lunedì 30 gennaio 2023

Il Mitsubishi Ki-83 (三菱 キ83) fu un caccia pesante bimotore sperimentale a lungo raggio

Il Mitsubishi Ki-83 (三菱 キ83) fu un caccia pesante bimotore sperimentale a lungo raggio


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Il Mitsubishi Ki-83 (三菱 キ83) fu un caccia pesante bimotore sperimentale a lungo raggio, sviluppato dall'azienda aeronautica giapponese Mitsubishi sul finire della seconda guerra mondiale. Rimase allo stadio di prototipo e non entrò in produzione.



Storia del progetto

Durante la seconda guerra sino-giapponese i bombardieri nipponici che effettuavano missioni in profondità in territorio ostile, subirono gravi perdite a causa degli intercettori dell'esercito rivoluzionario nazionale cinese. I comandi giapponesi, consapevoli dell'importanza del bombardamento strategico in profondità in territorio nemico, commissionarono nel 1943 un nuovo caccia pesante a lungo raggio, dotato di un armamento particolarmente potente in grado di scortare i bombardieri durante tutta la missione. Il progetto venne affidato ad un team guidato da Tomio Kubo, lo stesso progettista del Mitsubishi Ki-46. Inizialmente il Ki-83 venne concepito come monomotore, solo che non essendo disponibile un propulsore talmente potente da garantire le prestazioni desiderate, si decise di adottare una soluzione con doppia motorizzazione. Prima della fine della guerra vennero costruiti 4 prototipi, il primo dei quali volò il 18 novembre 1944. La produzione in serie non fu mai avviata, poiché i bombardamenti ai complessi industriali, non ne consentirono l'inizio prima del sopraggiungere dell'armistizio del 15 agosto 1945.
Il Ki-83 fu una totale sorpresa per gli statunitensi che, non conoscendone neppure l'esistenza, non gli avevano dato un nome in codice, a differenza di tutti gli altri aerei giapponesi conosciuti della seconda guerra mondiale. Dopo la guerra, ingegneri aeronautici statunitensi e funzionari dell'American Air Force valutarono i quattro prototipi con grande interesse. Non a caso, la maggior parte delle fotografie esistenti del Ki-83, lo ritraggono con le insegne dell'USAAF.
Il Mitsubishi Ki-83 è stato progettato come caccia pesante a lungo raggio. È stato progettato e costruito da un team guidato da Tomio Kubo, progettista del fortunatissimo Mitsubishi Ki-46. Il progetto era una risposta a una specifica del 1943 per un nuovo caccia pesante con una grande portata. Il primo dei quattro prototipi volò il 18 novembre 1944. Le macchine mostrarono una notevole manovrabilità per velivoli delle loro dimensioni, essendo in grado di eseguire un giro di 671 m (2.200 piedi) di diametro in soli 31 secondi a una velocità di oltre 644 km/ h (400 mph). Il Ki-83 portava un potente armamento di due cannoni da 30 mm (1,18 pollici) e due da 20 mm nel muso. 
Nonostante il settore manifatturiero giapponese devastato dalle bombe, i piani per l'entrata in produzione del Ki-83 erano in corso quando il Giappone si arrese il 15 agosto 1945.
Sia l'esistenza che le prestazioni del Ki-83 erano poco conosciute durante la guerra, anche in Giappone. Era completamente sconosciuto nei circoli dell'aviazione militare alleata, come dimostrato dal fatto che al Ki-83 non era stato assegnato un nome in codice. La maggior parte delle prime fotografie del tipo sono state scattate durante l'occupazione postbellica del Giappone, quando i quattro prototipi furono sequestrati dalle forze aeree dell'esercito degli Stati Uniti e ridipinti con le insegne USAAF. Quando sono stati valutati da ingegneri aeronautici statunitensi e altri esperti, un Ki-83 che utilizzava carburante ad alto numero di ottani ha raggiunto una velocità di 762 km/h (473 mph), a un'altitudine di 7.000 metri (23.000 piedi).

Varianti:
  • Caccia pesante sperimentale a lungo raggio Ki-83 , quattro prototipi costruiti.
  • Ki-95 versione da ricognizione progettata, nessuna costruita. 
  • Sviluppo previsto del Ki-103, nessuno costruito. 

Tecnica

Il Ki-83 era un monoplano ad ala media, con fusoliera monoscocca, interamente costruito in metallo e con carrello retrattile. Era dotato, a difesa dell'equipaggio, di sedili con corazzatura in acciaio, il cui spessore era di 12 mm per quello posteriore e di 8 mm per quello del pilota.
La propulsione era affidata a una coppia di motori Mitsubishi Ha-211 Ru (Ha-43), radiali 18 cilindri doppia stella raffreddati ad aria, che erogavano ciascuno una potenza massima di 2 070 hp (1 544 kW) a 1 000 m.
Per aumentare il raggio d'azione, il velivolo venne dotato di tre serbatoi, due alari ed uno principale nella fusoliera, che insieme potevano contenere 1 560 litri di carburante. I primi due autosigillanti furono dotati di sistema automatico antincendio, mentre quello all'interno della fusoliera fu protetto da uno strato di gomma su più livelli spesso 16 millimetri, che nel caso in cui fosse stato colpito, ne avrebbe garantito la deformabilità senza che potesse esplodere o incendiarsi.
Il Ki-83 dimostrò una notevole manovrabilità per un aereo delle sue dimensioni, riuscendo ad effettuare un loop di 671 metri in appena 31 secondi ed alla velocità di 644 km/h.
L'armamento consisteva in 4 cannoni, due da 30 mm e due da 20, tutti montati sul muso. L'aereo poteva trasportare anche due bombe da 50 kg alloggiate in un vano interno alla fusoliera.

Versioni:
  • Ki-83: caccia pesante sperimentale, 4 prototipi costruiti.
  • Ki-95: versione da ricognizione, che doveva sostituire il Ki-46. Rimasta allo stadio di progetto, nessuno costruito.
  • Ki-103: progetto abbandonato, nessuno costruito.

Utilizzatori:
  • Giappone - Dai-Nippon Teikoku Rikugun Kōkū Hombu;
  • Stati Uniti - United States Army Air Forces - Utilizzato per prove di valutazione comparative.

Specifiche (Ki-83)

Caratteristiche generali:
  • Equipaggio: 2
  • Lunghezza: 12,5 m (41 piedi 0 pollici)
  • Apertura alare: 15,5 m (50 piedi 10 pollici)
  • Altezza: 4,6 m (15 piedi 1 pollici)
  • Area alare: 33,5 m 2 (361 piedi quadrati)
  • Peso a vuoto: 5.980 kg (13.184 libbre)
  • Peso lordo: 8.795 kg (19.390 libbre)
  • Peso massimo al decollo: 9.430 kg (20.790 lb)
  • Motopropulsore: 2 × Mitsubishi Ha-43 Ru (Ha211) motori a pistoni radiali raffreddati ad aria a 18 cilindri, 1.600 kW (2.200 hp) ciascuno per il decollo
  • 1.544 kW (2.070 CV) a 1.000 m (3.281 piedi)
  • 1.439 kW (1.930 CV) a 5.000 m (16.404 piedi) e 6.400 m (20.997 piedi)
  • 1.283 kW (1.720 CV) a 9.500 m (31.168 piedi)
  • Eliche: eliche a 4 pale a velocità costante.

