domenica 7 luglio 2019

La Caproni, una delle più importanti aziende aeronautiche, navali e metalmeccaniche italiane.

Gianni Caproni

La Caproni era un'impresa del settore metalmeccanico che rappresentò altresì una delle più importanti aziende aeronautiche italiane. Fondata da Giovanni Battista Caproni, dopo alterne vicende durante gli anni trenta assunse le dimensioni di un vero e proprio gruppo industriale.
Grazie all'acquisizione di realtà prestigiose come le Officine Meccaniche Reggiane e l'Isotta Fraschini l'azienda arrivò a vantare una produzione diversificata che spaziava dalle automobili alle vetture tranviarie.
Lo stabilimento di Taliedo terminò la sua attività nel 1950 dopo essere andata in bancarotta, in seguito alla crisi del dopoguerra. Analoga sorte toccò alle altre consociate, ultima delle quali la Caproni Vizzola, venne rilevata negli anni 1980 dalla Agusta.




Settori di attività

La personale passione del fondatore per il trasporto aereo portò a focalizzare la prima produzione aziendale nella progettazione e costruzione di aerei.




Aviazione

La vasta produzione dei velivoli diede fama all'azienda, grazie alle importanti commesse militari acquisite nella fase pionieristica di questo comparto, che diede la possibilità di sviluppare numerose tecnologie allora innovative e conquistare record significativi.
Il Ca.1, primo biplano prodotto, portò a sviluppare la formula di questo aereo, sviluppando la serie Ca.1-Ca.7 costituita da singoli prototipi. Ci si concentrò di seguito sulla costruzione sui monoplani Ca.8-Ca.16 di cui vennero realizzati complessivamente 71 esemplari fra prototipi e modelli di serie.
Da questa serie di monoplani venne sviluppato il Ca.18, destinato al 1º concorso militare italiano che si tenne all'inizio del 1913; alla fine di tale anno venne effettuato un ordine per un lotto di Ca.18, che andarono ad equipaggiare la 15ª Squadriglia da bombardamento Caproni, prima ad impiegare velivoli di costruzione e progetto italiani.
Nel medesimo anno fu concepito un biplano plurimotore da bombardamento, il Ca.30, il cui progetto godeva dell'appoggio di Giulio Douhet, comandante del Battaglione Aviatori e tra i primi teorici del bombardamento strategico. Il prototipo Ca.31, che differiva dal progetto preliminare del Ca.30 per l'installazione dei 3 motori, vide la luce solo nell'ottobre 1914, quando compì il primo volo ai comandi di Emilio Pensuti. Il ritardo era dovuto all'opposizione del generale Maurizio Moris, ispettore dell'Aeronautica, che lo giudicava un progetto "militarmente inutile e tecnicamente sbagliato", e solo grazie a Douhet che si assunse le responsabilità della costruzione, occultandola agli alti vertici, il primo dei bombardieri Caproni poté essere realizzato.




Iniziò così l'epopea dei trimotori Caproni, utilizzati dalle aeronautiche italiana, francese, britannica e statunitense, che divennero il bombardiere alleato più utilizzato con oltre 1.100 esemplari prodotti nelle diverse serie che includevano i biplani Ca.32, Ca.33, Ca.44, Ca.45 e Ca.46 e i triplani Ca.40, Ca.41, Ca.42 e Ca.43. Il Ca.44, e le sue varianti con differenti motorizzazioni, fu oggetto di un massiccio ordine di 3.650 esemplari, che dovevano essere realizzati da diverse ditte. La fine del conflitto e problemi nella messa a punto dei motori, fecero sì che delle diverse serie di questi trimotori ne venissero realizzati circa 600 esemplari. Nel 1914 Caproni aveva nel frattempo derivato dal Ca.18 il Ca.20, primo esempio di caccia monoplano concepito per questo scopo, che rimase però allo stadio di prototipo.




Terminato il primo conflitto mondiale i trimotori Caproni convertiti come aerei civili non ottennero significativi successi. Tra il 1920 ed il 1921, Caproni si dedicò così ad un progetto particolarmente visionario, il Caproni Ca.60 Transaereo, un gigantesco idrovolante a scafo per 100 passeggeri, destinato a rotte transatlantiche, che adottava una tre gruppi di ali triplane in tandem sopra la fusoliera a scafo. Tale prototipo riuscì a compiere solo un breve balzo il 4 marzo 1921, prima di essere distrutto nell'hangar dove era ricoverato per le riparazioni. Grazie al lavoro congiunto di Caproni e Verduzio, con la collaborazione di Umberto Nobile venne realizzato il Ca.73, il primo aereo italiano con costruzione interamente metallica, un biplano bimotore da trasporto o bombardamento che compì il primo volo nel 1924 e rimase la spina dorsale dei reparti da bombardamento della Regia Aeronautica fino ai primi anni trenta.




Anche se orientata verso un mercato più ampio, la Caproni, non tradì la riconoscenza nei confronti di Giulio Douhet, tra i primi teorici del bombardamento strategico, e la cui ferma fiducia nei confronti del progetto Ca.30-Ca.31aveva consentito alla Caproni di costruirsi la sua fama. Nella seconda metà degli anni venti iniziarono così a vedere la luce diversi progetti di bombardieri pesanti, che vennero testati dalla 62a Squadriglia "Bombardieri Giganti". Tra questi il Ca.90, il più grande aereo terrestre del periodo che detiene il primato di più grande biplano mai costruito. Questi velivoli rimasero però tutti allo stadio di prototipo, in quanto la Regia Aeronautica preferì investire sui bombardieri medi.




Fra i velivoli sviluppati successivamente figurano quelli progettati dell'ingegner Luigi Stipa e dell'ingegner Campini. Lo Stipa Caproni, del 1932, servì da banco di prova volante per sperimentare l'elica intubata; il prototipo non ebbe seguito, e solo successivamente Luigi Stipa ne riprese lo sviluppo in Francia.
Gli Trenta rappresentarono anche l'apice della tecnologia aeronautica italiana in termini di conquista di primati, raid e trasvolate. Sebbene siano note soprattutto le gesta degli idrocorsa Macchi, e dei Savoia-Marchetti S.55 e S.M.79, anche gli aerei Caproni furono impiegati in record e trasvolate: il biplano Ca.161 detiene il primato di altezza per aerei con motore a pistoni, con 17.176 m. Un Ca.101 fu invece impiegato in due raid, un Milano-Mosca e uno in Africa.




Il motogetto sperimentato sul Campini C.C.2 del 1940, secondo aereo a getto del mondo, venne valutato per equipaggiare il progetto del Ca.183bis. Questo caccia d'alta quota, avrebbe dovuto utilizzare il compressore Campini come ausilio al motore Daimler-Benz DB 605 in quota, ma non arrivò al completamento del prototipo per lo stallo industriale seguito all'armistizio dell'8 settembre 1943.
Significativi i monoplani ad ala alta da trasporto e bombardamento della famiglia Ca.101-Ca.111-Ca.133, trimotori e monomotori largamente impiegati nelle colonie, in particolare durante la guerra d'Etiopia che rimasero in servizio per compiti secondari anche durante la seconda guerra mondiale trovando anche un discreto successo nell'esportazione.
Per il concorso Caccia C del 1939, Caproni presentò un velivolo completamente nuovo: il Caproni Ca.350, progettato dall'ing. Cesare Pallavicino, che non venne però accettato perché monomotore.
A vedere l'azione durante la seconda guerra mondiale furono due famiglie di velivoli, nessuna delle quali prodotta dalla casa madre di Taliedo: i caccia Reggiane e i bimotori multiruolo della serie Ca.309- Ca.310- Ca.311- Ca.313- Ca.314 progettati da Cesare Pallavicino dei Cantieri Aeronautici Bergamaschi (Caproni Bergamasca).
Al concorso indetto il 5 gennaio 1938 dalla Regia Aeronautica per un caccia monoplano ad ala bassa con carrello retrattile, parteciparono due aziende del gruppo Caproni: la Reggiane, con il Re.2000, e la Caproni Vizzola, con l'F.5. Entrambi i velivoli si dimostrarono superiore ai G.50 e M.C.200, vincitori del concorso ministeriale. Dei due caccia Caproni venne ordinato solo un piccolo lotto ciascuno, ma il Re.2000, si rifece trovando sbocco nell'esportazione. I successivi modelli Reggiane, Re.2001, Re.2002 e Re.2005, trovarono maggiore impiego da parte della Regia Aeronautica, comunque i successivi caccia Fiat e Macchi avevano presto colmato il divario che li separava dai velivoli di Reggio Emilia. L'F.6 sviluppo successivo della casa di Vizzola Ticino, con differenti motorizzazioni, F.6M ed F.6Z, rimase invece al solo stadio di prototipo.




