mercoledì 8 aprile 2020

Il Breda Ba.65 Nibbio era un monoplano monomotore d'assalto ad ala bassa prodotto dall'azienda italiana Società Italiana Ernesto Breda


Il Breda Ba.65 Nibbio era un monoplano monomotore d'assalto ad ala bassa prodotto dall'azienda italiana Società Italiana Ernesto Breda dal 1936 al 1939.
Utilizzato principalmente dall'aeronautica militare italiana, prestò servizio nell'Aviazione Legionaria durante la guerra civile spagnola e nella Regia Aeronautica durante la prima fase della seconda guerra mondiale. Cinquantacinque esemplari vennero venduti all'estero, e furono impiegati dalle aeronautiche di Iraq, Cile e Portogallo.




Storia del progetto

Il progetto del Ba.65 venne affidato agli ingegneri Antonio Parano e Giuseppe Panzeri che utilizzarono come base il precedente Ba.64, monoplano da assalto espressione delle teorie sull'aviazione d'assalto (o da attacco al suolo, o da appoggio ravvicinato) di cui fu principale sostenitore il colonnello Amedeo Mecozzi. Il nuovo velivolo che manteneva le stesse caratteristiche generali del suo predecessore, venne realizzato in due prototipi, come convenzione, da presentare alla commissione esaminatrice della Regia.
Il prototipo, monoposto e motorizzato da uno motore radiale Isotta Fraschini K.14, il Gnome-Rhône 14K prodotto su licenza dalla Isotta Fraschini, venne portato in volo per la prima volta nel settembre 1935. Le positive impressioni portarono ad un immediato ordine di 81 velivoli, monoposto e con la stessa motorizzazione del prototipo.
Del Ba.65 venne anche realizzata una versione biposto, inizialmente con postazione aperta per il mitragliere, e in seguito, per un piccolo numero di esemplari, una torretta dorsale Breda L per un'arma difensiva da 12,7 mm (con un aumento di peso pari a 500 kg circa, e a una diminuzione della velocità di 20 km/h).
A partire dall'82º esemplare venne adottato il più potente motore Fiat A.80 RC.41 da 1 000 CV. Questo propulsore, come già su altri aeroplani come il bombardiere medio Fiat B.R.20, si rivelò di scarsa affidabilità riducendo l'efficienza delle macchine che lo montavano rispetto agli esemplari equipaggiati col migliore Isotta Fraschini K.14.
Una seconda serie di 137 macchine venne costruita dalla Breda (80 esemplari) e dalla Caproni Vizzola (57 esemplari) prima che la produzione cessasse del tutto nel luglio 1939.




Tecnica

Il Ba.65 manteneva le stesse caratteristiche del suo predecessore Ba.64, ovvero configurazione alare monoplana ad ala bassa a sbalzo, struttura a traliccio in tubi di acciaio saldati, con rivestimento in lamiere di duralluminio, tranne che per il bordo d'uscita alare rivestito in tela. L'impennaggio era monoderiva con controventature. Il carrello aveva le gambe anteriori retrattili in gondole subalari (che lasciavano parzialmente scoperti gli pneumatici), mentre il ruotino posteriore era fisso. Il pilota disponeva di un abitacolo chiuso, dotato di cappottina vetrata scorrevole.
L'armamento era di 4 mitragliatrici installate nel piano alare (notevole per gli standard italiani dell'epoca), più una brandeggiabile per l'osservatore nella versione biposto. Disponeva di un vano bombe interno e attacchi subalari. Queste caratteristiche che lo rendevano, al momento del primo volo (1935) un velivolo decisamente all'avanguardia.
La propulsione era affidata ad un motore radiale posizionato sul muso e racchiuso da una cappottatura. I primi 81 esemplari vennero equipaggiati con un Isotta Fraschini K.14, un 14 cilindri a doppia stella capace di erogare una potenza di 900 CV (662 kW) e riconoscibile per le caratteristiche bugne sulla cappottatura in corrispondenza dei rimandi delle punterie. Gli esemplari successivi vennero equipaggiati con un radiale Fiat A.80 RC.41 18R che sviluppava 1 000 CV (735,5 kW) e che per il suo minore diametro rispetto al predecessore era dotato di una diversa cappottatura priva stavolta di protuberanze. Entrambi i motori erano accoppiati ad un'elica tripala.




Impiego operativo

Regia Aeronautica

Guerra civile spagnola

Il battesimo del fuoco del Ba.65 avvenne con un primo lotto di 13 esemplari della prima serie equipaggiata con il motore Gnome-Rhône 14K. I velivoli vennero inquadrati nella 65ª Squadriglia Assalto, che faceva parte del XXXV Gruppo Autonomo B.V. dell'Aviazione Legionaria. L'unità prese parte ad operazioni a Santander nell'agosto 1937, ed, in seguito, a Teruel. Partecipò anche alle battaglie per il fiume Ebro. Come il prototipo, questi erano velivoli monoposto, con l'abitacolo del pilota completamente vetrato, che si assottigliava verso la parte posteriore. Inizialmente si riteneva che il Breda Ba.65 potesse ricoprire un ampio ventaglio di ruoli: caccia, ricognitore e bombardiere leggero. In tutti questi contesti, il Ba.65 risultò generalmente inadeguato. Come caccia intercettatore, la macchina faticava a decollare in assetto di guerra, e aveva lunghissimi tempi di salita in quota (ben 18 minuti per raggiungere i 4.000m). Inoltre, il motore richiedeva 10-20 minuti per essere riscaldato prima del decollo, rendendo impossibili le partenze in emergenza. D'altro canto, però, le armi di bordo erano più che adeguate, tanto che un bombardiere nemico venne abbattuto con soli 125 colpi. Come ricognitore i risultati furono altrettanto scadenti, dato che l'aggiunta di un secondo membro di equipaggio aveva peggiorato il già mediocre centraggio del velivolo e le sue prestazioni, e aveva addirittura ridotto la visibilità di bordo. Sulle doti del Ba.65 come bombardiere, il giudizio era invece in chiaroscuro. Se utilizzato nel bombardamento orizzontale, con bombe caricate nella stiva interna, il risultato era un tiro decisamente impreciso e poco efficace. Nei bombardamenti in picchiata, con bombe caricate sugli agganci sub-alari, il Breda era invece decisamente efficace, e le manovre di puntamento risultavano semplici e precise. Celebre rimase la distruzione del ponte di Flix sul fiume Ebro (via di rifornimento essenziale per le truppe governative, durante l'offensiva in Aragona del 1938), da parte di una pattuglia di tre soli Ba.65.
Nel 1938 venne inviato un secondo lotto di 10 velivoli: 6 Ba.65 motorizzati Fiat A.80 RC.41 e 4 Isotta Fraschini K.14.
L'esperienza spagnola dimostrò che l'aereo era valido nel ruolo di assaltatore, anche se i piloti provenienti dalla caccia, legati alle tradizioni acrobatiche italiane, ne lamentarono il «difficile pilotaggio», mentre i piloti provenienti dal bombardamento lo apprezzarono molto. Forse proprio la valutazione dei piloti della caccia contribuì a lasciare nell'ombra questo velivolo, rispetto ad altri aerei più noti.