Prestazioni:
  • Velocità massima: 704,5 km / h (437,8 mph, 380,4 kn) a 9.000 m (29.528 piedi)
  • 655 km / h (407 mph; 354 kn) a 5.000 m (16.404 piedi)
  • Velocità di crociera: 450 km / h (280 mph, 240 kn) a 4.000 m (13.123 piedi)
  • Raggio d’azione: 1.953 km (1.214 mi, 1.055 nmi)
  • Autonomia: 3.500 km (2.200 mi, 1.900 nmi)
  • Tangenza: 12.660 m (41.540 piedi)
  • Tempo per raggiungere l'altitudine: 10.000 m (32.808 piedi) in 10 minuti
  • Carico alare: 263 kg/m2 ( 54 lb/sq ft)
  • Potenza/massa: 0,35 kW/kg (0,21 hp/lb).

Armamento
  • Cannoni: 2 cannoni Ho-155 da 30 mm (60 rpg) e 2 cannoni Ho-5 da 20 mm (160 rpg) montati nel muso della fusoliera.


….Gli attuali eventi storici ci devono insegnare che, se vuoi vivere in pace, 
devi essere sempre pronto a difendere la tua Libertà….
La difesa è per noi rilevante
poiché essa è la precondizione per la libertà e il benessere sociale.
Dopo alcuni decenni di “pace”,
alcuni si sono abituati a dare la pace per scontata:
una sorta di dono divino 
e non, un bene pagato a carissimo prezzo dopo innumerevoli devastanti conflitti.…

(Fonti: https://svppbellum.blogspot.com/, Web, Google, Wikipedia, You Tube)






































 

domenica 29 gennaio 2023

GIOVANNI, CLASSE 1916, ERA MIO PADRE


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Era mio padre...
Egli vive insieme a noi…
Per quanto possa inciampare, 
un insegnante è votato a sperare sempre 
che con lo studio si possa modificare 
il carattere di un ragazzo e, 
di conseguenza, 
il destino di un uomo.
Giovanni non ha eventi 
da consegnare alla storia:
una vita dedicata 
allo studio,
alla campagna,
alla famiglia, 
al Signore. 
La sua vita confluisce in altre vite. 
Uomini così sono la linfa 
che alimenta il tessuto intimo 
delle nostre scuole, 
sono i più alti sacerdoti custodi di un templio.
Uomini così continueranno ad essere 
una fiamma che arde 
e darà significato alle nostre vite.


Giovanni era un insegnante di lettere, un appassionato della vita in campagna, un fine agricoltore della sitibonda provincia di Bari, un amante del mare, un uomo di FEDE, legatissimo alla sua famiglia, alla moglie Rachelina ed ai figli e nipoti. Era, soprattutto, un Alpino della mitica Divisione “Julia” e insignito di “doppia Croce al Merito di Guerra”.


Riavvolgiamo velocemente la pellicola di un vecchio film “super8” e vedremo tanti piccoli lampi di luce, qualche imperfezione nelle immagini sbiadite; noteremo, però, una lagrima fuggevole sui volti degli spettatori...
Tante volte avrei voluto chiedere a mio padre di scrivere l'ennesimo, ultimo “medaglione” dei sui libri: non ho mai trovato il coraggio di chiedergli quello che era ormai uno sforzo troppo grande: quello di scrivere di suo pugno il “medaglione” della sua lunghissima, bellissima  e travagliatissima vita...
Avevo il timore e la certezza di rovinare la sua giornata fatta di quotidianità, di studio, di lettura e di qualche preghiera. 
Oramai l'età era andata avanti inesorabilmente e spesso leggevo un velo di tristezza sul suo volto corrugato da oltre trent'anni d'insegnamento scolastico, dal sole e dalla fatica campestre. Lui non amava la morte, la detestava, non voleva parlarne mai; amava la vita, curava sempre la sua salute e la sua inesauribile Fede nell'Altissimo immergendosi spesso nella preghiera.
Qualche giorno fa mi sono ritrovato a pensare, a pensare, a pensare e non ho potuto nascondere a me stesso il pensiero che mi ha bombardato per tantissimo tempo.
Pensavo tra me e me che sarebbe stata una fatica immane per un perito tecnico privo di basi letterarie profonde. Mi chiedevo altresì come avrei fatto a ricostruire una vita, quella di mio padre, lunghissima e ricca di eventi straordinari...
Mentre – ancora stordito dalla sua scomparsa – rimescolavo nella mente tante piccole idee, una vocina flebile mi ha suggerito: 
“””...tutta la mia vita è già scritta nei miei libri...; tutta la mia profondissima Fede in Dio è riportata nei miei libri; la biografia dei miei genitori si evince dai miei scritti; l'amore per la campagna emerge dai miei racconti; l'amore per la Storia con la “S” maiuscola è insita nei miei scritti; l'immenso amore per i miei alunni e per la Scuola con la “S” maiuscola è testimoniata dai miei lunghi studi, che non si sono conclusi nel lontano 1941, e neanche nel 1976, ma solo il giorno del mio ritorno alla Casa del Signore...”””.
Questo mio breve scritto, fatto essenzialmente con il cuore di figlio, è  uno studio–ricerca tutto da leggere e da meditare, un lavoro di approfondimento culturale ed etico-sociale sulla vita e sulle opere della leggendaria figura di uno dei figli più celebri che sia nato e cresciuto con noi ed in mezzo a noi a cavallo di due secoli, da poco passato a miglior vita, alla veneranda età di 98 anni, in quel di Sannicandro, sua patria nativa, ove viveva con la sua famiglia, circondato dall'affetto della moglie Rachele, dei figli Lucianna, Pasquale, Nico e Angela e dei sette nipotini e dal rispetto di tutti: il professor Vernì, appunto.
Una figura complessa di padre e di insegnante, ancor tutta da conoscere e da scoprire negli aspetti più noti e meno noti del suo carattere e nei tratti più significativi del suo animo, nelle sue virtù nascoste, nelle sue eccelse doti umane, nella sua ricca spiritualità, nella sua precisa identità.
Un insegnante di scuola media, uno storico e scrittore, un vero Agricoltore con la “A” maiuscola che si è fatto tutto da solo, con fermezza e risolutezza.
Un “umile, onesto” servitore dello Stato, come hanno detto e riconosciuto pubblicamente varie autorità, nel triste giorno del suo solenne funerale nella Chiesa “Matrice” di Sannicandro di Bari. Un mite di cuore. Un giusto. Un uomo schivo e riservato, restío ad apparire e a mettersi in mostra. Un simbolo vivente di persona innamorata della sua famiglia, della moglie, dei suoi figli e dei suoi sette nipoti, della sua piccola cittadina d'origine e della sua storia, della scuola da lui fondata e della sua seconda attività campagnola. Un generoso. Un altruista per natura, sempre pronto e disponibile con tutti, conoscenti e non. Un uomo, un uomo qualunque che amava profondamente Dio, la Famiglia, la Patria, la campagna, le sue origini, il mare, il calcio giocato (il Bari ed il Milan) e lo sport in genere, le materie letterarie, la natura. 

Un galantuomo dal tratto umano di rara sensibilità d'animo, sicuramente degno di occupare almeno un posto piccolo piccolo nella nostra memoria storica, di avere un adeguato “medaglione” nella particolare galleria di ritratti o “imagines” di inobliabili volti del PASSATO di nostra gente, che si sono segnalate e messe in luce tra i tanti e che sono meritevoli di essere eternate nel ricordo, imitate e possibilmente emulate dalle future generazioni della nostra gente. 

CHI ERA GIOVANNI VERNì

Il padre si chiamava Pasquale (per gli amici Pasqualino), di professione agricoltore; la madre si chiamava Lucia Guglielmi, e faceva la casalinga. 