Al contrario dei caccia Reggiane e Caproni Vizzola, i bimotori della Caproni Bergamasca entrarono in servizio praticamente senza contendenti: l'unico velivolo concorrente e dalle prestazioni superiori, il C.R.25 vene realizzato in unico lotto, per evitare di distogliere la Fiat dalla produzione dei caccia e soprattutto perché la produzione di motori Fiat A.74 che lo equipaggiavano doveva essere destinata tutta alla caccia. Sebbene il Ca.310, prima, ed il Ca.313, poi, avessero trovato un buon successo nelle esportazioni, con tanto di ordini da parte di Francia e Regno Unito, la famiglia di bimotori si rivelò deludente sotto molti punti di vista, e solo gli esemplari delle ultimi serie raggiunsero produzioni accettabili. Principale difetto era la scarsa potenza dei propulsori Isotta Fraschini. Alla carenza di prestazioni, che faceva di questi aerei una facile preda della caccia nemica, si accompagnavano delle caratteristiche di volo scarse in termini di manovrabilità. I modelli successivi al Ca.310 si rivelarono comunque soddisfacenti nei ruoli di ricognitori o di scorta convogli, anche se in quest'ultimo caso forse troppo vulnerabili. Pessimi furono invece i risultati dell'impiego dei Ca.310 come assaltatori in Africa settentrionale, ruolo in cui erano stati adattati in emergenza per rimpiazzare i Breda Ba.88, le cui gravi deficienze ne avevano reso impossibile l'impiego operativo. D'altronde i Ca.310 usati come assaltatori provenivano da un lotto di 33 velivoli venduti all'Ungheria nel 1939, ma ritornati all'Italia l'anno successivo. Gli ungheresi, insoddisfatti dai Ca.310, optarono per un cambio con i bimotori Caproni Ca.135, velivolo non particolarmente brillante già in servizio con la Magyar Királyi Honvéd Légierö, ma che nelle prime fasi della guerra contro l'URSS ottenne diversi successi.
Ultimo velivolo a portare il nome Caproni, il Caproni Vizzola C-22J, sviluppato alla fine degli anni settanta, dalla Caproni Vizzola, produttrice di alianti e motoalianti. Sviluppato dal motoaliante A-21J Calif, volò per la prima volta il 21 luglio 1980. Il suo sviluppò continuò per qualche tempo dopo che la ditta venne rilevata dalla Agusta, ma non venne mai prodotto in serie.




Nautica

Gianni Caproni ebbe una storia rilevante anche come costruttore navale, di imbarcazioni e di motori, nei primi Trenta rilevò la Isotta Fraschini che oltre alle auto produceva poderosi motori marini che vennero montati sui cosiddetti MAS (Motoscafo armato silurante o Motoscafo Antisommergibili) o le MTB motosiluranti, questi mezzi furono esportati in: Turchia, Giappone, Russia, Gran Bretagna e Svezia.
Oltre alla produzione di motori per uso marittimo, lo Stabilimento Aeroplani Caproni di Taliedo, mise a frutto la sua capacità industriale per sviluppare un tipo di motovedetta ed in seguito progettò e produsse i sommergibili tascabili Caproni CA e Caproni CB, con equipaggio di tre persone.
Verso la fine della seconda guerra mondiale la ditta iniziò a produrre il Siluro San Bartolomeo, versione modificata del cosiddetto SLC (Siluro a Lenta Corsa).




Motociclismo

Tra la fine degli anni quaranta e gli anni sessanta gli stabilimenti di Taliedo, Arco di Trento e Vizzola Ticino si dedicarono anche alla produzione di motocicli:
la Caproni-Taliedo presentò nel 1946 un ciclomotore spinto da un motore a due tempi di 42 cm³ (venduto anche singolarmente) con cambio idraulico a due marce e telaio molleggiato, la cui produzione non andò mai al di là di qualche esemplare;
la Aeroplani Caproni Trento o Aerocaproni, collaborò con la Ducati, per la quale realizzava i telai del Cucciolo, della Ducati 60, e in occasione del Salone di Milano 1951 presentò la motoleggera Capriolo 75, con motore monocilindrico monoalbero e telaio in lamiera stampata, che ottenne un buon successo sia commerciale che sportivo. Ad essa si affiancò due anni dopo la bicilindrica boxer Cento50, e nel 1956 il Capriolo 125 monocilindrico. Nel 1957 l'azienda divenne di proprietà regionale, cambiando nome in Aeromere (acronimo di Aero Meccanica Regionale) proseguendo la costruzione dei modelli di 75 e 125 cm³, cui si affiancò anche un 100 cm³. La produzione proseguì sino al 1962, cessando a causa della crisi che all'epoca coinvolgeva il settore motociclistico italiano;
la Caproni-Vizzola presentò al Salone di Milano 1953 un modello con motore NSU Max 250, cui se ne affiancò un altro con motore NSU Lux 200, un ciclomotore sempre con motore NSU e una 175 cm³ con motore FBM; la produzione cessò nel 1959.

Trasporti urbani

Le industrie Caproni, che nel 1942 si erano cimentate nella costruzione di un prototipo di autoblindo leggero, denominato Vespa-Caproni mai entrato in produzione, tornarono alla costruzione dei veicoli su gomma negli anni sessanta, quando la Caproni Vizzola fu impegnata nella realizzazione di carrozzerie per autobus, con allestimenti orientati soprattutto al diffuso veicoli urbano di piccole dimensioni Fiat 414.
Anche il settore tranviario non fu trascurato, portando nel secondo dopoguerra alla produzione fra l'altro alla costruzione dei tram romani della serie 2500 e a quelli milanesi della serie 700, nonché alla riconversione in rimorchiate di alcuni tram milanesi.




Storia

Le origini

Giovanni Battista "Gianni" Caproni era originario di Arco nell'allora Impero austro-ungarico, dopo gli studi compiuti tra Monaco di Baviera e Liegi, ed un successivo soggiorno a Parigi, volle dedicarsi costruzione di aerei scegliendo di svolgere la sua attività in territorio italiano, in quanto la sua famiglia era di solide tradizioni irredentiste.
Il suo primo velivolo a motore compì il primo volo il 27 maggio 1910 a Cascina Malpensa, dove fondò con suo fratello Federico Caproni la Società d'Aviazione Fratelli Caproni. Il nome e l'assetto della società cambiarono più volte negli anni successivi.
Verso la fine del 1910, Gianni Caproni si trasferì a Vizzola Ticino avviando lì la produzione di serie a partire dal 1911.
Nel frattempo Caproni aveva infatti affiancato all'azienda aeronautica la Scuola di Aviazione Caproni ed iniziò ad affermarsi il prestigio della ditta a livello internazionale. In quegli anni infatti il Ca.11 conquistò il primato di velocità nazionale, ed il Ca.12 il primato mondiale. Proprio con il Ca.12 ci fu anche il primo servizio aereo per un passeggero pagante in Italia, il 22 aprile 1912 al Lido di Venezia.
Trovatasi in difficoltà economiche, e nell'estate 1913 l'azienda venne rilevata dal Regio Esercito e Giovanni Battista Caproni rimase come direttore tecnico dello stabilimento.

La prima guerra mondiale

Nel 1915, con l'entrata in guerra dell'Italia, il Regio Esercito decise di avviare la produzione in serie del Ca.31, affidando il compito alla S.S.A.I.- Società per lo sviluppo dell'Aviazione in Italia, costituita da banchieri, industriale e senatori, che si impegnò a rilevare e ampliare lo stabilimento di Vizzola e alla costruzione di un nuovo stabilimento a Taliedo, nella periferia di Milano, nei pressi di quello che sarebbe in seguito diventato l'Aeroporto di Milano-Linate, in via Mecenate; i capannoni vennero in seguito utilizzati dalla Rai per i propri studi televisivi.
Nel 1917 Gianni Caproni, insieme al fratello Federico, rilevò l'azienda che assunse il nome di Società Italiana Caproni, con stabilimenti a Vizzola Ticino e Taliedo. Nel 1929 il nome mutò ulteriormente in Aeroplani Caproni s.a.
Grazie al successo dei trimotori, la Caproni ed il suo fondatore sono ricordati come pionieri dei velivoli da bombardamento.