Seconda guerra mondiale

Nonostante in Spagna il Ba.65 avesse dimostrato di essere un buon incassatore, e fosse più veloce di uno Junkers Ju 87 Stuka, era evidente che non potesse ricoprire il ruolo di un aereo da caccia e anzi era troppo poco maneggevole per potersi difendere dalla caccia avversaria.
Inoltre, nonostante si trattasse in origine di un progetto moderno, era invecchiato presto, e nel giro di un paio d'anni si poteva dire largamente superato, in particolare era privo dei freni aerodinamici di picchiata.
Dopo l'impiego iniziale nell'Aviazione Legionaria, il Breda Ba.65 venne ben presto assegnato alla Brigata d'Assalto, costituita da 5º e 50º Stormo. Alla vigilia del conflitto mondiale la Regia Aeronautica aveva in carico 167 Ba.65, di cui ben 118 motorizzati con il Fiat A.80. Il Ba.65, in carico a diversi reparti d'assalto, ne vide solo due immediatamente operativi all'inizio delle ostilità: la 159ª Squadriglia, su undici macchine, e la gemella 160ª Squadriglia del 12º Gruppo Assalto (12º Gruppo caccia), dislocate sull'aeroporto di Sorman, in Libia.
L'evoluzione delle operazioni in Africa Settentrionale Italiana, e il disastroso esordio nelle missioni di appoggio tattico dei bimotori Breda Ba.88, preda fin troppo facile anche per i superati biplani Gloster Gladiator, e le scarse prestazioni dei Caproni Ca.310, portò nel novembre 1940 a bloccare la radiazione dai reparti dei vecchi Ba.65 e a richiedere con urgenza il trasferimento in Africa di tutte le macchine disponibili dotate del motore Isotta Fraschini K.14, richiesta che non si poté soddisfare, in quanto queste macchine erano già tutte in Africa.
Comunque le poche macchine ancora adatte all'impiego operativo vennero rintracciate un po' dappertutto e trasferite velocemente in Libia: qui furono attivissime nel contrasto dei mezzi motorizzati britannici, affiancate anche dai non apprezzati esemplari con motore A.80. Nel dicembre del 1940 erano rimaste solo venticinque macchine. L'ultimo Ba.65 in servizio operativo fu perso durante l'offensiva britannica in Cirenaica nel febbraio del 1941. Entro la fine dello stesso mese, il personale superstite del 50º Stormo Assalto venne rimpatriato, dopo l'abbandono delle ultime macchine ormai logorate, e non più idonee al servizio, nei campi d'aviazione della Cirenaica.
Tuttavia, il contributo dato da questa macchina nel rallentare le colonne di blindati e di autocarri del generale Archibald Wavell in marcia verso la Tripolitania fu notevole, e senz'altro più efficace di quello dato da altri apparecchi, per lo più caccia ormai superati come il Fiat C.R.32, trasformati in improvvisati assaltatori, o gli stessi Savoia-Marchetti S.M.79 certo inadatti all'attacco al suolo, ma ugualmente gettati nella mischia per far fronte al rischio tutt'altro che remoto della perdita della Libia.
Per il Breda Ba.65, aereo ormai superato (già in lista per la radiazione) che doveva lasciare il posto a macchine più moderne (che si rivelarono inadatte o tardarono ad arrivare), la conclusione della carriera operativa fu più che onorevole, e rimase l'unico aereo della Regia Aeronautica progettato appositamente per l'aviazione d'assalto ad avere una vita operativa degna di nota.
Secondo autori anglosassoni, tuttavia, il Ba.65 ebbe una ridotta operatività nel deserto e non ottenne risultati particolarmente rilevanti.
Il futuro dell'aviazione d'assalto italiana nel conflitto fu affidato, giocoforza, a macchine come il Fiat C.R.42, il Fiat G.50, e più avanti il Macchi M.C.200, che, superati e ormai non più competitivi come caccia, vennero adattati al trasporto di bombe da 50 o 100 kg per l'attacco al suolo; si trattava in verità più di caccia-bombardieri che di assaltatori veri e propri. Solo nel 1943, con il Reggiane Re.2002, si ebbe un caccia-bombardiere relativamente moderno.
La carriera operativa degli esemplari di Ba.65 in migliori condizioni proseguì ancora fino al 1943. 40 esemplari vennero ricondizionati dalla Caproni Vizzola assumendo la designazione Ba.65M ed impiegati nel ruolo di aereo da addestramento nel bombardamento a tuffo.



Altri operatori

Il Ba.65 ottenne un discreto successo commerciale:
  • Regno dell'Iraq: 25 esemplari biposto con motore Fiat A.80 RC.41 consegnati nel 1938. Due erano addestratori bicomando, mentre gli altri montavano una torretta Breda L.
  • Cile: 20 esemplari dotati di motori Piaggio P.XI C.40 venduti alla fine del 1938. Di questi 17 erano monoposto e 3 addestratori bicomando.
  • Spagna: Al termine della guerra civile vennero ceduti 11 velivoli superstiti dei 23 inviati.
  • Unione Sovietica: 10 esemplari.
  • Portogallo: 10 esemplari biposto nella versione con motore Fiat e torretta Breda L. Consegnati nel novembre 1939.
  • Repubblica di Cina: interessata ad un ordine ne provò un esemplare rimotorizzato con un radiale Pratt & Whitney R-1830 Twin Wasp nel giugno 1937, ma non ci fu alcun seguito.

Versioni
  • Ba.65 K.14 - prima versione monoposto da attacco al suolo equipaggiata con motore radiale Piaggio ed armata con due mitragliatrici Breda-SAFAT calibro 12,7 mm e due calibro 7,7 mm.
  • Ba.65 A.80 - come Ba.65 K.14 ma con motorizzazione Fiat A.80
  • Ba.65bis - versione biposto con aumento della capacità del serbatoio combustibile e mitragliatrice addizionale posteriore brandeggiabile.
  • Ba.65bisL - versione dotata di torretta Breda L
  • Ba.65М - versione bombardiere in picchiata, conversione di 40 Ba.65bis effettuata dalla Caproni Vizzola.

Utilizzatori
  •  Cile Fuerza Aérea de Chile
  •  Repubblica di Cina Chung-Hua Min-Kuo K'ung-Chün
  •  Iraq Royal Iraqi Air Force
  •  Italia  - Regia Aeronautica e Aviazione Legionaria
  •  Portogallo Arma da Aeronáutica Militar
  •  Spagna Aviación Nacional
  •  Unione Sovietica Voenno-vozdušnye sily.


ENGLISH

The Breda Ba.65 was an Italian all-metal single-engine, low-wing monoplane used by Aviazione Legionaria during the Spanish Civil War and Regia Aeronautica in the first half of World War II. It was the only Italian ground-attack aircraft that saw active service in this role. It saw service almost exclusively in the North African and Middle-Eastern theatre. In addition to more than 150 aircraft operated by the Italian forces, a total of 55 were exported and used by the air forces of Iraq, Chile and Portugal.

Design and development

An evolution of Ba.64, the Ba.65 was designed by Antonio Parano and Giuseppe Panzeri. It was a single-seat, all-metal, low-wing cantilever monoplane with aft-retracting main undercarriage. Like its predecessor, it was intended to undertake aeroplano di combattimento multiple roles as a fighter, attack and reconnaissance aircraft. The Ba.65 carried wing-mounted armament of two 12.7 mm (0.5 in) and two 7.7 mm (0.303 in) Breda-SAFAT machine guns, with internal stowage for a 200 kg (440 lb) bombload in addition to external ordnance that could total 1,000 kg (2,200 lb). The prototype, which was first flown in September 1935, like the initial production aircraft, used the 522 kW (700 hp) Gnôme-Rhône K-14 radial engine produced under license by Isotta Fraschini. Starting from the 82nd aircraft, the more powerful Fiat A.80 RC.41 18-cylinder, twin-row radial engine with a takeoff rating of 746 kW (1,000 hp) was adopted. Production ceased in July 1939 after 218 aircraft were built by Breda and Caproni.

Operational history

The Ba.65 debuted during the Spanish Civil War. Thirteen Series I aircraft, powered by the Gnôme-Rhône engine, equipped the 65a Squadriglia of the Aviazione Legionaria (Legionary Air Force). The unit took part in operations at Santander in August 1937, then at the battles of Teruel and the Ebro. The aircraft proved effective and was compared positively with the German Junkers Ju 87 Stuka. In a unique engagement, one of the Legionary Air Force pilots scored an air-to-air victory when he encountered a lone twin-engine Tupolev SB bomber over Soria and shot it down. Of the 23 Ba.65s sent to Spain, 12 were lost in the course of the civil war. They flew 1,921 sorties, including 368 ground-strafing and 59 dive bombing attacks. When the Aviazione Legionaria returned to Italy in May 1939, they transferred their 11 surviving Ba.65s to the Spanish Air Force.
A total of 25 Fiat-powered Ba.65s two-seaters were sold to the Kingdom of Iraq in 1938. These consisted of 22 equipped with Breda L turrets and two dual control trainers.[5] From 2–31 May 1941, the Royal Iraqi Air Force flew the Ba.65 during the Anglo-Iraqi War. War broke out after an Iraqi coup d'état installed a new government while maintaining the existing monarchy. The Ba.65 was used against armed forces of the United Kingdom and the Commonwealth of Nations which the coup leaders were trying to expel from bases established after Iraq's independence under the Anglo-Iraqi Treaty of 1930.
During World War II, the Ba.65 was employed against the British in North Africa. When Italy entered the war in June 1940 about 150 aircraft were reported to be still in service, but suffered heavy losses facing the British fighters. Most were either out of service or shot down by early 1942. The aircraft, which had been forcibly kept in service after the failure of the Ba.88 and the poor performance of the Caproni Ca.310, was replaced in the dive bomber role by modified Savoia-Marchetti S.79s or fighters.
Chile bought 20 Ba.65 (17 single-seaters and three dual control trainers) powered by the Piaggio P.XI C.40 (also a 14K derivative) late in 1938. Portugal purchased 10 Breda equipped with Fiat engines and Breda L Turrets in November 1939.