Il nostro Giovanni nacque a Sannicandro di Bari il 16 gennaio 1916. E' deceduto a casa per cause naturali alle ore 05.00 del 6 gennaio 2014.
Per la sua partecipazione alla Guerra ’40-’45 fu insignito di “doppia croce al Merito di Guerra”.
Ha insegnato lettere presso la Scuola Media Statale “Alessandro Manzoni” di Sannicandro, ininterrottamente  dal 1944 al 1976, anno del suo volontario collocamento in pensione.
Di idee politiche moderate, ma non di appartenenze partitiche, prese una sol volta parte alle competizioni elettorali nelle Amministrative del 1956 con la lista de “IL CASTELLO”, uscendone eletto consigliere di minoranza.
Sposato dal 1947 con Rachele Stangarone, era padre di quattro figli: Lucianna, Pasquale, Nico e Angela; nonno di sette nipoti: Rachele, Giovanni e Matteo (di Pasquale), Giovanni  e Francesco (di Nico), e Giovanni e Federica Carmen (di Angela).




L'ASPETTO FISICO

Basso di statura – asciutto – robusto – dal passo deciso – carnagione scura – occhi verdi, senza lenti fino a tarda età – naso aquilino – bocca regolare – denti sani, tranne gli incisivi leggermente scalfiti da una caduta da bambino, ben conservati, naturali. Capelli ricci, folti, corvini sino alla settantina, da pochi anni imbiancati per lunghi tratti. Voce intensa, piena, sonora, tonante, talvolta.
Oltre gli 1,65, eretto nell'insieme. Il primogenito ed unico figlio di Pasqualino e Lucia Guglielmi.

IL NOME

Si chiamava, tutti lo chiamavano, familiarmente, GIOVANNI o Giuannìn'. Non perché fosse un placido frugoletto, calmo e tranquillo, sempre sulle sue, un innocuo bambinone, insomma, coccolato e sbaciucchiato da tutti, apertamente lodato ed esaltato da familiari e conoscenti, ma perché così volevano ed usavano il vezzo e la moda imperanti nelle famiglie di ieri e di oggi.

LA FAMIGLIA, LA PROVENIENZA,  LA FORMAZIONE

Di origini “CONTADINE-PICCOLO-BORGHESI”, venne al mondo il 16 gennaio 1916, in una famiglia di “agricoltori”, abitanti in una casa singola, su due piani, sulla sinistra della via per Cassano, proprio al centro del paese. Un nucleo famigliare il suo, piccolo, piccolo, di poche persone, ben costumate, modeste, rispettose e religiose quanto basta, tutte di onorati sentimenti, che non fecero mancare nulla, proprio nulla al piccolo Giovannino: non l'affetto, non l'educazione religiosa e neppure l'istruzione nella scuola elementare della nostra città.


La mamma, una donna dal forte carattere autoritario, dal suo canto, si coccolò a lungo il suo cucciolo, ma senza mai eccedere in malvezzi e smancerie diseducative.
Papà “Pasqualino”, a sua volta, un dinamico, fattivo e volitivo agricoltore e coltivatore diretto sannicandrese, voleva un bene dell'anima al suo primogenito. La Guerra, la 1^ Guerra Mondiale ed il dovere patrio lo hanno presto separato dalla giovane consorte e dal piccolo “Giuannin”.