Verso il secondo conflitto

Terminato il conflitto e ridimensionate le possibilità di sviluppo della produzione dei bombardieri, la Caproni iniziò la riconversione dei trimotori da bombardamento come aerei di linea. Gianni Caproni fu infatti tra i primi ad intuire le potenzialità del trasporto passeggeri.
Nel primo dopoguerra entrò a far parte della ditta l'ingegner Rodolfo Verduzio, che prima affiancò Gianni Caproni nella progettazione dei velivoli, per poi diventare il principale progettista della ditta.
All'inizio del 1918 l'azienda concluse un accordo con le Officine Meccaniche Reggiane, che furono poi rilevate negli anni trenta. Le stesse erano infatti tra le ditte impegnate nel massiccio ordine per i biplani trimotori da bombardamento della famiglia dei Caproni Ca.44, Ca.45 e Ca.46. Di tale commessa di 300 esemplari ne venne solo avviata la produzione, e forse soltanto un esemplare venne assemblato negli stabilimenti di Reggio Emilia, con parti provenienti da altri stabilimenti.
A cavallo degli anni venti e trenta la Caproni si consolidò sul mercato nazionale ed internazionale. Tra le acquisizioni più rilevanti del periodo, quella della Isotta Fraschini. Oltre ai progetti sviluppati indipendentemente dalle diverse consociate, alcuni progettisti esterni quali Secondo Campini, Luigi Stipa, Ercole Trigona e l'ingegner Chiodi trovarono nella Caproni esperienza e risorse per realizzare le loro idee.
Nella seconda metà degli Trenta il gruppo Caproni si arricchì dell'esperienza di due noti progettisti: Giovanni Pegna che passò dalla Piaggio alla Reggiane, Cesare Pallavicino, dalla Breda alla Caproni Bergamasca e Raffaele Conflenti, già direttore tecnico della Società Idrovolanti Alta Italia, della Chantiers Aéro-Maritimes de la Seine (CAMS) e della Cantieri Riuniti dell'Adriatico (CRDA).
Grazie alla Isotta Fraschini acquisita nel 1932, ed alla Motori marini Carraro, l'azienda estese la sua attività anche al settore dei motori ed a quello navale.
Nel 1935, venne aperto uno stabilimento aeronautico anche a Predappio, paese natale di Benito Mussolini, con una scelta quindi molto significativa dal punto di vista propagandistico; va inoltre tenuto presente che la scelta del luogo era anche collegata al fatto che Predappio si trova nei pressi di Forlì, dove, prima della seconda guerra mondiale, era il più grande aeroporto militare d'Italia: i velivoli più grandi, infatti, venivano definitivamente assemblati direttamente nell'aeroporto stesso. Oltre agli impianti industriali, venne costruito a Predappio anche un edificio di rappresentanza, per gli uffici e l'alloggio degli ingegneri. Lo stabilimento giunse ad occupare 1400 dipendenti. Parte dello stabilimento di Predappio era ubicato in una lunga galleria scavata sitto la montagna, cosa che dava riparo contro eventuali attacchi aerei nemici. La galleria, dopo un lungo periodo di chiusura, è diventata, dal 2015, sede del laboratorio Ciclope (Centre for International Cooperation in Long Pipe Experiments), specializzato in studi sulle turbolenze, al servizio in primo luogo dell'industria aerospaziale.
L'Armistizio dell'8 settembre 1943, come per le altre industrie italiane, rappresentò la fine dei diversi programmi di sviluppo di nuovi velivoli. Il controllo delle industrie del gruppo passò in mano ai tedeschi e la produzione finalizzata alle necessità belliche del Terzo Reich come nella Galleria Adige-Garda dove furono prodotti pezzi per le cosiddette Wunderwaffen.

Dopoguerra e chiusura

Il dopoguerra si aprì per la Caproni con una profonda crisi economica. A questo si aggiunse l'ordine di arresto spiccato nei confronti di Gianni Caproni per collaborazione con le forze occupanti tedesche e per aver favorito il regime fascista. Questi venne poi assolto nel 1946 in fase istruttoria per non aver commesso il fatto.
A partire dall'anno successivo e fino al 1951 Caproni girò per il mondo alla ricerca di finanziatori e commesse, mentre la ditta investiva le sue ultime risorse per il progetto del piccolo bimotore da trasporto executive Ca.193. L'aereo volò per la prima volta il 13 maggio 1949, ma non ottenne alcun ordine, anche se l'aereo venne acquistato nel 1950 dalla Aeronautica Militare Italiana.
Venne dunque avviata una riconversione produttiva, con la costruzione di autobus, automobili e ciclomotori. Nonostante le numerose commesse di lavoro, la stretta creditizia e scelte governative che privilegiarono gli interessi della FIAT, costrinsero al fallimento e alla chiusura dello stabilimento di Taliedo nel dicembre 1949, dopo aver licenziato circa 5.000 dipendenti.
Pochi anni dopo analoga sorte toccava alla Aeroplani Caproni Trento, che aveva sviluppato il biposto a getto Caproni Trento F.5 su progetto dell'ingegner Stelio Frati. L'aereo volò per la prima volta il 20 maggio 1952. Anche questo aereo rimase senza ordini, e venne poi rilevato dall'Aeronautica Militare.
Gianni Caproni morì a Roma il 29 ottobre 1957, non prima di aver ricevuto dall'ambasciatore degli Stati Uniti d'America un ambito riconoscimento da parte del Presidente Eisenhower per quanto aveva fatto. Lasciò, a testimonianza del suo impegno nella nascita e nello sviluppo dell'aviazione, 170 progetti, oltre 160 brevetti, 170 tipi di aereo realizzati e 72 record conquistati.

Dati societari

Il gruppo Caproni negli anni Trenta arrivò ad includere più di 20 società. L'attività di queste ditte era principalmente nel settore aeronautico: produzione dei velivoli Caproni, produzione su licenza (in particolare di velivoli Savoia-Marchetti) e sviluppo di progetti in maniera autonoma.
Il gruppo Caproni aveva aziende collegate anche all'estero: Stati Uniti, Belgio, Bulgaria e Perù.

Fra i principali stabilimenti di produzione si ricordano:
  • Cantieri Aeronautici Bergamaschi (CAB) - Caproni Bergamasca. I velivoli realizzati e sviluppati da questa consociata sono quelli della serie 300. Tra questi, quello di maggior successo fu la serie di bimotori progetta da Cesare Pallavicino, Ca.309, Ca.310, Ca.311, Ca.313 e Ca.314. La serie di velivoli trovò ampio sbocco all'estero. Prima dei bimotori la ditta si era cimentata nell'assaltatore Caproni A.P.1.
  • Aeroplani Caproni Trento. Questa ditta sopravvisse al crollo della casa madre come officina per la manutenzione e riparazione di velivoli. Nel 1951 progettò il Caproni Trento F.5 un piccolo biposto da addestramento potenziato da un turboreattore.
  • Caproni Vizzola. La ditta costruttrice di alianti, con sede a Vizzola Ticino, fu l'ultima delle diverse consociate a restare in attività. Tra il 1939 ed il 1943 sviluppò diversi prototipi di caccia: i Caproni F.4, F5 e F6. Nei primi anni ottanta sviluppò il Caproni Vizzola C-22J un biposto da addestramento basico, derivato da uno dei motoalianti a getto prodotti dalla ditta. Allo sviluppo partecipò anche l'Agusta, ma il progetto non ebbe seguito. Questo è stato l'ultimo velivolo a portare il nome della Caproni, la più antica fabbrica aeronautica italiana.
  • Reggiane. Sviluppò i caccia della serie 2000, impiegati dalla Regia Aeronautica ed esportati anche in Svezia e Ungheria. Tradizionalmente impegnata nel settore ferroviario, durante la prima guerra mondiale la Reggiane era tra le ditte destinate alla produzione dei bombardieri della serie Ca.44, ma entrò ufficialmente a far parte del gruppo Caproni solo nel 1935.
  • Kaproni Bulgarski. La ditta Avia, fondata come sussidiaria della ditta cecoslovacca Aero nel 1926 a Kasanlak in Bulgaria, venne acquisita nel 1930 dalla Caproni. La ditta principalmente produsse su licenza i velivoli della Casa Madre, ma sviluppò anche alcuni progetti indipendenti, come KB 11 Fazan (fagiano in lingua bulgara). Il 15 settembre 1942 la ditta venne nazionalizzata, e ribattezzata DSF Kasanlak. I direttori tecnici italiani Caligaris e Picini rimasero comunque al loro posto.
  • Caproni Aeronautica Peruana. La società venne creata nel 1934 in Perù, principalmente per fornire uno sbocco commerciale e manutenzione ai velivoli della casa madre. La Caproni, con un contratto con il governo locale, nel 1935 assunse una posizione monopolistica con un termine di 2 anni per quanto riguarda manutenzione e costruzione di velivoli. Venne costruito su licenza anche il Ca.100 in 12 esemplari.
  • Aeronautica Caproni di Predappio. Lo stabilimento divenne operativo nel 1935 e giunse a dare lavoro a 1400 dipendenti. Parte dello stabilimento era ubicato in una galleria, che lo metteva al riparo da eventuali bombardamenti di aerei nemici. La scelta della località fu dovuta in parte a motivi propagandistici, dato che Predappio era il paese natale del Duce, ed in parte a motivi logistici: nella vicina Forlì sorgeva il più importante aeroporto militare italiano, quindi collocare nelle vicinanze un'attività di produzione di velivoli pareva ragionevole: in effetti, l'assemblaggio degli apparecchi di maggiori dimensioni era compiuto direttamente in aeroporto. Nello stabilimento di Predappio, tra l'altro, vennero anche costruiti gli aerei trimotori Savoia Marchetti S.M. 81 Pipistrello.