(Web, Google, Wikipedia, You Tube)























































martedì 7 aprile 2020

IL QUOTIDIANO TEDESCO "BILD", IL PREMIO NOBEL MONTAGNIER, LA "C.N.N." ed altre potenze occidentali confermano gravi colpe, ritardi e occultamento della verità da parte del regime cinese


E’ un po’ di tempo che si rincorrono voci su serrate indagini da parte dell'intelligence statunitense sull'origine di COVID-19. Si sospetta un'origine colposa che coinvolgerebbe a pieno titolo la Cina, una potenza economica, finanziaria e tecnologica che corre spasmodicamente per raggiungere e superare quella statunitense. 

IL COVID-19 PRODOTTO SICURAMENTE IN LABORATORIO!



DAL QUOTIDIANO TEDESCO "BILD":

"""La Cina deve alla Germania miliardi di dollari di danni per aver esportato il coronavirus. Ad affermarlo è il quotidiano tedesco Bild in un articolo che ha provocato tensioni tra l’editore e il governo cinese.
Non è la prima volta che si parla di risarcimento per la pandemia da parte di Pechino: negli Stati Uniti il mese scorso la polemica di Donald Trump contro il regime comunista colpevole di aver diffuso il virus cinese ha portato il senatore repubblicano Jim Banks a proporre di far pagare a Pechino un prezzo per aver coperto la pandemia e per i danni economico-finanziari provocati dal virus.
Bild: Cina deve $162 miliardi di danni alla Germania per la pandemia
Il tabloid tedesco Bild ha calcolato che la Cina deve a Berlino circa 162 miliardi di dollari per i danni causati dal coronavirus nel paese. La provocazione ha suscitato la reazione indignata di Pechino, secondo quanto riferito da alcune fonti. La stima dei danni fatti dal giornale - oltre 1.938$ pro capite se il PIL della Germania scende del 4,2 per cento, è stata presentata in un articolo intitolato “Ciò che la Cina ci deve”.
Stando a quanto riportano le fonti estere, per l’ambasciata cinese l’articolo incita la xenofobia e il nazionalismo. Un portavoce dell’ambasciata cinese ha commentato: “È un pessimo atteggiamento quello di incolpare un paese per una pandemia che sta colpendo il mondo intero, e presentare un resoconto esplicito di presunti debiti cinesi alla Germania”.
Il caporedattore di Bild, Julian Reichelt, a sua volta ha attaccato il presidente Xi Jinping per questioni che vanno dalla gestione iniziale dell’epidemia alla sorveglianza e ai diritti civili.
La Cina è davvero responsabile del virus?
E in effetti si è alzato un coro di preoccupazioni per il modo in cui il governo di Pechino ha affrontato l’emergenza, tra iniziali insabbiamenti e conti che non tornavano. Negli scorsi giorni c’è stata una nuova escalation di critiche da parte degli Stati Uniti alla Cina, con Donald Trump che ha affermato che Pechino si dovrebbe affrontare gravi conseguenze “se fosse consapevolmente responsabile della pandemia”.
Washington ha inoltre annunciato di star indagando sulla possibilità che il coronavirus abbia avuto origine in un laboratorio a Wuhan, già noto agli USA per le gravi carenze in termini di sicurezza, e da lì sia sfuggito accidentalmente contagiando la popolazione. Se così fosse, si tratterebbe di una copertura gravissima della pandemia, che secondo quanto affermato sin dall’inizio avrebbe avuto origine nell’ormai famoso mercato di animali selvatici di Wuhan""".

La teoria accreditata da più parti si fa sempre più corposa, e l'autorevolissima Cnn, non è certamente una televisione complottarda e complottista. 

L’emittente televisiva Cnn già aveva confermato delle indagini in corso, ma ora sposta l'asticella molto più in alto. 

In un servizio ha confermato che dirigenti dell'intelligence Usa e della sicurezza nazionale americana stanno esaminando tra le possibilità, appunto, quella che il Covid-19 sia nato non nel mercato di Wuhan, ma nel laboratorio della megalopoli cinese. 

Il virus si sarebbe diffuso dopo un incidente: la Cnn cita diverse fonti a conoscenza del dossier e rende noto unitamente al Washington Post, altra fonte molto autorevole, dell'esistenza di due cablogrammi diplomatici tra Stati Uniti e Pechino che risalgono al 2018: in questi Washington intimava alla Cina di intervenire sulle carenze in termini di sicurezza del laboratorio di virologia di Wuhan: un caso? Mah!

Le fonti a conoscenza del dossier ritengono però prematuro trarre qualsiasi conclusione affrettata. 

Anche il Whashington Post aveva riportato la notizia di due dispacci diplomatici Usa a Pechino che nel 2018 ammonivano sulle carenze del laboratorio di virologia di Wuhan.   Due anni prima che scoppiasse la pandemia da coronavirus, diplomatici dell'ambasciata americana a Pechino visitarono diverse volte l'istituto di virologia di Wuhan (Wiv) e rimasero così preoccupati da mandare a Washington due 'cable' (sensibili ma non classificati) ammonendo sulle inadeguate condizioni di sicurezza del laboratorio, che conduceva rischiose ricerche sui pipistrelli. Lo rivela il Washington Post, riferendo che negli ultimi due mesi le informative hanno alimentato discussioni nel governo americano se questo o un altro laboratorio a Wuhan possa essere la fonte del Covid-19, anche se per ora non sono emerse prove in questo senso e la comunità scientifica propende per un virus proveniente dagli animali e non da provetta.

I cablogrammi mettono in guardia sulle carenze gestionali e di sicurezza del Wiv e propongono più attenzione e aiuti non solo per l'importanza degli studi sui coronavirus dei pipistrelli ma anche per la loro pericolosità. 

Gli esperti scientifici statunitensi, informano che le scoperte del laboratorio cinese suggerivano fortemente che coronavirus tipo Sars dei pipistrelli possono essere trasmessi agli umani e causare malattie come la Sars. 
Da un punto di vista della salute pubblica, questo rende la costante sorveglianza dei coronavirus tipo Sars nei pipistrelli e gli studi sui contatti animale-umani cruciali per la previsione e la prevenzione di future epidemia di coronavirus". 

L'appello cadde nel vuoto.   

L'autore dell'articolo dell’autorevole Whashington Post scrive che un alto dirigente dell'amministrazione Usa gli ha confermato che i cablogrammi forniscono un ulteriore elemento di prova della possibilità che la pandemia sia frutto di un incidente nel laboratorio di Wuhan. 

E sostiene che la versione di Pechino che il virus è emerso dal wet market di Wuhan è debole, citando ricerche di esperti cinesi su Lancet secondo cui il primo paziente noto di coronavirus, identificato il primo dicembre, non aveva legami col mercato e neppure oltre un terzo dei contagiati nel primo grande cluster. 

Il mercato inoltre non vendeva pipistrelli.

Proprio di recente gli Stati Uniti hanno accusato il regime cinese per aver censurati gli studi sulle origini del virus: questo fatto è benzina sul fuoco di ogni ragionevole dubbio. 

La Cina censura la pubblicazione di una ricerca sulle origini del coronavirus e la fa sparire dal web.

La bomba arriva dalla Cnn, sempre piuttosto prudente lungo il terreno del virus creato in laboratorio, e le sensazioni sbagliate vengono rafforzate dai sempre più rigidi protocolli imposti da Pechino in materia e soprattutto di diffusione degli stessi studi segreti.

Risulta già varata una nuova politica diramata dal regime comunista: “””tutti i documenti accademici relativi al Covid-19 saranno soggetti a un minuzioso scrutinio e la loro eventuale condivisione dovrà essere validata dagli ufficiali del governo centrale”””.
La Cnn rivela che cancellare le tracce lasciate da due università cinesi altro non sarebbe che «l’ultimo sforzo volto a controllare la narrativa sulle origini della pandemia».
Proprio di recente la Cina ha svestito in fretta i panni dell’untore per indossare altrettanto frettolosamente addirittura quelli di eroe in un mondo infetto, in quarantena, in sofferenza economico-finanziaria oltre che sanitaria.