IL PADRE PASQUALINO

Il padre,  aveva un collo taurino, fronte alta e spaziosa, sguardo dolce e mite, occhi grandi e fissi, capelli scuri e corti, baffi folti e arricciati all'insù: è tutto qui il padre di Giovanni.
Da modesti proprietari terrieri era nato il 13 febbraio 1879; tutti lo chiamavano, Pasqualino.  Avesse avuto uno, dieci o quarant'anni - di più l'umana sorte non gliene volle concedere - per tutti era - sempre e soltanto - Pasqualino.  Quasicché il vezzeggiativo col quale lo si nominava gli fosse stato ritagliato addosso dalla natura medesima e a Lui spettasse più che a tenero infante.
Il secondo di una grossa covata egli era, non unica né rara nel borgo natìo, - di quelle che, da sole, riempivano di chiasso e di allegria, da mane a sera, vicoli e strettoie agglomerati nell'antico rione dello Spirito Santo -, sempre timoroso di nuovi affacci, pur se già smanioso di più ampi slarghi per gli andirivieni delle sue giovani api.
Dopo Saverio, il primogenito, (1875), prima di Nicola ("Colett"), il terzogenito, (1881), di Isabella, la quartogenita (1883), di Anna (1885), di Pasqua, la "Ross"  (1887) - anche lei, come il fratello, portava questo nome tanto caro alla cristianità, prim'ancora di Carmela, di Domenica, di Antonia, l'ultimogenita, supporto, quest’ultima, angelo custode e vestale di casa.  Nove in tutto.  Nove bocche da sfamare, da crescere, da incamminare nel vasto mondo di fine Ottocento.
Molte, si direbbe a prima vista, ma non troppe per la profonda religiosità dei loro pii genitori, consapevoli che tanti figli costituivano pur sempre una benedizione del Cielo.
A tutte indistintamente queste creature la mamma, la ferma, la ferrea eppur dolce mamma Maria - la benvoluta e ultrastimata "Zia Maria" (z' maroi') del lungo parentado - voleva un bene dell'anima: immenso, com'era immenso il suo cuore, uguale per tutti.  Ma, quello per il suo Pasqualino era diverso: più evidente ed invadente:  in una parola, "protettivo", ma non perché lui portasse il nome del suo avo prediletto o perché mostrasse, più che gli altri fratelli, virtù rare o intelligenza superiore, ma unicamente perché, dentro di sé, nel suo subconscio, lo presentiva bersaglio irato di un maleficio, vittima predestinata di un oscuro disegno, che, sin dal nascere del suo piccolo, la perseguitava come una maledizione, le toglieva la pace, le riempiva l'animo di angosce e di paure che ella cercava vanamente di allontanare da sé con una più attenta e vigile protezione.
Sotto l'ala di siffatta mamma, Pasqualino crebbe sano e forte come un pesce, trascorse un'infanzia serena e tranquilla, forgiò al meglio il suo carattere mite e generoso, sviluppò ancorpiù il nativo senso del dovere e del sacrificio, imparò con facilità un mestiere qualificato fatto su misura per lui, e, già adolescente, si segnalava tra i più esperti nell'arte del potare.
Dimenticò, però, l'incauto, di pensare anche a dirozzare la mente, ad imparare, come si dice, a leggere e scrivere e di questa sua noncuranza molto si dorrà, per vero, un giorno non lontano.  Vero è che la colpa di ciò non era, e non poteva essere, soltanto sua.  Era, infatti, anche dei genitori, i quali mancarono il dovere di mandare a scuola tutti i loro figli, ritenendolo forse un lusso da non poter soddisfare.  Come lo era anche dello stato, il nascente stato unitario italiano, il quale, per combattere la piaga dell'analfabetismo, (particolarmente diffusa nel Mezzogiorno, dove il 70% della popolazione era analfabeta ossia non sapeva né leggere né scrivere), si limitò ad emanare una legge - la cosiddetta legge Coppino del 1877, dal nome del ministro che la proponeva - con cui si istituiva sì la Scuola Elementare obbligatoria, ma non la si rendeva, come la si sarebbe dovuta, gratuita.  Il che nocque non poco all'efficacia stessa del provvedimento preso e, nel tempo, evidenziò la necessità di adeguati miglioramenti.
Non di meno quello dell'istruzione non era, e non fu, l'unico e solo problema che afflisse e turbò i sonni di Pasqualino e soci.  Ve ne erano altri, non meno gravi e urgenti: quello del lavoro, p.e.; quello dell'occupazione o dell'economia o dei trasporti o delle comunicazioni, per dirne qualcuno.  Nessun ministero se ne occupò mai con l'impegno dovuto e perciò restarono a lungo abbandonati ed irrisolti, al punto che il Mezzogiorno era l'immagine stessa dell'arretratezza, dello sfacelo e della miseria e conseguentemente del disarmonico sviluppo economico e sociale del Paese.
Responsabile primo del degrado e del malessere di cui soffrivano le genti del Sud era l'agricoltura col suo "latifondo", che lasciava nelle mani di pochi irresponsabili il 70% della terra, la quale, anziché essere lavorata, "era lasciata in gran parte incolta, preda dei rovi e delle erbacce in genere, dominio degli animali da pascolo e regno dei passatempi dei nobili proprietari o era tenuta a "masseria di campagna", con utili e vantaggi esigui o del tutto inesistenti. Il rimanente 30% lo possedevano, in frazioni minime, centinaia, e forse migliaia, di piccoli proprietari terrieri, i quali non solo non ne traevano alcun sostanziale beneficio, non solo non vedevano mutarsi quella minima ricchezza in altra ricchezza, ma non riuscivano mai neppure a cavare quella gran "sete di terra", che da sempre li tormentava. 
Non solo.  Ma l'incaglio causava, senza volerlo incomodi e disturbi talmente gravi, che condannarono i braccianti agricoli a lunghi periodi di disoccupazione o di sottoccupazione, a paghe striminzite e saltuarie, a fame e miseria senza fine, che intristivano o imbarbarivano chi ne veniva colpito, spingendolo spesso anche a "delinquere" o ad emigrare. E questo fenomeno non risparmiò neppure Pasqualino.
Filava e pungeva la "montagna" o tramontana di casa nostra sulla sera del paese, nel cuore dell'inverno.  Tutti erano tappati in casa, anche i più giovani.  Saverio, Pasqualino e Coletto, anche loro, se ne stavano al caldo, addosso l'uno a l'altro, stretti nell'ampio "fuoco" (o caminetto) di Tata Giovanni (Tata Giuenn), al primo piano della loro abitazione.  Di fronte a loro ardeva e bruciava un grosso ceppo di mandorlo appena scalzato.  Rannicchiata in un angolo, stanca, il capo stretto nelle mani, piegata in avanti, mamma Maria.  Tra un sobbalzo e l'altro, ella allungava le mani alla fiamma, le scaldava, le sfregava con forza, tendendo l'orecchio ai discorsi sussurrati dei tre figli.  Parlavano di tutto: di lavoro che non c'era; di "giornate" che nessuno più trovava; di paghe striminzite e scarse; di proprietari svogliati; di terreni incolti da lunga pezza; di fame e di miseria sempre più crescenti; di famiglie che non sapevano come tirare avanti; e, quel che è peggio, non trovavano più "credito"; di debiti sopra debiti, contratti per pagare il viaggio o, più spesso i viaggi a due o più persone della stessa famiglia; di amici, compagni, coetanei che da tempo non si vedevano più in giro, spariti, scomparsi dalla mattina alla sera, partiti - così dicevano tutti -, di nascosto, alla chetichella, "di contrabbando",  clandestini per...- e qui essi, nel raccontare tutto questo, abbassavano ancor più la voce sino a rendere incomprensibili i suoni e le sillabe - ...l'America... - quella specie di Fata Morgana  che tutti incantava ed attirava -; ...di Ciccillo, Saverio, Vito Sante, Rocco Martino, da mesi scomparsi, introvabili, dei quali non si avevano più notizie, sino al giorno prima, ma che già avevano trovato un lavoro e dai quali già si ricevevano le prime rimesse...;  di ...e  giù altre notizie, all'infinito.
Voci, queste,? Solo voci? chiacchiere da bar, da oziosi, da sfaccendati?
Balle o verità assolute? dette, così, a mezza bocca, in un orecchio, in questo o quel crocchio? Mah!
Mamma Maria ascoltava, ascoltava, in silenzio. Poi, come per dir la sua, "Pasqualino, fece, alzando un po' la voce, forse per scuotersi dal dormiveglia o forse per darsi coraggio, nel momento in cui questo le mancava, ho un'idea: se è vero quello che si dice, perché non provi anche tu? lo fanno tutti ormai questo benedetto viaggio in America; perché non lo fai anche tu? Tentare non nuoce, si dice". "E poi, aggiunse, il viaggio, sappilo bene, non lo faresti da solo: insieme con te ci sarebbero almeno altre tre persone: la Madonna del Carmine, io e Coletto, tuo fratello. Saverio, no.  Saverio deve stare qui per dare una mano a tuo padre".  Altro non disse e riprese a sonnecchiare.
Fuori, intanto, si faceva sempre più buio e la "Montagna", sibilando seguitava a pungere e a filare.
Il tempo di approntare un bagaglio purchessia e di prendere gli ultimi accordi, poi il "traìno" di famiglia, il carro agricolo tuttofare di tata Giovanni prende a bordo uomini e cose e all'alba, prima che si faccia giorno, per tempo - come sempre - è già alla stazione ferroviaria, dove scarica due giovani sui vent'anni, due valigette di cartone, un diluvio di lacrime e ...tante speranze.
Scene da primo Novecento, si dirà, ma anche scene da ultimo Novecento: la Storia dell'Umanità dolente è sempre la stessa, non cambia mai. 
Un lungo viaggio su un treno fumoso e nero porta i nostri due emigranti in quel di Napoli, al porto di Mergellina.  Qui li accoglie una vecchia carretta di mare, che salpa furtiva sull'imbrunire di un giorno piovoso e triste, mentre nelle vie e sulle scene dei teatri partenopei risuonano patetiche e struggenti le note di una bellissima, celebre canzone.