(Web, Google, Wikipedia, You Tube)




































sabato 6 luglio 2019

La storia del Vittoriano o ALTARE DELLA PATRIA


La storia del Vittoriano, complesso monumentale nazionale italiano situato a Roma in piazza Venezia sul versante settentrionale del colle del Campidoglio, inizia nel 1878 quando venne deciso di erigere nella capitale un monumento permanente intitolato a Vittorio Emanuele II di Savoia, primo re d'Italia dell'epoca moderna, che portò a compimento il processo di unificazione italiana, tant'è che viene indicato dalla storiografia come "Padre della Patria".




Nel 1880, per la costruzione del monumento, fu bandito un primo concorso internazionale, vinto dal francese Henri-Paul Nénot, al quale però non fece seguito una fase attuativa del progetto. A questo primo tentativo seguì nel 1882 un secondo concorso, vinto da Giuseppe Sacconi, che divenne poi l'architetto progettista del Vittoriano. La prima pietra del monumento fu posta solennemente da re Umberto I di Savoia nel 1885. Per erigerlo fu necessario procedere, fra il 1885 e il 1888, a numerosi espropri e demolizioni di edifici preesistenti nella zona adiacente al Campidoglio, effettuati grazie a un preciso programma stabilito dal governo guidato da Agostino Depretis.
Il complesso monumentale venne inaugurato da re Vittorio Emanuele III di Savoia il 4 giugno 1911, in occasione degli eventi collegati all'Esposizione internazionale di Torino, durante le celebrazioni del 50° anniversario dell'Unità d'Italia. Nel 1921 una parte del monumento, l'Altare della Patria, originariamente ara della dea Roma, fu scelta per accogliere le spoglie del Milite Ignoto, la cui salma fu tumulata il 4 novembre con una cerimonia a cui partecipò un'immensa folla. Gli ultimi lavori di completamento dell'opera ebbero luogo nel 1935, con la realizzazione del Museo centrale del Risorgimento, che fu inaugurato e aperto al pubblico decenni dopo, nel 1970.
Con l'avvento del fascismo (1922) il Vittoriano diventò uno dei palcoscenici del regime guidato da Benito Mussolini. Con la caduta del fascismo (25 luglio 1943) e la fine della seconda guerra mondiale (2 settembre 1945), da cui conseguì il referendum del 2 giugno 1946, dopo il quale fu proclamata la Repubblica Italiana, il Vittoriano tornò alla precedente funzione ridiventando – grazie al richiamo della figura di Vittorio Emanuele II di Savoia e alla realizzazione dell'Altare della Patria – un tempio laico dedicato metaforicamente all'Italia libera e unita e celebrante – in virtù della tumulazione del Milite Ignoto – il sacrificio per la patria e per gli ideali ad essa collegati. Negli anni sessanta del XX secolo iniziò un lento disinteressamento degli italiani nei confronti del Vittoriano: quest'ultimo non era infatti più visto come uno dei simboli dell'identità nazionale, ma come un ingombrante monumento rappresentante un'Italia sorpassata dalla storia.
Fu l'ex Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, all'inizio del XXI secolo, a iniziare un'opera di valorizzazione e di rilancio dei simboli patri italiani, Vittoriano compreso. Grazie a Ciampi, il Vittoriano tornò ad essere il luogo più importante dove vengono organizzati gli eventi più ricchi di simbolismo nazionale. L'iniziativa di Ciampi è stata continuata dai suoi successori.




Le scelte progettuali

Il progetto di Ettore Ferrari e Pio Piacentini si ispirava ai grandi santuari ellenistici, come l'Altare di Zeus a Pergamo e il Santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina. Il Vittoriano fu ideato come un grande e moderno foro aperto ai cittadini, situato su una sorta di piazza sopraelevata nel centro storico di Roma organizzata come un'agorà su tre livelli collegati da gradinate, con cospicui spazi riservati al passeggio dei visitatori.
Sulla sua sommità ci sarebbe stato un maestoso portico caratterizzato da un lungo colonnato e da due imponenti propilei, uno dedicato all'"unità della patria" e l'altro alla "libertà dei cittadini", concetti metaforicamente legati, come già accennato, alla figura di Vittorio Emanuele II di Savoia: sarebbe quindi diventato uno dei simboli della nuova Italia affiancandosi ai monumenti dell'antica Roma e a quelli della Roma dei papi. Essendo poi stato architettonicamente concepito come una grande piazza pubblica, il Vittoriano, oltre a rappresentare un memoriale dedicato alla persona di re Vittorio Emanuele II di Savoia, fu investito di un altro ruolo: un moderno foro dedicato alla nuova Italia libera e unita.
Da un punto di vista architettonico, il monumento sarebbe dovuto essere costituito da una serie di scalinate adattate ai fianchi scoscesi del colle del Campidoglio. Tutto il monumento, che sarebbe poi apparso come una sorta di rivestimento marmoreo del versante settentrionale del Colle del Campidoglio caricandosi di significati simbolici legati al Risorgimento. L'area specifica per la costruzione del monumento fu inizialmente individuata in piazza dell'Esedra (la moderna "piazza della Repubblica"): in seguito fu deciso di realizzare l'edificio a nord della basilica di Santa Maria in Aracoeli, con la costruzione di una nuova piazza alle pendici del Vittoriano, piazza Venezia.
Il progetto originario del Vittoriano (uno dei più grandiosi realizzati nel XIX secolo in Italia) prevedeva l'utilizzo del marmo per il sommo portico e del travertino (pietra tradizionale degli edifici dell'antica Roma) per la restante parte del monumento: il Vittoriano venne però poi interamente realizzato in marmo botticino, più facilmente modellabile e più simile ai marmi bianchi che gli antichi romani usavano nelle costruzioni più rappresentative.




La prima scelta cadde sul marmo di Carrara, ma la richiesta di un prezzo giudicato troppo elevato dalla commissione reale spinse quest'ultima, il 2 luglio 1889, a decretare l'utilizzo del marmo botticino. Fu scelto il marmo botticino soprattutto per le sue peculiarità cromatiche: rispetto al marmo di Carrara, che è caratterizzato da un bianco assoluto, il marmo botticino ha una tonalità bianca che possiede una leggera tendenza al giallo paglierino, caratteristica che conferisce a questo materiale un maggiore "calore" rispetto al marmo di Carrara. A causa del cambiamento del tipo di marmo, che avrebbe fornito una luminosità differente, Giuseppe Sacconi fu obbligato a rivedere il progetto, che fu quindi oggetto di lievi modifiche.
Il marmo botticino prende il nome dalla sua zona di estrazione, Botticino, comune italiano a nord-est di Brescia, che è distante circa 500 chilometri da Roma. La scelta di sostituire il travertino scelto dal Sacconi con il marmo botticino generò così molte polemiche, che vennero originate dalla distanza da Roma delle cave di marmo botticino, giudicata eccessiva: a pochi chilometri a sud-est di Roma, nei pressi dei Tivoli, erano infatti presenti ampi giacimenti di travertino, tutt'oggi ampiamente sfruttati in una molteplicità di cave da numerose aziende locali. L'utilizzo del travertino per gli edifici di Roma era tipico già in età augustea, con l'eccezione dei templi, per cui si usava il marmo.
Il Vittoriano fu quindi originariamente pensato da Sacconi con tonalità bicroma, cioè con due gradazioni dominanti, colori che erano originati dall'uso di due materiali di rivestimento differenti: il travertino e il marmo botticino. La scelta di usare poi solo il marmo botticino, decisione che fu presa commissione reale in contrasto con l'opinione di Sacconi, obbligò quest'ultimo ad arricchire il Vittoriano di ulteriori fregi, trofei, bassorilievi e piccole statue, tutte collocate lungo i muri perimetrali del Vittoriano, che nel complesso fornivano all'occhio dell'osservatore un impatto visivo paragonabile alla bicromia dovuta all'ipotetico uso di due materiali diversi di rivestimento. Per poi attirare lo sguardo dell'osservatore verso il sommoportico, in luogo di un materiale di copertura differente, Sacconi fu obbligato a rivedere le decorazioni di questa parte del monumento, che furono rese più ricche e vistose grazie anche all'aggiunta di alcune piccole statue.