Un ricercatore coinvolto nell’inchiesta parla in condizioni di anonimato per il timore di pesanti ritorsioni; egli afferma ai microfoni della rete televisiva americana CNN che l’obiettivo di Xi Jinping e dei suoi accoliti sarebbe quello di giungere alla conclusione forzata «che l’epidemia sia nata altrove» e che parallelamente «Pechino non sia affatto disposta a tollerare indagini indipendenti e oggettive» su di un dossier che, di fatto, ha sconvolto il mondo.

Vedremo e riferiremo

Ai posteri l’ardua sentenza….

I primi undici giorni di Wuhan che avrebbero potuto salvarci dalla pandemia: sono i giorni più importanti, nella storia di questa polmonite diventata pandemia; la Cina ha purtroppo scelto la strada del negazionismo; se i funzionari di partito avessero agito per tempo i contagi sarebbero stati molto di meno come numero e intensità virale.

Undici giorni sono trascorsi a Wuhan, fra la morte di un uomo di 61 anni per Covid19 e l’ammissione pubblica di Zhong Nanshan, epidemiologo cinese, alla tv di stato circa la diffusione di un nuovo virus. 

Undici giorni fatali per la Cina, e forse per il mondo intero. 

In quel lasso di tempo, circa 5milioni di persone hanno lasciato la capitale dell’Hubei, muovendosi verso il resto della Cina e il resto del mondo. Portando il contagio ovunque. Diventando, inconsapevolmente, diffusori di una malattia sconosciuta.
La prima vittima ufficiale da Covid19, il sessantunenne di Wuhan, muore il 9 gennaio. Nei giorni precedenti aveva frequentato il mercato alimentare della città, luogo legato a molti dei primi casi di questa pandemia. La sua morte viene annunciata dalla Commissione Sanitaria Municipale due giorni dopo (l'11 gennaio). Le autorità cinesi sono più o meno certe che queste polmoniti fossero state trasmesse da animale a uomo, e che quindi i potenziali infetti erano quelli venuti a contatto con gli animali stessi al mercato cittadino. Nessuno, però, fa trapelare un dettaglio determinante: dopo 5 giorni dalla morte del 61enne, anche la moglie della vittima ha iniziato ad avvertire gli stessi sintomi. E la donna non è mai stata al mercato d Wuhan. Un segnale chiarissimo che il virus misterioso, il nemico sconosciuto, si sta diffondendo da uomo a uomo.
Sono i giorni più importanti, nella storia di questa polmonite diventata pandemia. E la Cina sceglie la strada del negazionismo. Il 14 gennaio, mentre Wuhan si appresta a diventare un inferno, l'Organizzazione Mondiale della Sanità twitta che le indagini preliminari cinesi «non hanno trovato prove chiare della trasmissione da uomo a uomo del nuovo coronavirus identificato a Wuhan». Tutto sotto controllo, insomma. E invece no.
Zhong Nanshan è un epidemiologo cinese molto noto. È apprezzato per il suo lavoro durante l'epidemia di SARS, nel 2003. Tocca a lui, il 21 gennaio (48 ore prima che Xi Jinping imponga il lockdown totale) ammettere alla tv pubblica che il nuovo coronavirus si sta senza dubbio diffondendo tra gli umani. Sono passati undici giorni da quando l'uomo di 61 anni, la prima persona risultata positiva a un test, è morto per Covid19. Undici giorni che potevano cambiare tutto. Undici giorni in cui nessuno ha avvertito i residenti di Wuhan o delle aree vicine che il nuovo coronavirus stava diventando altamente contagioso.
Anzi, mentre l'intero Paese si preparava a festeggiare il capodanno lunare, con milioni di persone in movimento, le autorità locali di Wuhan decisero di indire una sorta di festa: il 18 gennaio, in un sobborgo della metropoli dell'Hubei, il sindaco Zhou Xianwang invitò i cittadini al XXI banchetto di Capodanno, con decine di migliaia di persone che si riunirono in strada portando cibo da casa. Una bomba biologica, a pensarci adesso. E non è un caso che oggi di Zhou Xianwang non si parli più. Le comunicazioni ufficiali del governo cittadino sono affidate al vicensindaco, Hu Yabo. Mentre l'intera gestione dell'Hubei, per volere di Xi Jinping, è stata affidata a un braccio destro dello stesso presidente.
Coronavirus, la Cina ha mentito sui numeri, ma a Wuhan non sono morte 42mila persone o forse molte di più.
Quando Zhou Xianwang svela al quotidiano Global Times che 5 milioni di persone hanno lasciato la sua città, scoppia il panico. La Cina e il mondo intero iniziano a chiedersi: quante di loro sono portatori del nuovo coronavirus? E quante altre persone saranno infettate a causa loro?

Un recente studio condotto da ricercatori dell'Università di Southampton, in Gran Bretagna, ha stimato che se la Cina avesse agito con tre settimane di anticipo rispetto all’oramai celebre data del 23 gennaio, il numero di casi complessivi di Covid-19 si sarebbe potuto ridurre del 95%. Ma anche una sola settimana avrebbe ridotto il contagio globale del 66%. E gli 11 giorni di Wuhan avrebbero potuto cambiare il destino del mondo.

La guerra è iniziata un giorno imprecisato dell’­autunno del 2019. 

Durante l’inverno del 2020 si ripeterà che il primo colpo è stato sparato in un mercato umido di Wuhan, metropoli di 11 milioni di persone nel cuore della Cina. Sembra che la munizione sia stato un pipistrello che lì viene usato per fare zuppe. Forse ne faranno un po’ meno dopo l’epidemia perché il regime di Pechino si è mosso per mettere gli animali selvatici al bando.
Una malattia che viene dal pipistrello è ora la verità sull’origine del nuovo coronavirus, non la più esatta: l’Istituto superiore di Sanità italiano si limita a scrivere sul sito che il virus è passato dall’animale all’uomo ma non specifica che è stato il pipistrello. Conferma però il “salto di specie”, “Spillover” in inglese, titolo del profetico romanzo di David Quammen edito in Italia da Adelphi. Il 31 dicembre 2019 il nuovo coronavirus è stato per la prima volta intercettato, il 7 gennaio 2020 sequenziato dai ricercatori cinesi. Intorno al 20 gennaio, inizio delle feste per il capodanno lunare, Pechino lo ha comunicato al mondo.
Lo chiamano nuovo coronavirus perché fa parte di una famiglia già conosciuta di sette virus, un gruppo che include la normale influenza ma anche la Sars che nel 2003 provocò un’altra grave epidemia, o la Mers diffusa dal 2012 nel Medio Oriente e non ancora debellata. Il gruppo coronavirus si chiama così per la sua forma che sembra una corona con le spine e comporta problemi respiratori ma non tutti della stessa gravità, la Sars era più grave del nuovo coronavirus e la Mers è più grave della Sars. Il coronavirus che ha colpito più di 90 Paesi in un mese e in particolare l’Italia è l’ultimo arrivato del gruppo, è nuovo perché non era mai stato tracciato prima ed è particolarmente contagioso, si stima che un infetto contagi almeno altre due persone (R0 da 2,7 a 3,5). Questo è uno dei principali problemi.
Il nome ufficiale del nuovo coronavirus è Sars-CoV-2. La malattia che origina è la Covid-19, dove C sta per corona, V per virus, D per disease (malattia in inglese). 19 come 2019, anno in cui il virus è stato per la prima volta intercettato.
Come ripetono ricercatori e medici, il coronavirus si conosce da pochi mesi, il primo grande focolaio è scoppiato in Cina  tra novembre e dicembre 2019. Ragionevolmente da gennaio ha iniziato a propagarsi in tutto il mondo, sicuramente in Italia ma anche in Europa. Ufficialmente dal 21 febbraio affligge l’Italia, giorno della notizia del paziente 1 a Codogno, provincia di Lodi, Lombardia.
Con il paziente 1, il virus ha colpito l’ospedale del Lodigiano. Il paziente zero d’Europa è invece probabilmente un tedesco di 33 anni che il 24 gennaio ha manifestato febbre alta e problemi respiratori, una forma lieve che è durata fino al 27, giorno in cui è tornato al lavoro. La notizia è stata da un gruppo di medici tedeschi che ha inviato una lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine. L’uomo era stato a contatto con una collega di Shangai.