Trenta, quaranta giorni di viaggio, lungo, interminabile, disumano, inenarrabile, più da bestie che da uomini - ci si scandalizza tanto oggi dei viaggi degli albanesi o dei  curdi  o dei marocchini, ma non si prova alcuno sdegno al ricordo dei vergognosi trattamenti riservati a questi nostri infelici "cercatori di lavoro" - poi, finalmente lo sbarco, l'odissea, il calvario in terra straniera, a migliaia e migliaia di chilometri di lontananza.
Nel “bailamme” di New York - approdano quasi tutti qui i nostri connazionali.  Tra gente d'ogni lingua e colore e religione, dentro veri e propri formicai umani, dentro "street, ave"  e sterminate campagne dell'immensa America.
Ecco, sono piovuti qui, proprio qui, i due rampolli di mamma Maria, Pasqualino e Coletto.  Sono venuti qui, in cerca di lavoro, e di fortuna, e di futuro.  Li troveranno?
Chissà!
Nel crogiolo d'America si saggiò l'oro, tutto l'oro dell'Italia povera.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, sempre sudando e lavorando sodo, da mane a sera, sempre centellinando e risparmiando, con esasperazione eccessiva, con il senso pieno del sacrificio, che solo la gente di casa nostra conosce e sa imporsi, con la voluttà del risparmio, che solo quando è costante e sostanziosa dà, come diede, frutti sapidi e copiosi.
Costavano, oh se costavano!, quei frutti, ma riempivano di orgoglio.  Lo sapeva anche Pasqualino, che diceva:  "Se tu spezzassi, se tu riuscissi a spezzare un "cent”, sicuramente ne vedresti uscire... sangue: il sangue del nostro lavoro". E non esagerava.
Quando, un giorno, il peso della stanchezza si fece sentire, allora anche la solitudine cominciò a rendersi insopportabile, la nostalgia a farsi struggente, ardente la brama del ritorno, acuto il desiderio dei tramonti e delle stelle lasciati laggiù, al paese, in Puglia, carezzevole il sogno di metter su famiglia, di ampliare l'azienda avìta, (avuta cioè in eredità dagli avi) con nuovi appezzamenti, dove che fosse, al Macchione, al Capitolo, a Diasparre, a Parco Casa o La Cattiva, non importa se da spietrare, da sgramignare, da rifare di sana pianta. Divenne allora necessario per tutti ormai il ritorno in famiglia. Anche se per poco. E tornarono, anche loro, ai patrii Lari, i forti Pasqualino e Coletto. Con tanti progetti e tante speranze da realizzare. 
Venne la guerra, la "Grande Guerra".  Arrivò la cartolina precetto, la chiamata alle armi o il richiamo.  Prima dei ventenni.  Poi dei trentenni e oltre.  Infine dei diciottenni (classe '99, classe di ferro).  E fu il turno anche di Pasqualino che veleggiava tranquillo verso la piena maturità.  Richiamato, lui non ne fece un dramma, non oppose ostacoli e furbizie.  Soldato fedele e disciplinato, reindossò con orgoglio il glorioso grigioverde, ritrovò l'ardore dei giovani anni e, in silenzio, disciplinatamente, raggiunse il reparto cui l'avevano destinato, il 271° Btg Milizia Territoriale, dislocato sul fronte Macedone, tra l'Albania e la Grecia.  E lì restò due lunghi anni, senza mai chiedere o mendicare licenze e permessi, pago di sentirsi unito alla famiglia messa su da poco dalle lettere o cartoline che il comandante del suo reparto molto volentieri vergava per lui analfabeta.  
Col tempo il tarlo della nostalgia cominciò a roderlo, il desiderio degli affetti perduti a tormentarlo.  Scalpitò, presentò le sue ragioni, venne accontentato con una lunga licenza premio. 
A casa trascorse giorni indimenticabili che lo rinfrancarono e lo resero sommamente felice, anche perché così sentiva appagato quel suo, più  volte rimarcato negli scritti, desiderio di guardare in faccia e di stringere a sé il suo rampollo, il suo "Giuannìnn", come lui lo chiamava, calcando la voce sull'ultima “i”.
Consumata la licenza, lo aspettava il rientro in sede e a quello si preparò con animo sereno, per nulla intimidito dalle notizie che circolavano e dalle insidie nascoste nel braccio di mare tra l'Italia, l'Albania e la Grecia.  I rischi e i pericoli ch'egli realmente correva non sfuggivano, però, a chi gli voleva più bene, la moglie, la quale, ancor prima che il consorte si rimettesse in viaggio, nulla tralasciò, perché il marito si convincesse ad escogitare, sull'esempio altrui, il mezzo idoneo a farsi dichiarare inabile al servizio militare.  Invano.  "No, fu la sua risposta, devo tornare al reparto".  E tornò.
Il giorno stabilito, infatti, riabbracciata la moglie, stretto forte forte a sé il figlioletto, data un'ultima fuggevole occhiata al suo piccolo mondo, fermo e deciso come sempre, si rimise in treno e in poche ore fu a Taranto.  Era qui la nave che doveva traghettarlo in Grecia e di qui in Macedonia.  Bella, nuova, sicura.  Fatta per infondere coraggio, al solo vederla.
"Restai con lui circa due ore, -  raccontò tra le lacrime il cognato Vito (Minz' mon'c), marito di Domenica, allora sottufficiale in servizio presso l'ufficio imbarchi e sbarchi della Stazione marittima della Città dei Due Mari - quando fu l'ora della partenza della nave, lo accompagnai fin presso alla scaletta.  Al momento di lasciarci, lui mi si fece più vicino e, stringendomi forte a sé, "Vito, mi disse con voce velata di sconforto e di tristezza - mi vorrei sbagliare, ma ho tanta paura ed un brutto presentimento".
Furono le ultime sue parole.  Il preannuncio di una tragedia imminente.
Era l'alba del 6 ottobre.  Era scritto.
Sul mare appena mosso da un lieve soffio di maestrale, il "Città di Bari", pur impanciato da un pesante carico umano, imbarcato incautamente nella sosta a Gallipoli, filava vigile ma tranquillo, sulla sua rotta di EST-NORD EST, seguito da una lunga scia di spuma bianca e farinosa.  Sopra, il cielo, d'un azzurro terso e intenso, tinteggiato di stelle radiose, pareva sorridere al passaggio del vapore.  C'era stato, invero, un falso allarme, subito rientrato ed ora un silenzio profondo avvolgeva il sonno e la stanchezza dei numerosi passeggeri.  D'un tratto - era quasi spuntata l'alba - un sordo boato scosse la fiancata di babordo della nave.  Subitaneo, un largo squarcio s'aprì, un fiume d'acqua invase la sala macchine, distruggendo il telefono e costringendo il vapore a fermarsi.  Scoppiò, è naturale, il finimondo.  Grida disperate e terrore, tanto terrore scese nei malcapitati passeggeri che s'affrettarono a cercare la salvezza nelle scialuppe di salvataggio.
Ne approfittò il sommergibile assalitore che, emergendo, molto disumanamente puntò il cannone contro la nave agonizzante incendiandola e facendola colare a picco.  Non lontano da Corfù, a due passi dall'isoletta di Paxì o Paxòs, in un mare livido e amaro, sconvolto dal libeccio e dal Greco, battuto dalla pioggia di un furioso temporale, solcato dai remi affannosi delle zattere  stracolme di naufraghi, di grida disperate, di urla e di preghiere.  Sotto il ghigno beffardo del tedesco nemico.  In una lotta sovrumana per sopravvivere, mentre la notte finiva e l'alba s’affrettava a cedere al giorno chiaro. Nell'attesa, lunga e vana, di un soccorso pronto e liberatorio. 
A uno, a due, a tre...a dieci per volta, anche, prima o poi, i più finirono in fondo al mare, portando strette a sé vita, speranze e illusioni.
Era la dura legge della sorte beffarda e ingiusta.  
Il mare tutto inghiottì, abiti civili e divise militari, uomini coraggiosi e giovani speranzosi.  Tutto.  Anche il corpo del forte Pasqualino.
Si strusse in pianti mia madre, la forte, coraggiosa giovanissima Lucia.
Lo sguardo, timido e innocente di "Giuannin" - era troppo piccolo per capire l'infelice bambino! - si riempì di attonito stupore.  L'animo suo, da quel dì, traboccò d'infinita tristezza.
Se ne dolsero grandemente e se ne dispiacquero immensamente, consanguinei, amici e conoscenti.
La disperazione più nera abitò a lungo nell'animo dei suoi familiari.
Solo lei, la forte, la tetragona, l'incrollabile mamma Maria, alla ferale notizia, rimase inebetita e impassibile.
Non batté ciglio, non aprì bocca, non pronunziò parola: ammutì.  Diventò di sasso.
Simile, in questo, ad un'altra madre, ad un'altra donna, sferzata a sangue dalla mala sorte, ed annichilita, come lei e più di lei, dal crudele destino.  
Diversamente, però, da questa pur leggendaria ma umanissima donna, lei, la forte mamma Maria, non pianse, almeno in pubblico, in presenza degli altri.  Seppe trattenere le lacrime e soffocare il pianto.  In privato così non fu.  In privato, tra le pareti domestiche, lacrime furtive, lacrime amare, lacrimoni turgidi e perlacei, furono visti, spesso rigare veloci il volto suo scarno e asciutto fino agli 85 anni.  Lo strazio, invece, nessuno mai lo vide, il dolore immenso, che solo una mamma conosce, lo tenne tutto per sé, serrato, nascosto dentro lo scrigno della sua dignità.  
Cercò, e forse trovò, lenimento e conforto nell'illusione che il suo Pasqualino, scampato miracolosamente alla morte insieme con altri, imbarcato su altra nave, continuasse ancora il suo interminabile viaggio terreno.  Da emigrante e soldato, senza fine, appunto, qual'era ed aveva voluto restare.
La Patria, il Paese, onorò la memoria di Pasqualino, insignendolo di una speciale medaglia, detta "della gratitudine nazionale".