I ritrovamenti archeologici

La direzione dei lavori fu affidata, grazie a un regio decreto datato 30 dicembre 1884, a Giuseppe Sacconi, con l'apertura ufficiale del cantiere che avvenne il 1º gennaio 1885. La solenne cerimonia della posa della prima pietra del Vittoriano avvenne il 22 marzo 1885 alla presenza di re Umberto I di Savoia, della regina Margherita di Savoia e dell'intera famiglia reale nonché di una folta rappresentanza straniera. Il discorso ufficiale fu tenuto dal presidente del Consiglio dei Ministri Agostino Depretis, mentre i documenti e la pergamena a ricordo dell'inaugurazione furono murati nel terzo pilone di fondazione del sommo portico.
Durante i primi scavi, nel 1887, in luogo del tufo compatto su cui il monumento si sarebbe dovuto poggiare, che tutti si aspettavano, si trovarono argille fluviali, banchi di sabbia e una cospicua presenza di caverne, cunicoli e cave. Le caverne e i cunicoli erano in parte previsti, visto che si sapeva che in tempi antichi la zona era stata scavata dai romani, ma non era stata preventivata una loro presenza così massiccia.
Giuseppe Sacconi fu obbligato a modificare il progetto e a prevedere un'opera di rinforzamento dei cunicoli con la costruzione di strutture che poggiavano sulle loro volte. Alcune cave furono poi utilizzate durante la seconda guerra mondiale (1940-1945) come rifugio antiaereo. Durante gli scavi venne anche alla luce un tratto delle mura serviane, prima cinta muraria della città risalente al VI secolo a.C., ovvero all'epoca dei re di Roma, nonché i resti di un mammuth, mammifero estinto vissuto nella preistoria: entrambi i ritrovamenti furono inglobati nei muri dell'erigendo Vittoriano (senza però distruggerli e lasciando la possibilità ispezionarli), tranne alcune parti dell'animale fossile, che furono trasferite all'università di Roma. Vennero poi rinvenuti molti altri reperti romani, sparsi sull'intera area del cantiere, tra cui resti di costruzioni, statue, capitelli, oggetti di uso comune, ecc.




Conseguenza del ritrovamento delle mura serviane fu una modifica sostanziale del progetto: vennero aggiunti altri due piloni di fondazione al sommo portico, così da lasciare liberi e ispezionabili i reperti archeologici rinvenuti durante i lavori di sbancamento. Per tale motivo il sommo portico fu maggiormente incurvato e ne vennero cambiate le dimensioni, che passarono da 90 a 114 metri di lunghezza, con il numero di colonne, comprese quelle propilei, che aumentò da sedici a venti. Le colonne, inoltre, vennero rese più slanciate.
A causa dell'allungamento del sommo portico, la visione globale del Vittoriano sconfinò dai limiti previsti, diventando l'elemento preminente, da un punto di vista architettonico, di piazza Venezia. In origine il Vittoriano era infatti stato pensato come uno dei tanti degli edifici presenti in questa piazza, senza quindi una prevalenza architettonica così spiccata: con il suo ingrandimento si rese necessario l'intervento sugli edifici presenti nella piazza che erano in asse visiva con i nuovi limiti estremi del Vittoriano, ovvero palazzo Venezia e palazzo Torlonia, che furono entrambi demoliti, con il primo che venne ricostruito considerando la novità architettonica rappresentata dall'ingrandimento del Vittoriano.
Altra modifica in corso d'opera fu quella pensata nel febbraio del 1888, quando Giuseppe Sacconi decise di prevedere, all'interno del Vittoriano, degli spazi interni. L'idea gli venne dopo la scoperta dei cunicoli e delle caverne nel sottosuolo: alcune di esse furono poi sfruttate per realizzare parte degli ambienti interni del Vittoriano, ovvero stanze, cripte, gallerie e corridoi. Questi ambienti interni avrebbero poi ospitato il Museo centrale del Risorgimento, il Sacrario delle Bandiere e la cripta del Milite Ignoto.
Questa fu anche una necessità visto che non fu più possibile far gravare l'interno peso del Vittoriano sul suolo del colle del Capidoglio, e quindi si decise di sfruttare le gallerie per realizzare degli spazi architettonici interni che avrebbero avuto anche una funzione strutturale. Il progetto fu quindi modificato anche da un punto di vista estetico, visto che il Vittoriano avrebbe dovuto anche prevedere delle finestre e delle porte per gli ambienti interni, che furono poi collocate sui muri perimetrali dell'edificio.
A causa di queste modifiche il costo dell'opera passò dai nove milioni di lire inizialmente preventivati ai ventisei milioni e mezzo finali. Per realizzare le sue fondamenta fu invece necessario sbancare 70 000 metri cubi di terreno.




Le demolizioni degli edifici circostanti

Il contesto storico

Per erigere il Vittoriano fu necessario, fra gli ultimi mesi del 1884 e il 1899, procedere a numerosi espropri e a estese demolizioni degli edifici che si trovavano sul versante settentrionale del Campidoglio, quello addossato alla basilica di Santa Maria in Aracoeli, dove sarebbe sorto il monumento.
Le demolizioni legate al Vittoriano rientrarono nel progetto di modificare parte dell'aspetto di Roma in chiave più moderna: della stessa epoca del Vittoriano è, ad esempio, anche il Palazzo di Giustizia, che si trova in piazza Cavour, nell'allora nuovo rione Prati, nonché la costruzione in questi anni di Via Nazionale, arteria finalizzata a collegare la stazione ferroviaria in piazza dell'Esedra con il centro antico in piazza Venezia. Piazza Venezia, come molte vie e piazze circostanti, fu abbellita da aiuole e alberature.
I cambiamenti per Roma furono quindi considerevoli, anche perché coinvolsero anche la viabilità, con la costruzione di nuovi assi viari che vennero realizzati grazie alla demolizione di molti edifici, come via Nazionale e corso Vittorio Emanuele II. Molte strade esistenti furono ampliate e ne fu raddrizzato il percorso e furono demoliti e ricostruiti interi quartieri, come il ghetto di Roma. Il deciso anticlericalismo dovuto alla questione romana portò anche alla demolizione di molti antichi edifici religiosi di Roma.
In questo contesto fu reputato necessario dotare la città di infrastrutture e di edifici, anche simbolici come il Vittoriano, che ne rimarcassero il ruolo di capitale del neonato Regno d'Italia. Inizialmente l'idea fu quella di costruire un nuovo quartiere a nord est del centro storico dove realizzare il centro amministrativo e politico della capitale, idea realizzata decenni dopo, durante il fascismo, con la costruzione del quartiere EUR, che venne però innalzato per un altro motivo: ospitare l'esposizione universale, che non ebbe mai luogo a causa dell'inizio della seconda guerra mondiale. Il proposito di un nuovo quartiere fu quindi inizialmente scartato e venne deciso di concentrare questi nuovi edifici amministrativi nel centro storico di Roma: da ciò conseguì un massiccio acquisto, molte volte seguito da demolizioni, di antichi palazzi, monasteri, ecc..