Il coronavirus in Italia

I dati dei contagi sono aggregati per provincia e i morti per regione. Per gli altri Paesi europei il dato è nazionale.
Dopo settimane di domande e risposte, si può sintetizzare: il coronavirus sembra ma non è influenza. I sintomi sono simili ma per il nuovo coronavirus non esiste vaccino, può provocare una polmonite per cui non esistono specifici antivirali, il virus penetra negli alveoli polmonari e può provocare crisi respiratorie che necessitano di ossigeno e terapia intensiva.
È questo quello che può mettere in crisi un sistema sanitario nazionale, anche quello italiano che viene ancora lodato nonostante i dolorosi progressivi tagli. Da qui la paura che si è fatta quotidianità poche settimane dopo l’arrivo ufficiale dell’epidemia in Italia. A mettere in crisi il sistema sanitario sono tre cose: la rapidità del contagio, il numero di pazienti che arrivano contemporaneamente agli ospedali, la lunga permanenza dei pazienti (3 settimane) in terapia intensiva.
Gli ultimi dati Oms (sempre missione di febbraio) hanno fatto una gerarchia utile dei sintomi più comuni quando c’è infezione da coronavirus: febbre (88%), tosse secca (68%), spossatezza (38%), muco quando si tossisce (33%), respiro corto (18%), gola infiammata (14%), mal di testa (14%), dolori muscolari (14%), raffreddore (11%). Meno frequenti nausea e vomito (5%), naso chiuso (5%), e diarrea (4%). Il naso che cola non è sintomo di infezione da coronavirus.
Il tasso di letalità (cioè il rapporto tra contagiati e vittime) è del 3,4% a livello globale. Il rischio di non superare la malattia che l’80% delle persone supera senza cure ospedaliere, dipende dall’età dei pazienti e dalle patologie pregresse, anche dal sesso (il tasso di letalità tra i maschi è più o meno il doppio di quello delle femmine) ma cruciale è anche la risposta del sistema sanitario del paese colpito.
Questo è quello che comunica l’Oms ma è anche quello a cui si assiste in Italia: la maggior parte dei decessi riguarda ottantenni e persone con altre importanti malattie tra cui i diabetici e coloro che hanno problemi cardiovascolari e in generale gli immunodepressi. È però anche vero che la reazione a questo virus varia da persona e persona e a volte prescinde da età, sesso e malattie preesistenti: dipende molto da come l’organismo e il sistema immunitario reagiscono all’attacco del patogeno. Così si spiega il paziente 1 italiano, il trentottenne sano e sportivo di Codogno che ha combattuto in un letto di terapia intensiva per venti giorni. Così si spiega che il 30% degli intubati in Italia al 9 marzo ha tra i 50 e i 64 anni, quindi non anziani. L’epidemia è diventata pandemia l’11 marzo, così l’ha stabilito l’Oms: significa che si sta diffondendo al di fuori delle misure di contenimento messe in atto in più paesi del mondo. Secondo la definizione dell'Oms, una pandemia è la diffusione in tutto il mondo di una nuova malattia e generalmente indica il coinvolgimento di almeno due continenti, con una sostenuta trasmissione da uomo a uomo. La gravità di una malattia non è il parametro decisivo perché venga dichiarata una pandemia, che riguarda invece l'efficacia con la quale una malattia si diffonde.
La ricerca internazionale sui virus continua perché ancora poco si sa dell’infezione: l’Oms (Organizzazione mondiale della Sanita, acronimo in inglese WHO)  ha mandato  25 esperti in Cina, tra di loro il direttore dell’Us National Institutes of Health, Clifford Lane. La missione Oms si è svolta tra il 16 e il 24 febbraio, periodo che in Cina ha corrisposto, e questo si sapeva, alla seconda ondata di contagi. 
Dopo nove giorni di lavoro della missione Oms sui dati cinesi, questi i risultati:
Trasmissione. Quando è scoppiato un focolaio in Cina, nella maggioranza dei casi (78-85%) è stato causato da un contagio all’interno di una famiglia attraverso le ormai famose gocce del respiro o altri vettori di trasmissione fra persone contagiate. Secondo questi dati, le particelle piccole e leggere che rimangono sospese nell’aria, sono cosa diversa dalle gocce del respiro, non sono tra le principali cause di diffusione. Più di 2.055 operatori sanitari sono stati contagiati o a casa propria o nella prima fase del diffondersi dell’epidemia quando non disponevano degli strumenti di protezione (camici, guanti, mascherine).
Cure e tempi. Il 5% dei pazienti affetti da coronavirus ha avuto bisogno della respirazione artificiale. Un altro 15% ha avuto bisogno di ossigeno per respirare, e non per pochi giorni. Dalla comparsa dei primi sintomi, la malattia dura in media tra le 3 e le 6 settimane.

Come prevenire il contagio:
  • Lavare bene le mani (almeno 20 secondi e con acqua calda).
  • Se non è possibile, usare i disinfettanti, se non si è sicuri di averle pulite evitare il contatto con occhi, naso e bocca.
  • Evitare baci, abbracci, strette di mano, tutti quei contatti che possono far passare il virus da una persona all’altra attraverso le piccole gocce del respiro.
  • Tenere una distanza di almeno un metro tra una persona e l’altra.

Queste precauzioni sono ripetute giornalmente da tutti gli organi di stampa, la fonte è l’Istituto superiore di Sanità. Virologi, epidemiologi, ricercatori concordano.
Niente panico, ripetono i medici, ma basta superficialità. Non creare folla. Non vivere in gruppo. Sono gli imperativi di questi giorni che si sono resi necessari perché in Italia i numeri del contagio hanno registrato un preoccupante aumento per giorni con una progressione del 25 per cento. Aumento che fa di questa emergenza sanitaria ciò che più assomiglia a una guerra. Ecco perché la richiesta accorata di istituzioni, medici e cittadini comuni di stare a casa. Evitare il più possibile mezzi pubblici, bar, ristoranti, musei, cinema, piscine e palestre. Tutti spazi chiusi con decreto alla fine.
Coprirsi naso e bocca quando si starnutisce, starnutire nel gomito e non nella mano. Non toccarsi la faccia. Se si hanno sintomi compatibili con il Covid19 (ad esempio 37,5 di febbre), rimanere a casa. Chiamare il proprio medico di base o lo 800 065 510, il numero della Croce Rossa per informazioni.

Gli innumerevoli decreti del Governo Conte

Dall’8 marzo al 3 aprile la Lombardia e 14 province sparse tra Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Marche diventano zone in cui è pure difficile spostarsi se non per comprovati motivi fra cui quelli di lavoro. Poco a poco le serrande si abbassano e le strade si svuotano. Anche le scuole e i negozi nel resto d’Italia chiudono fino al 3 aprile.
Poche ore dopo, l’entrata in vigore del decreto arriva La direttiva del ministero dell’Interno ai prefetti per far rispettare divieti e restrizioni. È un cambiamento epocale delle nostre abitudini. Con un successivo decreto si chiuderanno bar e ristoranti. In questa dimensione inimmaginabile in cui siamo di colpo precipitati, uno starnuto può costare un’accusa di omicidio.

Differenze tra Italia e Cina

In Cina, appena preso atto dell’epidemia, chiunque è andato dal dottore con la febbre è stato sottoposto al test del cornavirus. E’ entrata in vigore la presunzione da coronavirus: immediato il test con il risultato disponibile in giornata. In Italia, a tre settimane dall’infezione, ancora non è così: il medico di base valuta o meno in base ai sintomi e con triage telefonico. In generale le regole cinesi sono state molto più dure di quelle italiane.
Fino a marzo la stragrande maggioranza dei contagi e delle vittime è stata in Cina. Poi il coronavirus è diventato un'emergenza mondiale.

Perché?