LA MADRE LUCIA GUGLIELMI

La madre, Lucia Guglielmi era una donna dal carattere forte, una donna tutta d'un pezzo che, di fronte alla disgrazia della perdita del giovane marito Pasqualino, seppe trovare la forza di portare a compimento l'educazione del figliolo Giovanni, portando a felice conclusione i suoi studi con la tanto agognata laurea in “lettere e filosofia” e, con il traguardo ultimo dell'insegnamento presso la scuola media di Sannicandro. 
Una donna dalla fortissima spiritualità.
Come ha scritto Giovanni nei suoi libri. se, per un momento solo provassimo a riaprire il libro della nostra lontana infanzia, ci ritroveremmo come per incanto attori e spettatori insieme di straordinarie costumanze ormai abbandonate, che, però, conservano ancora per intero il fascino della loro grande sacralità.  Prima di ogni altra l’usanza della “lampada ad olio”, comunemente detta in gergo “La LEMP “.
Era, quello della lampada ad olio, un culto corale, molto sentito e praticato da un po’ tutte le famiglie della nostra comunità cittadina.
Con un rito semplice, senza regole fisse e senza rituali prestabiliti.  In qualunque casa tu entrassi, a qualunque ora, una lampada ad olio tu vi vedevi ardere, immancabilmente.  Simbolo della FEDE e della devozione della nostra gente.  Se esso fosse antico o di data piuttosto recente, non ci è stato dato mai di sapere con certezza.  Pure la manifesta coralità e il forte radicamento nell’anima popolare fanno pensare che esso abbia fatto da noi le sue prime apparizioni in tempi assai lontani.
Una lampada siffatta arse sempre, da una generazione all’altra, anche nelle case degli avi di Giovanni.  
L’ultima, sempre rigorosamente ad olio, fu quella che arse in Via Cassano, al civico 81.  E a tenerla costantemente accesa, come voleva del resto la parola del Signore, vegliò lei, e soltanto lei: nonna Lucia.  
Nella semplicità della sua anima ardente, nello splendore della sua fede purissima, ella sentì molto il senso della sacralità di certi riti sacri, epperciò si sentì sempre come la liturgia ufficiale di questo culto di famiglia, quasi la sola e l’unica persona chiamata direttamente dal Signore a prendersi cura della lampada che doveva ardere nella sua abitazione, con totale dedizione e festosa donazione, come Gesù stesso aveva posto quasi a sigla della sua Missione sulla Terra.
E lo sentì, e lo fu a tal punto che mai, nei suoi ottanta tormentati anni di vita, mai, ripeto, lasciò ad altri, e poteva farlo, questa piissima incombenza, e, se ciò proprio accadde, fu solo in rarissimi, specialissimi casi.
Aveva cominciato, ancora adolescente, nella casa paterna, in Via Altamura, 1.  Proseguì e finì, da sposata, nella sua nuova abitazione in Via Cassano, 81, luogo in cui nacque il nostro Giovanni il 16 gennaio 1916.
E fu proprio qui che, per un più puntuale esercizio di questa piissima manifestazione di fede, ella pose nel vano creato dalla scalinata che portava al piano di sopra, una sorta di altare ed una mensa, nello stile di quelli delle Chiese primitive.  Alla base di una finestra a muro collocò una mensola.  Sopra la mensola una brocchetta di vetro smerigliato colma di purissimo olio di oliva.  Al centro della brocchetta poi, incorporato in un piccolo dispositivo metallico, galleggiava uno stoppino imbevuto di olio, che ardeva costantemente.  Se qualcuno, se lei, cioè, si curava di tenerlo acceso bene; in caso contrario si spegneva.  Sulla destra, discosto dal tutto, vedevi una scatola di fiammiferi o di cerini. Non foto. Non immagini. Di nessuno. Di nessun formato. Nulla.
Era, questo, il suo Tempio Santo di DIO?  Il Tabernacolo di famiglia, tanto raccomandato dal SIGNORE, davanti al quale doveva ardere una lampada ad olio tenuta costantemente accesa?
Riteniamo proprio di sì.
Infatti essa, (la lampada del suo tabernacolo, vogliamo dire), costituiva in ogni sua giornata di vita e di preghiera l’oggetto primo della sua personale attenzione, della sua fervorosa costante devozione al DIVIN CREATORE, il dovere principale di lei credente, di lei vigile custode di quella lampada ad olio che la sua grande fede in DIO tenne sempre accesa e che si spense solo quando la malattia la spinse per sempre in un’altra casa.  In una casa di dolore e di sofferenza. Per sempre.
Era fatta anche di questo la FEDE dei nostri padri!
Come non sentirsi fieri di una nonna cotale? Come non restare ammirati di una donna di tanta sensibilità religiosa? Di progenitori di tanta viva FEDE?
Di quel culto così diffuso e così pudicamente osservato da tutti, di quella mistica fiamma, di quella splendida lampada ad olio che cosa resta oggi, nel 21° Secolo?  Ben poco, crediamo.  E il nostro cuore si rattrista.
“Quando una palma, (la palma benedetta della Domenica delle Palme), insecchisce”, - diceva spesso nonna Lucia – “non si deve mai buttare via, mai gettare tra i rifiuti o, peggio ancora, nella spazzatura; mai disfarsene in malo modo. Se proprio non se ne può fare a meno o bruciarla nel caminetto di famiglia o, ravvolta in un panno, conservarla in un angolo nascosto della propria abitazione”.
Circondato da una montagna di affetto, il nostro futuro professore, crebbe sano e forte come un pesce, senza tanti grilli per la testa, buono, umile, modesto, timoroso del Signore.
“Orfano” sin dalla prima infanzia del padre, andato disperso nello Jonio in seguito al siluramento del piroscafo “Città di Bari”,  compì gli studi ginnasiali e liceali presso la Scuola privata di don Ciccio Saliani (a Sannicandro), il “Cirillo” e il “Flacco” a Bari e il “Rinascimento” ad Asti.
Si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università Statale “Federico II” di Napoli, e si laureò in Lettere il 9 giugno del 1941, discutendo con l’esimio prof. Giuseppe Toffanin la seguente tesi: “La Letteratura Italiana a Napoli nel decennio 1820-1830 attraverso il Giornale delle Due Sicilie”.

LA II GUERRA MONDIALE

Chiamato alle armi, quale “volontario universitario”, prestò servizio militare militando, dopo la frequenza del corso allievi ufficiali per la nomina a sergente, dal luglio 1941 al gennaio 1944, data del suo collocamento in congedo per particolari ragioni di famiglia, nella 3ª Compagnia telegrafisti in approntamento per il fronte russo al seguito della Divisione Alpina “JULIA”, nel Comando della IIª Armata – Intendenza – P.M. 10 (Fiume - Croazia), nella 91ª Compagnia Telegrafisti da inviare al Fronte di Cassino al seguito della V Armata americana.