L'obiettivo generale era anche quello di fare di Roma una moderna capitale europea che rivaleggiasse con Berlino, Vienna, Londra e Parigi superando la secolare urbanistica della Roma dei papi. In questo contesto il Vittoriano sarebbe stato l'equivalente della Porta di Brandeburgo di Berlino, dell'Admiralty Arch di Londra e dell'Opéra Garnier di Parigi: questi edifici sono infatti tutti accomunati da un aspetto monumentale e classicheggiante che comunica metaforicamente l'orgoglio e la potenza della nazione di cui sono il simbolo.
Gli ostacoli a questo obiettivo erano due: la mancanza di edifici moderni di rilievo nel centro cittadino da affiancare a quelli storici, la cui presenza era cospicua, e le dimensioni del centro abitato di Roma, che erano esigue rispetto alle altre città italiane. Nel 1870, anno di annessione del Lazio al Regno d'Italia, Roma era la quinta città italiana dopo Napoli, Milano, Genova e Palermo.
La crescita urbana della nuova capitale, divenuta ufficialmente tale il 1º luglio 1871, determinata dal trasferimento della corte reale e della classe politica e amministrativa da Torino a Roma, fu programmata con i primi tre piani regolatori generali, approvati nel 1873, nel 1882 e nel 1909. Come conseguenza la popolazione della capitale crebbe dai 212 000 abitanti del 1871, ai 660 000 del 1921, al 1 150 000 del 1936, incremento che portò Roma a raggiungere nel 1921 la palma di terza città per numero di abitanti dopo Napoli e Milano, nel 1931 la seconda città d'Italia dopo Milano (che nel frattempo aveva raggiunto la vetta di questa classifica) e nel 1936 a diventare la prima città italiana per numero di residenti, primato che non ha poi più perso: con il superamento del milione di abitanti, Roma tornò a raggiungere la popolazione che aveva durante l'epoca d'oro dell'Impero romano.
Questa cospicua immigrazione fu legata al trasferimento di decine di migliaia di burocrati, cui seguirono anche banchieri e speculatori. Uno dei motivi che spinse la classe dirigente italiana a decidere di organizzare una vasta campagna di demolizioni fu la già citata avversione contro la Roma papalina, e tutti i suoi edifici. I cospicui cambiamenti urbanistici che conobbe Roma dopo il 1870, furono i più profondi della sua storia, perlomeno considerando il breve lasso di tempo in cui avvennero. A questi lavori, che coinvolsero l'urbanistica, si associarono opere per la realizzazione e il miglioramento dei servizi, come la costruzione di nuovi ponti sul fiume Tevere, l'installazione di nuovi impianti per la distribuzione dell'acqua potabile e la realizzazione di fognature.

Gli abbattimenti relativi alla costruzione del Vittoriano

Già per la cerimonia della posa della prima pietra erano già state effettuate, in precedenza, le prime demolizioni: in particolare furono abbattute diverse abitazioni private e il giardino dei Francescani, che faceva parte del convento dell'Ara Coeli. Il luogo scelto era nel cuore del centro storico di Roma ed era quindi occupato da antichi edifici che fornivano al quartiere un'urbanistica che risaliva al Medioevo.
Le demolizioni furono reputate necessarie perché il Vittoriano sarebbe dovuto sorgere nel cuore del centro storico di Roma, in un contesto urbanistico moderno, davanti a una nuova grande piazza, la futura piazza Venezia, che all'epoca era un angusto piazzale di fronte all'omonimo palazzo. Era infatti moderno il significato simbolico del monumento: la celebrazione della nuova Italia libera e unita. Tale serie di demolizioni ha comportato anche l'allargamento dell'adiacente Piazza d'Aracoeli.

Come già accennato, fu realizzata ex novo piazza Venezia. Dall'anno 1900 al 1906 vennero eseguiti i lavori, basati sulle idee di Giuseppe Sacconi, per ampliarla e renderla di forma quadrata modernizzandone l'andamento: in precedenza i suoi confini, che erano molto più limitati di quelli l'attuale piazza, seguivano gli antichi edifici che vi sorgevano, da cui conseguiva una forma irregolare del piazzale. In particolare fu demolito, e poi ricostruito più a ovest, Palazzo Venezia, e venne abbattuto Palazzo Torlonia.
Gli abbattimenti furono effettuati grazie a un preciso programma stabilito da Agostino Depretis, presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia. I lavori di demolizione, e conseguentemente quelli di costruzione del Vittoriano, procedettero speditamente grazie a strumenti urbanistici speciali resi disponibili dal governo. Tutti gli abbattimenti, compresi quindi quelli necessari per realizzare il Vittoriano, passarono al vaglio della commissione reale che decise, tra le centinaia di edifici, o di resti archeologici, quali salvare e quali che potevano essere sacrificati.
Contro le demolizioni si espressero diverse personalità, tra cui il sindaco di Roma Leopoldo Torlonia e l'archeologo Rodolfo Lanciani. In sede parlamentare fu invece Ruggiero Bonghi, il 10 maggio 1883, ad attaccare con veemenza le demolizioni, a far muovere l'amministrazione comunale di Roma, sindaco in testa, che presentò una protesta formale contro gli espropri e le conseguenti demolizioni.

In sede parlamentare fu invece Ruggiero Bonghi, il 10 maggio 1883, ad attaccare con veemenza gli abbattimenti sottolineando anche che con le demolizioni si sarebbero pure persi, perché distrutti, tutti i reperti archeologici che ancora giacevano nel sottosuolo di quella zona del Campidoglio. A queste critiche si aggiunsero quelle di Ferdinand Gregorovius, storico tedesco celebre per i suoi studi sulla Roma medievale, e di Andrea Busiri Vici, presidente dell'accademia nazionale di San Luca. Di contro ci furono anche pareri favorevoli, come quello dello storico dell'arte Giovanni Battista Cavalcaselle e quello dell'architetto Camillo Boito, che erano invece favorevoli alle demolizioni, pur con i distinguo del caso.
Dopo il dibattito che si originò (uno dei luoghi dove la discussione fu più accesa, come già accennato, fu la giunta comunale di Roma), le autorità decisero di procedere alle demolizioni. Fu infatti decisiva, ancora una volta, la presa di posizione del presidente del Consiglio Agostino Depretis, che giudicò sacrificabili tali edifici, considerato il guadagno simbolico derivante dalla costruzione dell'opera proprio in quel luogo.
In seguito a una perizia effettuata da esperti il 26 giugno 1883, che fu l'ultima prima del benestare definitivo ai lavori, si procedette così alla demolizione del vasto quartiere che si trovava sul versante settentrionale del Campidoglio, dove sarebbe sorto il Vittoriano, che era formato da edifici medievali e rinascimentali, abbattendo molte costruzioni storiche come la villa papale nota comunemente come Torre di Paolo III, il cavalcavia di collegamento con palazzo Venezia (il cosiddetto "arco di San Marco"), i tre chiostri del convento francescano dell'Ara Coeli (l'omonima basilica fu risparmiata e sorge ancora oggi adiacente al Vittoriano), la chiesa di Santa Rita da Cascia in Campitelli (che fu ricostruita altrove), la caserma di Santa Caterina da Siena, Palazzo Tiberi e tutta l'edilizia minore presente sulle pendici del colle.
In questo modo scomparvero alcune strade storiche di Roma e i relativi quartieri, come via Della Pedacchia, via Di Testa Spaccata, via Della Ripresa Dei Barberi, via Macel De' Corvi, mentre altre strade, che non vennero cancellate dalle mappe, furono stravolte, con la demolizione di tutti i caseggiati che vi sorgevano ai lati, come via Giulio Romano, via San Marco e via Marforio. Parte delle demolizioni furono effettuate per consentire la visuale del monumento da via del Corso e da via Nazionale. In totale la superficie totale che venne rasa al suolo fu pari a 19 200 metri quadrati.

L’inaugurazione

Alla cerimonia parteciparono anche la regina Elena, la regina madre, ovvero Margherita di Savoia, e la restante parte della famiglia reale, compresa Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II e regina madre del Portogallo, da poco deposta dalla rivoluzione che aveva instaurato, l'anno precedente, la repubblica. Erano anche presenti il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, i seimila sindaci d'Italia, i veterani delle guerre risorgimentali e tremila studenti delle scuole romane.
Tra i veterani delle guerre, sia quelli inquadrati nel Regio Esercito che i garibaldini, degno di nota fu l'ultimo sopravvissuto della Costituente che proclamò la Repubblica Romana del 1849 e i tre garibaldini che fecero sfilare una bandiera tricolore durante la campagna del Trentino (operazione militare della terza guerra d'indipendenza italiana guidata nel 1866 da Giuseppe Garibaldi) e la battaglia di Digione (scontro combattuto tra il 1870 al 1871 durante la guerra franco-prussiana; la bandiera fu portata dai volontari italiani che decisero di partecipare esternamente a questo conflitto in supporto dell'alleato prussiano): questo tricolore, a causa dei colpi di mitragliatricesubiti, venne fortemente danneggiato, tant'è che era rimasta integra solo la banda verde, quella vicina all'asta, con quella bianca che era interamente sfilacciata.

Il momento dell'inaugurazione fu rappresentato dal solenne scoprimento del drappo che rivestiva la statua equestre di Vittorio Emanuele II, gesto che venne eseguito dopo un cenno di Giolitti, il quale prese l'ordine da re Vittorio Emanuele III di Savoia. Poco prima Giolitti aveva pronunciato il discorso ufficiale dell’inaugurazione.