All’Istituto nazionale della Salute di Parigi (Inserm) hanno monitorato il coronavirus da mesi e per mesi hanno studiato la possibile diffusione nel mondo. La direttrice di ricerca Vittoria Colizza ha elencato i quattro paesi europei ad alto rischio sin dall’inizio: Italia, Francia, Germania e Regno Unito, quattro grandi economie che con la Cina hanno stretti rapporti commerciali. È accaduto in Italia ma poteva accadere altrove.
Il focolaio del virus è come un incendio, può scoppiare o morire sul nascere se non trova di che alimentarsi, è una delle spiegazioni. L’altra è che la Germania, ad esempio, al contrario dell’Italia, ha fatto dall’inizio il tampone solo ai sintomatici, quindi i numeri sono stati da subito più contenuti. Questa la spiegazione italiana.
Quella tedesca è diversa: al contrario della Germania che ha tracciato subito i casi sospetti, l’Italia si è mossa tardi, quando ci sono stati i primi morti, sostiene il Robert Koch Institut, istituto governativo che si occupa della salute nazionale ed è specializzato in malattie infettive. Il 10 marzo comunque la cancelliera Angela Merkel spegne ogni illusione nazionale: tra il 60 e il 70 per cento dei tedeschi potrebbe contrarre il coronavirus, dichiara dopo un incontro in parlamento.
Il 16 marzo l’epidemia si è diffusa in Europa. Nessuno ha più scuse e nessuno si può più nascondere, ma i Paesi procedono per ordine sparso.
Con il coronavirus sono entrate nel nostro lessico quotidiano parole come droplet (la piccola goccia del respiro di ognuno che veicola il virus), epidemia e pandemia, terapia intensiva, lavoro e lezioni a distanza, zona rossa (comprende 10 comuni attorno a Codogno, primo e principale focolaio italiano, e Vo’ Euganeo in provincia di Padova, il focolaio secondario) e zona arancione (tutta la Lombardia e 14 province), la parte più produttiva del Paese. I colori sbiadiscono presto: a colpi di decreto, l'Italia diventa tutta zona a rischio.

Gli effetti sull’economia

Il nuovo coronavirus sta mettendo in ginocchio l’economia mondiale. La crisi economica 2007-2008 era quella della finanza americana, i colpevoli da mettere alla gogna erano gli algoritmi, la spregiudicatezza degli operatori, i mutui gonfiati: se volessimo individuare il vizio capitale penseremmo all’avarizia e alla superbia. Nel caso del coronavirus c’è sempre di mezzo la superbia (il regime cinese ha negato finché ha potuto, e chissà se ha detto la verità sui numeri del contagio) ma l’altro unico peccato a cui possiamo pensare è la gola.
Magari un giorno saranno pubblicate altre teorie scientifiche attendibili sull’origine del virus ma finora dobbiamo credere ai pipistrelli o chi per loro.
Ovunque nel mondo e soprattutto su Internet circolano le teorie più fantasiose sul coronavirus dall’origine ai rimedi. Oltre le fake news, quello che molti sperano è che l’aggressività del virus si attenui con il caldo, anche se al momento non è una certezza scientifica. Alcuni importanti virologi non sono neanche sicuri che possa diventare una innocua influenza: non è escluso ma può accadere anche il contrario. 
La vera speranza è il vaccino ma bisogna aspettare ancora un po’ di tempo (12-18 mesi secondo l'OMS).  Nel frattempo si tenta di capire quali farmaci siano piu’ efficaci.

La guerra segreta contro i falsari da laboratorio cinesi

La Cina è un mercato redditizio per reagenti contraffatti, un problema serio sia per gli scienziati cinesi sia per la comunità scientifica globale, poiché questi falsi prodotti destinati ai laboratori hanno contribuito al fallimento di esperimenti. Alcuni ricercatori però sono passati al contrattacco.
Nel 2013 Huang Song è entrato in una stamperia in un quartiere a nord-ovest di Pechino e per caso ha scoperto le prove di un'impresa criminale sfacciata e diffusa. Huang era a soli 15 chilometri dall'Istituto nazionale di scienze biologiche di Pechino, dove fa ricerca nel campo della biologia sintetica. Cercava una piccola macchina da tavolo per produrre le centinaia di etichette necessarie ai suoi esperimenti, e aveva chiesto se un determinato modello poteva stampare su carta resistente al calore. Il proprietario del negozio orgogliosamente aveva tirato fuori alcuni campioni che aveva fatto per i clienti che usavano quella stessa macchina.
Huang era rimasto sconvolto nel vedere nomi come Abcam e Cell Signaling Technology sulle etichette che sembravano proprio come quelle delle fiale di costosi anticorpi prodotti dalle aziende occidentali. Anche se la scritta non significava nulla per l'amichevole proprietario del negozio, per Huang ciò confermava quello che lui e un certo numero di suoi colleghi sospettavano da tempo: molti degli anticorpi venduti dai distributori cinesi non erano quello che avrebbero dovuto essere. I falsari stavano mettendo sul mercato reagenti di ricerca contraffatti e diluiti, e questo negozio a Zhongguancun, il più importante parco tecnologico di Pechino, era uno dei luoghi in cui acquistavano macchine per le loro etichette. "Avevo dei sospetti, e quella era la conferma", racconta Huang.
La Cina è famosa per DVD, borse Louis Vuitton e orologi Rolex falsi. Ma i reagenti contraffatti non sono in vendita negli affollati mercati pubblici. Sono venduti tramite sofisticati siti web, mescolati a forniture legittime, acquistate e vendute usando una rete di partner inconsapevoli, come il negoziante di Zhongguancun. Addirittura il personale addetto alle pulizie dell'università è stato implicato nel processo clandestino che crea prodotti di laboratorio contraffatti,
inclusi reagenti chimici di base, siero per colture cellulari e kit standard di laboratorio. Anche se è difficile quantificare gli effetti di questo commercio illegale, gli scienziati cinesi e alcuni in Europa e in Nord America affermano che i prodotti falsi li hanno portati fuori strada, con perdita di tempo e materiali.
Qualcuno in Cina teme che il problema possa minare gli sforzi del paese per diventare uno dei leader mondiali in campo scientifico. Le opzioni per combattere i falsari sono limitate. Le aziende che producono i reagenti i cui marchi sono stati contraffatti – e gli scienziati ingannati dai falsi – hanno desistito dall'intraprendere azioni legali, in parte perché sono in imbarazzo e in parte perché hanno poca fiducia nel fatto che le autorità di contrasto del fenomeno possano scalfire questo commercio. "Non si possono fermare dal provarci: il margine di profitto è troppo alto", afferma Huang.
Scienziati e fornitori stanno ora ideando strategie che potrebbero aiutare a cambiare l'equazione. I principali produttori di reagenti hanno lanciato campagne educative. Gli scienziati stanno condividendo i racconti delle loro disavventure, insieme con suggerimenti per evitare forniture fraudolente. E Huang ha contribuito a creare un'impresa a partecipazione statale che importa reagenti e sfrutta nuove procedure doganali e di quarantena, il che potrebbe contribuire a ridurre il mercato dei falsi. Ma queste misure non aiuteranno tutti. I ricercatori delle università e degli istituti fuori dei grandi centri come Pechino e Shanghai sono particolarmente a rischio. "Conosco tanti laboratori che ancora acquistano e usano falsi reagenti chimici importati", spiega Can Xie, biofisico dell'Università di Pechino. "Mi dispiace per loro".