Per la sua partecipazione alla Guerra ’40-’45 fu insignito di “doppia croce al Merito di Guerra”.


LA MOGLIE RACHELINA STANGARONE, I FIGLI ED I NIPOTINI

Sposato dal 1947 con Rachele Stangarone, con lei ha vissuto per 67 lunghissimi anni di matrimonio che gli hanno dato quattro figli: Lucianna, Pasquale, Nico e Angela; e sette nipoti: Rachele, Giovanni e Matteo (di Pasquale), Giovanni  e Francesco (di Nico), e Giovanni e Federica Carmen (di Angela).


Un matrimonio di una durata inaudita per i nostri tempi, un matrimonio nato tra diverse avversità di natura familiare e non. 
Era da poco terminata la 2^ Guerra Mondiale e Giovanni era solo agli inizi della sua bella carriera di insegnante “precario”. Pochi sanno che in quei tempi difficili gli insegnanti ricevevano la nomina annuale e percepivano lo stipendio per il solo periodo d'insegnamento: al termine dell'anno scolastico Giovanni era solito dar fondo ai risparmi accumulati nel periodo lavorativo. 
Le avversità famigliari consigliarono ai due giovani innamorati di dar corso a quella che si suol chiamare “la fuitina” o “fuga d'amore” per porre di fronte al fatto compiuto le famiglie. Così fu. 
Con pochi indumenti, qualche paio di mutande e calze per sopravvivere, Giovanni e Rachele “scapparono” a casa della zia paterna di Giovanni: zia Paolina Guglielmi! 
Una zia carissima, zia Paolina, una donna forte, una donna d'altri tempi, che li accolse senza remore, li rifocillò senza problemi per diversi giorni....
Di fronte al fatto “compiuto”, le famiglie si arresero e Giovanni e Rachele, finalmente, convolarono a nozze.
Correva l'anno 1947!
Furono anni di sacrifici ma, nonostante tutte le avversità, il 1948 nacque la primogenita, il 1950 Pasqualino, il 1957 Nico ed il 1965 Angela, l'ultima della “nidiata”.
I sacrifici si intensificarono i primi anni '60 con l'acquisto dell'abitazione in Viale Alcide De Gasperi a Sannicandro. Rachelina fu costretta a seguire Giovanni e tutta la tribù disponibile nei lavori indispensabili in campagna: la raccolta da terra delle mandorle, la raccolta – soprattutto da terra – delle olive, la raccolta dell'uva e quant'altro necessario in campagna. 
Soprattutto la raccolta invernale delle olive da terra, era un immenso sacrificio al quale Rachelina non si sottrasse mai! 
Inoltre, Ella doveva accudire i quattro figli e preparar loro il necessario da mangiare: una bella teglia di patate e zucchine al forno, pasta con le patate e carne, fagioli e pasta, ceci e pasta, riso e lenticchie, cicoria di campagna con purè di fave e olio d'oliva... e mille altri manicaretti che solo una mamma sa preparare!
Con umiltà e orgoglio di madre. 
Sino ai giorni nostri.

LA SCUOLA  E  I  SUOI ALUNNI

Giovanni amava tantissimo la sua “creatura”: la Scuola!... e, di conseguenza, amava tutti i suoi alunni.


Con i professori Squicciarini e Losurdo (Jun.) partecipò alla istituzione in Sannicandro di Bari di una Sezione staccata di Scuola Media Statale, divenendone al momento della sua erezione in Scuola Autonoma suo primo preside effettivo (a.s. 1953 – 1954), titolare di lettere del corso A, per tutta la durata del servizio prestatovi, ininterrottamente dal 1944 al 1976, anno del suo volontario collocamento in pensione.
Per quasi tutto il mese di ottobre del ’46 il prof. Giovanni Vernì fu altresì incaricato provveditoriale dell’insegnamento di materie letterarie nella 4ª ginnasiale di un istituendo “Ginnasio sannicandrese” quale sezione staccata del barese “Q. O. Flacco”.
Entrò nel mondo della Scuola e dell'insegnamento, probabilmente perché ne avvertiva l'attrazione e la vocazione. Traendone, però, un gran profitto che gli valse non poco e lo aiutò enormemente per affinare in meglio la sua indole alquanto impulsiva per natura, raddolcire e stemperare le asprezze del suo temperamento apparentemente ruvido e aspro, di fatto, però, mite, generoso e benevolo: pronto e disponibile sempre a fare del bene, a compiere quei miracoli che solo lui era capace di compiere a pro di chi era effettivamente bisognoso di comprensione.   Pienamente cosciente e consapevole che, nella vita, vale più, molto di più, la mitezza o dolcezza dei modi che la “durezza di cuore”.  
Nulla tralasciò e molto si adoperò perché la sua opera ed il servizio riuscissero quanto più proficui e meritevoli di gratitudine da parte dei suoi concittadini.
Al termine della sua lunga carriera, come vedremo in seguito, Giovanni intese approfondire sempre più tutti i suoi studi scolastici e lo scibile linguistico mettendo in cantiere e sfornando senza sosta, uno dopo l'altro, i suoi bellissimi approfondimenti storico-linguistici. Sulla nascita della allora embrionale scuola sannicandrese, Giovanni ci ha raccontato una storia ai più sconosciuta...
“””... Scende dolce sul paese la sera dell’ultima domenica del mese.
L’aria è fresca, limpida, montanina, stranamente velata di malinconia.
L’estate, la calda afosa estate, è finita ormai: ci ha lasciati, si è defilata dietro ai primi freschi dell’autunno.
La guerra, no. La lunga odiosa guerra è ancora qui con noi, accanto a noi, compagna inseparabile dei nostri giorni.
La vedi dappertutto: nelle case smozzicate e scheletrite che ti circondano; nei paurosi vuoti aperti di recente dalle bombe piovute dal cielo; dalle grandi cataste di ordigni bellici allineate ai margini delle strade torno torno all’abitato; nei volti sempre tesi e preoccupati di quanti incontri per via; nella presenza, seppur discreta, di tanti soldati stranieri nella tua città e in quelle vicine…
La senti in ogni cosa: nell’eco “rimbombevole” della battaglia che arde, sempre, aspra e furiosa, là, tra i passi e i monti dell’Appennino; nell’animo tuo depresso; nell’aria sconsolata che respiri; in quel senso di paura che mai ti lascia; nell’abulìa del tuo spirito; nelle ambasce del presente; nella mancanza di futuro; in quel battere piatto – o quasi – della quotidianità…finanche, si direbbe, nel placido tramonto dell’odierno dì festivo.
Spenti sono ormai tutti gli ardori del giorno.
Il sole vien ora tingendo di rosso fuoco cielo e terra. Rosseggiano questa e quello, poi “vanno languendo e pallidi finalmente si abbuiano” (Foscolo).
Vedi?…l’ombra della Chiesa Madre già tutta si staglia sugli alberi e sui mattoni della villa. 
La piazza si rianima.  I circoli e i bar si ripopolano…la vita ritorna…nel buio che s’avanza…
…intanto che “la Campana dei Caduti” manda, puntuale, i suoi rituali cinque rintocchi…

