli.
Per cui l'uomo di pace
si impegna a combattere tutto ciò
che crea disuguaglianze, divisioni e ingiustizie.
Signore, apri i nostri cuori
affinché siano spezzate le catene
della violenza e dell’odio,
e finalmente il male sia vinto dal bene…
Come i giusti dell’Apocalisse scruto i cieli e sfido l’Altissimo:
fino a quando, Signore? Quando farai giustizia?
Dischiudi i sette sigilli che impediscono di penetrare il Libro della Vita
e manda un Angelo a rivelare i progetti eterni,
a introdurci nella tua pazienza, a istruirci col saggio Qoelet:
“””Vanità delle vanità: tutto è vanità”””.
Tutto…tranne l’amare.
(Fonti: https://svppbellum.blogspot.com/, Web, Google, ilbolive.unipd, Wikipedia, Ispionline, Libero-quotidiano, You Tube)