La catena dei fornitori

La Cina è un bersaglio attraente per questa forma specializzata di contraffazione. Gli investimenti nella ricerca sono aumentati rapidamente: negli ultimi dieci anni il budget della scienza biomedica per la National Science Foundation cinese è quadruplicato. E l'enorme dimensione del paese fa sì che le aziende straniere, incapaci di tenere il passo con la domanda e riluttanti a barcamenarsi nel complicato sistema di distribuzione della Cina, sono diventati dipendenti dai distributori locali. "Il paese pone molti problemi di distribuzione e le spedizioni sono difficili dal punto di vista logistico", afferma Jay Dong, vicepresidente globale e direttore generale dell'area Asia-Pacifico di Cell Signaling Technology, produttore di anticorpi con sede a Danvers, in Massachusetts.
Quindi le aziende locali spesso svolgono un ruolo di distribuzione molto importante. Alcune sono autorizzate dai produttori. Molte altre tuttavia non lo sono, e spesso è difficile per gli scienziati capire la differenza, dice Jack Leng, amministratore delegato di Shanghai Universal Biotech, uno dei maggiori distributori di anticorpi in Cina. I commercianti poco raccomandabili possono trarre vantaggio dai prezzi gonfiati e dalle lunghe attese create dalle ostiche dogane della Cina e dalle misure di controllo della qualità. Offrono prezzi bassi e un servizio veloce per quelli che sembrano gli stessi prodotti, a volte affermando che le merci sono state introdotte di contrabbando nel paese. "La contraffazione è evidente in Cina più che in altri paesi", dice Dong.
Xie, che ha lavorato negli Stati Uniti come postdoc, dice che ci sono voluti pochi anni dopo il suo ritorno in Cina nel 2009 per rendersi conto che alcuni reagenti chimici che stava acquistando erano scadenti. I distributori, racconta, affermavano di rappresentare aziende straniere con prodotti di prima qualità, mentre in effetti stavano vendendo versioni a basso costo prodotte a livello nazionale. Non è in grado di affermare con certezza che i reagenti impuri e di scarsa qualità siano stati responsabili del fallimento degli esperimenti, ma aggiunge che "qualche misteriosa sostanza insolubile" trovata in alcune soluzioni avrebbe dovuto far scattare un segnale di allarme. Ora acquista solo da aziende note con filiali in Cina.
Huang, che è vicedirettore dell'amministrazione presso il suo istituto, è stato testimone di disavventure simili capitate a un collega nel 2012, quando, sei mesi dopo aver pubblicato un articolo, ha scoperto di non poter ripetere i risultati di alcuni esperimenti. Il ricercatore ha effettuato tutti i controlli standard per questo tipo di problemi e ha chiesto aiuto ai suoi colleghi. Alla fine ha scoperto che un reagente usato per introdurre il DNA nelle cellule stava ostacolando i suoi sforzi di replicazione dei risultati. Ora Huang attribuisce i problemi a una contraffazione. "L'ultima cosa a cui pensi è il reagente", dice. "Questo è il tipo di stress che può costarti parecchio".
Gli anticorpi contraffatti sono una fonte di ostacoli particolarmente diffusa. Gli anticorpi sono fondamentali in una serie di esperimenti biologici, perché offrono la possibilità di marcare e tracciare le proteine in un'ampia gamma di sistemi viventi. Ma anche quelli incontaminati presentano alcune difficoltà: ci possono essere variazioni naturali da lotto a lotto, e potrebbero marcare le proteine sbagliate.
Queste incertezze rendono i falsi difficili da scovare. "Le ragioni di un risultato negativo possono essere diverse", dice Zhu Weimin, vicepresidente senior della divisione di tecnologia anticorpale di Abcam, con sede a Cambridge, in Regno Unito, che ha una filiale regionale a Shanghai. "Il problema è serio".
Gli effetti di questa combinazione di confusione e di incertezza non sono limitati alla Cina. Nel 2012, per esempio, i ricercatori di Londra e Bialystok, in Polonia, hanno riferito di aver usato un kit basato su anticorpi, chiamato ELISA, per rilevare una certa proteina nel sangue delle persone con malattia renale cronica. Ma quando lo specialista Herbert Lin, del Massachusetts General Hospital di Boston, ha acquistato lo stesso kit – marcato come prodotto della USCN Life Science di Wuhan, in Cina – e lo ha sottoposto a prove rigorose, ha scoperto che il kit marcava una proteina diversa. Gli autori dello studio originale hanno convenuto che ormai era chiaro che l'anticorpo puntava la proteina errata. "Il fatto che non abbiamo ricevuto risposte dai produttori a un paio di e-mail riguardo al loro saggio avrebbe forse dovuto allertarci che c'era qualcosa di sbagliato", hanno scritto.
L'oncologo ricercatore Ioannis Prassas, del Mount Sinai Hospital di Toronto, in Canada, ha avuto un'esperienza simile con i kit ELISA con marchio USCN. Prassas dice che il suo gruppo ha impiegato due anni e circa 500.000 dollari per cercare d'identificare il problema.
Chris Sun, responsabile dello sviluppo tecnologico di Cloud-Clone Corporation, azienda di Wuhan che vende prodotti USCN, dice che la società ha esaminato il kit acquistato da Prassas, ma non ha mai identificato il problema. Ha rimborsato parzialmente Prassas. Sun nega che l'azienda vendesse intenzionalmente cattivi anticorpi. "Abbiamo migliaia di anticorpi che produciamo noi stessi. Non abbiamo motivo di usare anticorpi falsi quando abbiamo quelli autentici", dice, aggiungendo che non risulta alcuna registrazione di un reclamo sul kit con cui Lin ha trovato problemi.
La maggior parte dei kit USCN sono venduti tramite distributori, aggiunge Sun, e a volte l'azienda ha trovato prodotti contraffatti spacciati per prodotti USCN.
Stimare le dimensioni del problema è difficile, anche se alcune aziende ci stanno provando. Alla fine dell'anno scorso, Abcam ha tirato le somme di circa un anno di segnalazioni ricevute dagli scienziati cinesi preoccupati dell'autenticità dei prodotti con marchio Abcam. Dopo aver controllato codici a barre, numeri di lotto e periodi di acquisto, l'azienda ha stabilito che i prodotti falsi erano responsabili del 42 per cento delle centinaia di casi segnalati.

Ingredienti segreti

Ciò che gli scienziati stanno trovando nei flaconi è molto variabile. A volte, gli anticorpi comuni e a basso costo sono ri-etichettati e venduti come anticorpi rari e costosi, dice Jade Zhang, direttore generale della filiale di Shanghai di Abcam. I falsari cercheranno di trovare un anticorpo di peso molecolare simile in modo che gli scienziati che eseguono un test rapido per verificare i reagenti non si allarmino. Ma negli esperimenti, gli anticorpi mancheranno i loro obiettivi.
Più comune rispetto alla sostituzione dell'anticorpo è la diluizione. I falsari acquistano prodotti autentici da distributori cinesi o di oltremare, e poi diluiscono una confezione per ottenerne cinque, dice Leng. "I clienti hanno quindi versioni molto più deboli. A volte possono usarli, a volte no".
I falsari "si sforzano molto per replicare il nostro imballaggio, creando provette ed etichette così simili alle nostre che può essere difficile accorgersi della differenza", dice Dong. "Il problema della contraffazione sembra provenire da un segmento di mercato piccolo ma attivo".
E molti dei soggetti coinvolti non si rendono conto di esserlo. Il proprietario del negozio di Zhongguancun non aveva idea di essere invischiato in attività illegali. "Sono tutti parte di una catena, ma non sono malvagi", dice Huang.
Nel 2015, Huang aveva notato nel suo laboratorio un'addetta alle pulizie che tirava fuori i flaconi dalla spazzatura e li metteva da parte. Stupito, le aveva chiesto perché. "L'avevo avvertita che non doveva bere da quei flaconi", dice. La donna aveva risposto che qualcuno era disposto a comprarli per 40 yuan (circa cinque dollari) al pezzo. È stato un altro momento illuminante.
In origine le bottiglie contenevano siero fetale bovino (FBS), un prodotto molto usato per le colture cellulari, derivato dal sangue raccolto nei macelli. Ma un divieto per le importazioni di prodotti bovini da Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda, a causa di malattie infettive, aveva messo a dura prova le forniture di FBS di alta qualità.
Il prezzo per le riserve di siero da luoghi vietati è raddoppiato negli ultimi anni, arrivando a circa 10.000 yuan a flacone. Siero fetale bovino di bassa qualità di altra origine costa circa un quarto rispetto alle importazioni vietate, ma è un cattivo sostituto. Thermo Fisher Scientific di Waltham, nel Massachusetts, che produce una delle marche di siero più diffuse, consapevole del problema, ha creato etichette e flaconi difficili da duplicare. È così che sono iniziati i tentativo di riciclaggio degli addetti alle pulizie. I falsari possono semplicemente ricaricare i flaconi con FBS di bassa qualità e venderli a prezzo più alto.
È difficile sapere quanto sia diffuso il problema, ma Huang azzarda una stima di massima: dato il numero di flaconi consumati e scartati dai grandi laboratori, nella sola Pechino il potenziale mercato dei falsari di FBS potrebbe essere di decine di milioni di yuan all'anno.

Alcuni si chiedono se il virus sia stato “accidentalmente” rilasciato.