Il clima vissuto durante la cerimonia di inaugurazione del Vittoriano fu connotato da un intenso spirito unitario e nazionale. Nonostante questa atmosfera conciliante ci furono delle voci fuori dal coro. Alla solenne manifestazione erano infatti contrari i socialisti (in quel momento guidati dall'ala massimalista, che era quella più intransigente e radicale) per via della loro ideologia internazionalistica, che è all'antitesi del patriottismo che si fu poi respirato durante l'inaugurazione del Vittoriano, e i repubblicani, che erano critici verso questa cerimonia visti gli indiscutibili connotati monarchici che possedeva il monumento.
Il costo complessivo per costruire il Vittoriano, che è sorto al centro della Roma antica venendo a quella moderna grazie a strade che dipartono a raggiera da piazza Venezia, fu di circa 30 milioni di lire. Per realizzare le sue fondamenta fu invece necessario sbancare 70 000 metri cubi di terreno.

La tumulazione del Milite Ignoto

La scelta della salma e il viaggio in treno

Dopo la prima guerra mondiale l'Altare della Patria venne scelto per ospitare la tomba del Milite Ignoto, ovvero di un soldato italiano morto durante il primo conflitto mondiale, la cui identità resta sconosciuta a causa delle gravi ferite che hanno reso irriconoscibile il corpo: proprio per questo motivo rappresenta tutti i militari italiani che morirono durante le guerre[121]. Il motivo del suo spiccato simbolismo risiede nella transizione metaforica dalla figura del soldato, a quella del popolo e infine a quella della nazione: questo passaggio tra concetti sempre più ampi e generici è dovuto ai tratti indistinti della non identificazione del soldato.
La scelta della salma da inumare all'Altare della Patria in una tomba che sarebbe diventata il monumento al Milite Ignoto fu fatta tra undici salme di soldati italiani non identificati, che furono individuate da un'apposita commissione costituita dal Ministero della Guerra. La scelta delle undici salme non fu casuale; ognuna proveniva da una zona precisa del fronte italiano della prima guerra mondiale (Rovereto, le Dolomiti, gli Altipiani, il monte Grappa, Montello, il Basso Piave, il Cadore, Gorizia, il Basso Isonzo, il monte San Michele e Castagnevizza del Carso).
Le undici bare furono poi portate provvisoriamente a Gorizia per poi essere trasferite ad Aquileia. Nel frattempo, all'interno del complesso monumentale dell'Altare della Patria a Roma, fu realizzata la tomba che avrebbe ospitato il Milite Ignoto; la salma del soldato italiano sconosciuto sarebbe stata tumulata sotto la statua della dea Roma, davanti alla statua equestre di Vittorio Emanuele II di Savoia.
La scelta della salma cui dare solenne sepoltura all'Altare della Patria fu affidata a Maria Bergamas, madre di Antonio Bergamas, volontario irredentista di Gradisca d'Isonzo (comune friulano annesso al Regno d'Italia solo dopo la guerra), che aveva disertato dall'esercito austroungarico per unirsi a quello italiano e che era morto in combattimento senza che il suo corpo fosse stato mai ritrovato.

Il corpo del soldato da tumulare all'Altare della Patria fu scelto il 28 ottobre 1921 nella basilica di Aquileia. Maria Bergamas fu condotta di fronte alle undici bare allineate, che passò in rassegna accasciandosi al suolo davanti al decimo feretro su cui, per questo motivo, cadde la scelta.
La bara così selezionata fu quindi collocata sull'affusto di un cannone e deposta su un carro funebre ferroviario seguito da altre sedici carrozze, che venne disegnato per l'occasione da Guido Cirilli: la salma, fino al convoglio ferroviario, fu scortata da alcuni reduci decorati con la medaglia d'oro al valor militare. Le altre dieci salme rimaste ad Aquileia furono tumulate nel cimitero di guerra che circonda il tempio romano, nella Tomba dei dieci militi ignoti.
Il viaggio della salma prescelta verso la Capitale si compì su treno trainato da due locomotive a vapore del gruppo FS 740 (una di esse, l'unità 740.115, è conservata nel Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa), sulla linea Aquileia - , passando per Udine, Treviso, Venezia, Padova, Rovigo, Ferrara, Bologna, Pistoia, Firenze, Arezzo, Chiusi, Orvieto a velocità moderatissima in modo che presso ciascuna stazione la popolazione avesse modo di onorare il caduto. Furono molti gli italiani che attesero, a volte anche per ore, il passaggio del convoglio al fine di poter rendere onore alla salma del Milite Ignoto.

La cerimonia di tumulazione

Una Stella d'Italia in bronzo era collocata su una delle due locomotive che trainava il carro funebre ferroviario, mentre una seconda era rappresentata sull'edificio principale della stazione di Roma Tiburtina, all'epoca conosciuta come "stazione di Portonaccio", che accolse il convoglio nella destinazione finale. Le bandiere di tutti i reggimenti delle forze armate italiane e le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con re Vittorio Emanuele III di Savoia in testa, accolsero l'arrivo della salma muovendosi incontro al Milite Ignoto; quest'ultimo fu poi portato da un gruppo di decorati di medaglia d'oro nella basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri.

La salma del Milite Ignoto fu sepolta con cerimonia solenne all'Altare della Patria il 4 novembre 1921 in occasione della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate e da allora la sua tomba è sempre vigilata da un picchetto d'onore e da due fiamme che ardono perennemente.
La cerimonia del 4 novembre 1921 è stata la più importante e partecipata manifestazione patriottica dell'Italia unita, visto che vi presero parte un milione di persone. Tale celebrazione rappresentò anche il recupero, da parte degli italiani, di quello spirito patriottico che era stato annacquato dalle sofferenze patite durante la prima guerra mondiale. L'Altare della Patria, pensato inizialmente come ara della dea Roma, diventò quindi anche sacello del Milite Ignoto.

Parteciparono anche i socialisti e i comunisti: costoro infatti, come già accennato, erano legati un'ideologia internazionalistica per definizione, e quindi furono ufficialmente avversi a questa celebrazione a causa dei suoi forti connotati patriottici. Inoltre le forze politiche socialiste, durante il dibattito parlamentare che portò poi l'Italia a partecipare alla prima guerra mondiale, erano in parte contrarie a un intervento diretto del Paese in questo conflitto. I socialisti resero comunque onore al Milite Ignoto definendolo «proletario straziato da altri proletari».
Il Vittoriano è stato così consacrato alla sua valenza simbolica definitiva diventando – grazie al richiamo della figura di Vittorio Emanuele II di Savoia e alla realizzazione dell'Altare della Patria – un tempio laico dedicato metaforicamente all'Italia libera e unita e celebrante – in virtù della tumulazione del Milite Ignoto – il sacrificio per la patria e per gli ideali ad essa collegati.

Il completamento

Il Vittoriano in questi anni (e fino agli anni quaranta del XX secolo) fu un apprezzato simbolo nazionale, esempio di arte "moderna", che si affiancava ai monumenti dell'antica Roma e a quelli della Roma dei papi, ovvero relativi ai due periodi in cui l'Italia fu uno dei centri della storia mondiale; Primo Levi, già nei primi anni del XX secolo, spiegò la scelta di elevare il Vittoriano sul colle del Campidoglio, che definì metaforicamente il centro della "Terza Roma", richiamando una futura e ipotetica terza epoca della storia d'Italia, dopo l'antica Roma e la Roma dei papi (quest'ultima era vista come la naturale conseguenza della prima: il "confine" tra le due era la caduta dell'Impero romano d'Occidente), durante la quale la città di Roma sarebbe potuta diventare nuovamente di riferimento per il mondo.
La vicinanza della "Terza Roma" alle altre due comunicava indirettamente anche il concetto di unità, ovvero uno degli ideali del Risorgimento, il cui obiettivo fu proprio l'unificazione italiana da un punto di vista politico, sociale e amministrativo: la collocazione del Vittoriano nel cuore del centro storico di Roma è legato proprio a questo contesto politico. Altro concetto che comunicava la scelta di realizzare il Vittoriano, centro della "Terza Roma", vicino alle altre due, era quello che sarebbe stato impossibile separare completamente queste tre epoche storiche, i cui risultati si erano stratificati con il tempo dando origine alla Roma, e di riflesso all'Italia, dell'epoca.

Sono infatti visibili dalle terrazze più elevate del monumento molte delle più famose testimonianze dell'antica Roma, come il Colosseo, i Fori Imperiali, la Colonna Traiana, il teatro di Marcello, le Mura serviane e il colle Palatino, e della Roma dei papi, come la basilica di San Pietro in Vaticano, il palazzo del Quirinale, la basilica di San Giovanni in Laterano, basilica di San Marco Evangelista al Campidoglio, la chiesa di Santa Maria di Loreto, la Cordonata capitolina e la basilica di Massenzio. In lontananza sarebbe poi stato visibile anche il Gianicolo, con i busti dei patrioti, che è invece espressione della nuova Italia post risorgimentale. Tra essi, il monumento che si vede più vicino dalla sommità del Vittoriano, come già accennato, è la torre campanaria del Palazzo Senatorio, che si trova proprio dietro il monumento, adiacente alla basilica dell'Ara Coeli.
Nel 1925, in occasione del Natale di Roma (21 aprile), fu inaugurata la parte mancante dell'Altare della Patria, ovvero le sculture realizzate da Angelo Zanelli che affiancano la statua della dea Roma. Con la realizzazione della quadriga dell'Unità e della quadriga della Libertà, che vennero poste sui rispettivi propilei fra il 1924 e il 1927, gli spazi esterni del Vittoriano poterono dirsi completati. In questo contesto, il 19 febbraio 1921, fu sciolta la "Commissione Reale per il Monumento a Vittorio Emanuele II".

Nel 1928 si decise di sistemare l'area adiacente al Vittoriano aprendo via del Teatro di Marcello; ciò comportò lo smantellamento della secentesca chiesa di Santa Rita in Campitelli, che sorgeva alle pendici della scalinata della basilica dell'Ara Coeli e che fu ricostruita, dieci anni più tardi, nei pressi del teatro di Marcello. I lavori di scavo portarono alla luce l'insula dell'Ara Coeli, risalente al II secolo d.C., ancora oggi visibile sul lato sinistro del Vittoriano. La sistemazione dell'area intorno al monumento fu completata tra il 1931 e il 1933 dall'architetto Raffaele De Vico, che progettò le due esedre alberate a gradoni di travertino.
La cripta del Milite Ignoto fu invece inaugurata durante la manifestazione del 24 maggio 1935, che era dedicata al ventennale dell'entrata in guerra dell'Italia nel primo conflitto mondiale. Questo ambiente è un locale situato sotto la statua equestre di Vittorio Emanuele II, da cui è possibile vedere il lato del sacello del Milite Ignoto che dà verso l'interno del Vittoriano. Si trova quindi in corrispondenza dell'Altare della Patria, da cui invece si può vedere il lato della tomba del Milite Ignoto che dà verso l'esterno dell'edificio.
I lavori di completamento del Vittoriano ebbero luogo alla fine nel 1935, con la realizzazione del Museo centrale del Risorgimento, che fu inaugurato e aperto al pubblico decenni dopo, nel 1970. Nell'occasione fu prevista anche la creazione di un Sacrario delle Bandiere, deputato a ospitare un'esposizione delle bandiere militari italiane storiche. I suoi prodromi furono il trasferimento all'interno del Vittoriano delle bandiere di guerra dei reggimenti disciolti che in precedenza si trovavano a Castel Sant'Angelo: anche il Sacrario delle Bandiere fu inaugurato e aperto al pubblico decenni dopo, il 4 novembre 1968, in occasione della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate.
Il completamento degli spazi interni, compresa la cripta del Milite Ignoto (con mosaici di Giulio Bargellini), è dovuto ad Armando Brasini, già direttore artistico del Vittoriano. Lo stesso architetto progettò anche il prospetto laterizio a contrafforti su via di San Pietro in Carcere. In questo contesto, nel 1939, la gestione del Vittoriano passò dal Ministero dei lavori pubblici a quello della pubblica istruzione.

Il declino e la chiusura

Negli anni sessanta del XX secolo per il Vittoriano iniziò un lento disinteressamento da parte degli italiani. Il Vittoriano non era infatti più considerato uno dei simboli dell'identità nazionale, ma iniziò a essere visto come un ingombrante monumento rappresentante un'Italia sorpassata dalla storia. Complice il sempre più evidente stato di abbandono, sempre meno persone partecipavano alle celebrazioni che avvenivano al Vittoriano, comprese quelle che interessavano il Milite Ignoto. Da più parti si giunse anche proporre di abolirle oppure di trasferirle altrove. Era ancora vivo il ricordo delle adunate oceaniche fasciste in piazza Venezia e il Vittoriano, che era il suo sfondo, progressivamente, scivolò in una damnatio memoriae che causò la sua progressiva esclusione dall'immaginario collettivo degli italiani.
A questo si aggiunse la memoria delle demolizioni e degli sventramenti di interi isolati storici di Roma, sia negli anni della costruzione del Vittoriano sia durante il ventennio fascista, che lasciò un ricordo nostalgico. Anche da parte delle istituzioni ci fu un mutamento: da eventi coinvolgenti e emozionanti si passò a commemorazioni rituali e asettiche con sempre meno spettatori che vi assistevano. Il Vittoriano si trasformò quindi in un semplice edificio di Roma svuotato di tutto il suo simbolismo con piazza Venezia che diventò, a causa dell'espansione urbanistica di Roma avvenuta negli anni cinquanta del XX secolo e del conseguente aumento del traffico veicolare, un semplice punto nevralgico del sistema stradale della capitale.

Il 12 dicembre 1969 il Vittoriano fu colpito da un attentato: nel pomeriggio vennero fatte esplodere due bombe, che non fecero vittime e che esplosero intorno alle 17:30, a dieci minuti una dall'altra, in concomitanza con la strage di piazza Fontana a Milano. Furono collocate lateralmente, in corrispondenza di ciascun propileo. Una riuscì a scardinare la porta del Museo centrale del Risorgimento, che volò per sette metri, e a rompere le vetrate della basilica di Santa Maria in Aracoeli, mentre l'altro ordigno rese pericolante il basamento di un pennone. A causa dei danni dovuti all'attentato il Vittoriano venne chiuso al pubblico, e tale restò per quarant'anni.
Sulla scia del clima politico degli anni settanta, e a causa della chiusura al pubblico, il Vittoriano conobbe un lungo periodo di oblio, sia da parte dei cittadini che da parte delle istituzioni. In questo contesto, nel 1975, il Vittoriano passò in carico dal Ministero della pubblica istruzione a quello dei beni culturali, ente che tuttora gestisce il monumento dedicato a Vittorio Emanuele II di Savoia, mentre nel 1981, tramite decreto datato 20 maggio, il ministero gestore del monumento dichiarò l'importanza storica e artistica del Vittoriano riallacciandosi alla precedente legge n° 1.089 del 1º giugno 1939.

La riscoperta

Fu l'ex Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, all'inizio del XXI secolo, a iniziare un'opera di riscoperta e di valorizzazione dei simboli patri italiani, Vittoriano compreso. Grazie all'iniziativa di Ciampi, il Vittoriano ha riacquisto l'importanza simbolica che aveva un tempo. Durante le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, il monumento è stato reso nuovamente accessibile al pubblico grazie alla volontà di Carlo Azeglio Ciampi, dopo un accurato restauro, il 24 settembre 2000, in occasione della cerimonia di apertura dell'anno scolastico 2000-2001, la cui parte più importante, che avvenne proprio al Vittoriano alla presenza del Presidente della Repubblica Italiana.
Il Vittoriano fu poi aperto ufficialmente al pubblico il 4 novembre successivo, in occasione della commemorazione della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate. Ciampi lo propose come un nuovo foro di Roma, il "foro della Repubblica".
Dal 4 novembre 2000 in poi le cerimonie simbolicamente più importanti dell'Anniversario della liberazione d'Italia (25 aprile), della Festa della Repubblica (2 giugno) e della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate (4 novembre) avvengono stabilmente al Vittoriano. 

Il Vittoriano è anche diventato importante sede museale di collezioni inerenti all'identità nazionale italiana: gli spazi espositivi presenti (il Museo centrale del Risorgimento e il Sacrario delle Bandiere) sono stati rilanciati con un'opera di potenziamento e aggiornamento che li ha resi sempre più frequentati dai turisti.
Nel 2002, dopo un'altra serie di interventi di restauro, sono stati aperti al pubblico nuovi luoghi del Vittoriano. Alcuni di questi interventi sono stati realizzati anche grazie a parte degli introiti del gioco del lotto, in base a quanto stabilito dalla legge n° 662 del 23 dicembre 1996.
Alla riscoperta del valore simbolico si accompagnò anche una più serena valutazione degli aspetti architettonici: il Vittoriano è oggi visto dalla più aggiornata critica d'arte come un importante passo nella ricerca di un nuovo "stile nazionale", che avrebbe dovuto caratterizzare il Regno d'Italia da poco costituito. Il Vittoriano appare dunque oggi come un ottimo esempio dell'arte del primo periodo dell'unità nazionale, fusione di eclettismo e neoclassicismo, sia per sé stesso, sia per le numerose opere d'arte che accoglie.

Questo rilancio del Vittoriano è andato di pari passo con la costante e crescente opera di valorizzazione degli altri simboli patri italiani. 

Come già accennato, il Vittoriano è proprietà del Ministero dei beni culturali.

(Web, Google, Wikipedia, You Tube)