Un laboratorio di biosicurezza di livello 4 che studia i “patogeni più pericolosi al mondo” ha sede a Wuhan, epicentro dell’epidemia di coronavirus che ha colpito la Cina, portando alcuni a sostenere che il virus sarebbe stato accidentalmente rilasciato.
In un articolo del 2017, Nature ha fatto riferimento all’Istituto di ricerca medica dell’Università di Wuhan, che ospita il laboratorio di biosicurezza livello 4 (BSL-4), che è costato 300 milioni di yuan (44 milioni di dollari USA).
Tra gli scopi del laboratorio vi era anche un piano per studiare “l’agente patogeno che causa la SARS”, spingendo la rivista Nature a riportare le preoccupazioni sulla sicurezza del laboratorio.
“Il virus SARS è fuggito dalle strutture di contenimento di alto livello a Pechino più volte”, osserva l’articolo, facendo riferimento a Richard Ebright, un biologo molecolare della Rutgers University.
Sul sito di Zero Hedge ci si chiede se il laboratorio di Wuhan sia “la versione cinese dell’Umbrella Corp”, un riferimento alla società farmaceutica dell’universo di Resident Evil che ha segretamente sviluppato armi biologiche.
Secondo il loro articolo, l’ubicazione del centro di ricerca di Wuhan “pone la domanda immediata se l’epidemia di coronavirus non sia un virus armato che è appena sfuggito al controllo del laboratorio”.

Il «laboratorio militare» di Wuhan e «i piani segreti per le armi chimiche» - Cosa scriveva Nature nel 2017
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Il nuovo coronavirus spaventa il mondo. Mentre crescono vittime e contagi, con migliaia di casi accertati e purtroppo di deceduti anche in Italia.
Tutti ci interrogiamo sulle origini del virus 2019-nCoV. 
Molti ricercatori sembrano escluderne la genesi nell'ambito di un mercato di Wuhan, la megalopoli che è l'epicentro dell'epidemia. Tra le ipotesi in campo quella della contaminazione partita per errore dal laboratorio di biosicurezza di livello 4 (BSL-4) di Wuhan. Due anni fa la prestigiosa rivista scientifica Nature aveva parlato del "piano per costruire tra i cinque e i sette laboratori di biosicurezza di livello 4 (BSL-4) in tutto il continente cinese entro il 2025" che "ha generato molta eccitazione, ma anche innumerevoli perplessità". 
"Fuori della Cina, alcuni scienziati si preoccupano infatti che gli agenti patogeni possano essere fuoriusciti per errore umano dall'impianto, aggiungendo una dimensione biologica alle tensioni geopolitiche tra la Cina e altre nazioni", si legge nell'articolo pubblicato il 23 febbraio 2017 e rilanciato in Italia da Le Scienze, versione italiana di Scientific American. "BSL-4 è il massimo livello di biocontenimento", spiega l'articolo, ma "queste strutture sono spesso controverse. Il primo laboratorio BSL-4 in Giappone è stato costruito nel 1981, ma ha lavorato su agenti patogeni a basso rischio fino al 2015, quando le preoccupazioni relative alla sicurezza sono state finalmente superate". 

Ipotizzare che l’origine dell’epidemia a Wuhan si trovi in un laboratorio biologico vicino non è sbagliato, bisogna però valutare quali sono le fonti e cosa dicono esattamente.

Paolo Liguori parla in diretta al TgCom24 di una fonte anonima affidabile, la quale avrebbe riferito che il focolaio del nuovo coronavirus cinese avrebbe origine «dal laboratorio di Wuhan, di cui le riviste occidentali si erano già interessate». Il Direttore mostra così la copertina di Nature del 2017, con l’articolo di David Cyranoski, da noi già trattato in un precedente articolo, dove si sollevarono dubbi sulla sicurezza di un laboratorio del genere.
Come avevamo già evidenziato, chi si è occupato di studiare le origini del virus – compreso Cyranoski, in una recente critica sull’origine dai serpenti – non ha sostenuto la tesi di una origine “artificiale”.La notizia è stata rilanciata in questi giorni nel web, senza ausilio di una “Gola profonda”. Forse non è stata letta con attenzione, prima di ascoltare altre fonti. Cerchiamo allora di fare chiarezza, premesso che fare ipotesi del genere è legittimo, ma occorrono prove solide.

Un laboratorio militare in cui si studiano «armi chimiche»?

Sul TgCom24 la narrazione prosegue, parlando di «laboratorio militare» nel centro di Wuhan, e di un «programma segreto sulle armi chimiche». Il National Bio-safety Laboratory è un centro di ricerca, progettato per studiare la prevenzione e il controllo delle malattie infettive emergenti.
«Certificato come conforme agli standard e ai criteri di BSL-4 – continua Cyranoski su Nature – dal China National Accreditation Service for Conformity Assessment (CNAS)», con approvazione del Ministero della salute cinese.
Tra i criteri di sicurezza, oltre al filtraggio dell’aria, è previsto  il trattamento di acqua e rifiuti, mentre i ricercatori si cambiano i vestiti e fanno una doccia – prima e dopo l’utilizzo delle strutture – tutto nell’ambito di una collaborazione coi ricercatori francesi. Esiste una rete di laboratori di questo tipo nel Mondo. Cyranoski riporta che erano una dozzina, sparsi in Giappone, negli Stati Uniti e in Europa. Alla faccia del piano segreto per sviluppare armi chimiche.

Qual è lo scopo del Bio-safety Laboratory di Wuhan?

Laboratori di questo tipo: Bsl (Bio-safety Laboratory), sono attrezzati allo scopo di studiare le «malattie emergenti – continua Cyranoski – memorizzerà i virus purificati e fungerà da “laboratorio di riferimento” dell’Organizzazione mondiale della sanità collegato a laboratori simili in tutto il mondo».
Difficile definirlo un laboratorio militare in cui vengono portati avanti piani segreti.
«Il laboratorio è stato progettato e costruito con l’assistenza francese – spiega Cyranoski – nell’ambito di un accordo cooperativo del 2004 sulla prevenzione e il controllo delle malattie infettive emergenti. 

Ma la complessità del progetto, la mancanza di esperienza della Cina, la difficoltà di mantenere i finanziamenti e le lunghe procedure di approvazione del governo hanno comportato che la costruzione non fosse terminata fino alla fine del 2014».
Il Wuahn Institute of Virology – non proprio una caserma – che ospita il laboratorio, non sembra nemmeno nel centro della città, stando a quanto possiamo vedere con Google maps.

La “Gola profonda” del Washington Times

Si citano quindi le dichiarazioni al Washington Times (da non confondere col Washington Post), di un presunto ex ufficiale dei servizi israeliani, Dany Shoham, esperto di guerra batteriologica, secondo il quale il laboratorio farebbe parte di un più vasto progetto segreto sulle «armi chimiche» (ma il Washington Times parla di «bio-warfare», ovvero “guerra biologica“), sfuggito evidentemente ai colleghi di tutto il mondo dal 2017 a oggi.
Ovviamente, per stessa ammissione del TgCom24, non ci sono prove, ragione per cui, risulta di difficile comprensione l’esigenza di far circolare narrazioni simili.
Il 27 gennaio i debunker del circuito di Poynter hanno contattato Dany Shoham, il quale smentisce di aver affermato che il coronavirus possa essere originato dal laboratorio di Wuhan.
«Ho suggerito un possibile collegamento al programma di guerra biologica cinese – afferma Shoham – sotto forma di fuga del virus, ma ho aggiunto che: “finora non ci sono prove o indicazioni per tale incidente”.

L’intero evento potrebbe ovviamente essere del tutto naturale, ed è così che sembra essere in questo momento. Sono necessarie ulteriori informazioni sull’origine del virus».

La smentita di Nature

Nature aggiorna con una nota editoriale l’articolo di Cyranoski sul laboratorio di Wuhan, spiegando che le tesi di complotto attorno al suo contenuto sono infondate. Ribadendo che chi ha studiato il virus ritiene più probabile come origine il mercato locale.

La guerra della Cina contro il virus e la verità   

Laboratori chiusi, medici silenziati, professori arrestati, social network censurati e attacchi ai “nemici del popolo”. Così il Partito comunista ha messo in pericolo la salute internazionale e ora usa l’epidemia per fare propaganda. E non è ancora finita. Anche in Italia non siamo da meno con la propaganda...

(Web, Google, CNN, FOX NEWS, LANCET, Wikipedia, Il Sole 24 ore, TGCOM24, Nature, Whashington Times, Il Foglio, Maurizioblondet, whitewolfrevolution, Le Scienze, Nature, You Tube)