Donn ) ) ) ) )…

”Facciamo due passi?, fa con un pizzico di velata retorica Cosimino Losurdo all’amico e collega Giovanni Vernì nell’incontrarlo al Circolo “Concordia”6 e, senza aspettarne la risposta, istintivamente, impercettibilmente, insieme con lui, s’immette nel solito su e giù dal circolo ai punti estremi della villa, passatempo nel quale l’uno e l’altro spendono abitualmente il loro tempo libero dopo la lunga parentesi del servizio militare.
Al quarto - quinto giro, a due passi dal Circolo, i due si fermano, sostano brevemente e, mentre sono là come a tirare su il fiato, ecco che si fanno loro incontro due signori di vecchia conoscenza: uno è il veterinario dott. Carlo Vitolli, l’altro il prof. Don Michelangelo Squicciarini – (Jr).
“Sapete – comincia il Sacerdote avviando il discorso – che qui, a Sannicandro, a giorni, si aprirà la Scuola Media? La notizia, però, non è ufficiale, tuttavia lo sarà presto, poiché se n’è fatto carico il concittadino, “aventiniano”, on. Vincenzo Bavaro. Ora, se voi avete interesse a questa nostra iniziativa, sarebbe bene che ci deste un segno della vostra disponibilità”.  “E in che modo, don Michelangelo?”, chiedono i due, un po’ sorpresi e molto lusingati. “Per ora, riprende lui, solo occupandovi delle iscrizioni. Non disponendo la nascente Scuola di un suo proprio segretario, abbiamo pensato di farle fare da persona o persone a ciò delegate. Potreste farle voi, se siete d’accordo. Ed, a proposito di iscrizioni, vi dirò pure che ne darà pubblico annuncio domattina il banditore comunale”.
Qui si ferma e, senza aggiungere altro, lesto s’allontana sotto braccio all’amico dottore.
Dunque, è in via d’attuazione un importante progetto, sta per realizzarsi un antico sogno e vi sta lavorando, con lena ed alacrità somma, - l’abbiamo detto dianzi, - lui, don Michelangelo, come colui che più di ogni altro ne senta la necessità e ne ravvisi l’utilità pubblica.
E’, del resto, il Nostro, persona molto nota nell’ambiente cittadino, da tutti stimata, tanto discreta e riservata, quanto cordiale e disponibile.
Uomo di Chiesa e uomo di Scuola, pragmatico, concreto, essenziale è anche ricco di sapere e di esperienza, maturati in lunghi anni di insegnamento di materie umanistiche in diversi Ginnasi di Stato: a Bari (“Cirillo” e “Flacco”, ‘20 ‘30),  a Fiume (Carnaro, ‘34), a Pesaro (‘37), a Iasi (Romania, ‘39), Scuole per Italiani all’estero, a Roma (“Mamiani”, ‘40 e segg.).
Da sannicandrese doc qual è ed è sempre stato, non ostante tutto, egli è rimasto assai affezionato al paese d’origine, dov’è nato nel 1882, l’anno stesso di don Cosimo e di don Ciccio (Saliani), suoi coetanei e confratelli nella fede, simile a loro per cultura e formazione, ma dissimile da loro per sentire politico-ideologico, passione ed impegno civico.
Spirito inquieto per natura, don Michelangelo predilige in sommo grado la libertà, l’amicizia, la buona tavola, la battuta di spirito e la battuta di caccia, - “a u lebbr, usava dire, a la volp” – il viaggiare, gli usi e i costumi nuovi, i popoli dell’Est, del vicino Oriente, soprattutto.
In questo senso e con questi intenti ha condotto sempre vita dinamica; ha girato mezzo mondo; ha frequentato gente nuova; ma, quando ha potuto, non si è mai tirato indietro e volentieri è tornato alla casa dei padri, alla vita distesa e tranquilla della sua gente, agli amici di sempre, al mondo fascinoso della beata infanzia. 
L’ultima volta è stata a fine giugno dell’anno scorso. Pochi mesi addietro, dunque.
Avrebbe voluto trattenervisi solo lo stretto necessario, per tornare, quindi, al suo lavoro, al termine delle vacanze estive, fresco e riposato, invece, accadimenti gravi ed imprevedibili – il bombardamento aereo del suo paese (26 giugno), lo sbarco in Sicilia (9 luglio), l’8 settembre, la spaccatura dell’Italia in due, la guerra sul territorio nazionale – non glielo hanno consentito, l’anno bloccato.
Ed ora, eccolo lì, come chiuso in una gabbia, fermo ed inoperoso, tra le mura del suo piccolo paese. Accanto alla sua gente. Tra insufficienze ed arretratezze vecchie e nuove. A stretto contatto di gomito con decine di ragazzi e di adolescenti d’ambo i sessi, tutti vogliosi di studiare, di continuare gli studi dopo le elementari, ma costretti a rinunziarvi per mancanza di strutture adeguate. A vivere, insomma, un dramma, a dir poco, angoscioso, a fare un’esperienza nuova, amara, sconvolgente, che lo scuote e lo spinge a cercare una giusta soluzione ad un difficile problema comune.
A questo punto non poteva non tornargli alla mente una vecchia idea, non rispuntargli un antico progetto.  Che, riconsiderato alla luce dei tempi nuovi e del consiglio altrui – maxime et in primis, del dott. M. Bubbico, Direttore Generale del Ministero della Pubblica Istruzione, compagno suo di seminario, consigliere fidato, amico sincero, a prova di bomba, nonché suo méntore e nume tutelare – finisce con l’indurre lui don Michelangelo, a mettere allo studio un adeguato piano d’azione e a tradurlo in atto subito con l’ausilio e la collaborazione di quanti, illustri personalità, - il Provveditore Fiore e gli onn. Bavaro e Gasparotto in prima fila – stimati professionisti, uomini che contano, giovani diplomati o freschi laureati -, possono tornargli utili nella realizzazione di un’impresa non certo facile.
E il Losurdo e il Vernì, giovani laureati aspiranti all’insegnamento da lui interpellati, come rispondono all’appello del loro Maestro e collega?
Non certo restando sordi ed insensibili all’invito loro rivolto.
Colti di sorpresa, essi esitano un po’, è naturale, restano piuttosto incerti sul da farsi, qualcosa non li convince e li fa dubbiosi.
Ma, l’indomani mattina, il dubbio si scioglie, le perplessità cadono e il primo ad offrire la propria collaborazione a don Michelangelo è il Vernì, consapevole e convinto che nessuna umana fatica va in porto senza rischi e personali sacrifici.
Egli s’improvvisa, perciò, segretario, s’arma di buona volontà ed in capo ad una settimana di paziente lavoro una sessantina di ragazzi e ragazze, provenienti, oltre che da Sannicandro, anche dalle - miracolo di don Michelangelo! - vicine Bitetto, Bitritto, Adelfia e Cassano, comunità cittadine tutte prive, allora, di questo tipo di Scuola, hanno chiesto l’iscrizione alla nascente scuola e bastano e avanzano per formare tre buone miste: una prima, una seconda ed una terza, di venti elementi ciascuna.
Sembrerebbe, a questo punto, che, fatte le iscrizioni  e risolto un problema, tutti gli altri problemi siano stati risolti. Non è così.
Infatti…
Gli alunni ci sono: si vedono, se ne conoscono la provenienza, il numero, la classe da frequentare. 
Ma i banchi, i professori, le aule, la sede scolastica, il segretario, i bidelli e quant’altro dove sono? Nulla di preoccupante, parrebbe rispondere una voce, vede e provvede la manzoniana Divina Provvidenza.
O, “Pazienza e calma” – come amava scrivere Papa Giovanni alla sorella Assunta – “e fiducia in Dio, che tutto vede e tutto provvede! La Provvidenza verrà in nostro aiuto!”.
I banchi? Eccoli, ci sono, sono a disposizione. Dove? Giacciono ammonticchiati in uno stanzone dell’ex G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), nel Palazzo De Mari, all’estrema periferia di via Canneto. Manca chi si occupi di curarne il trasporto a destinazione? Poco male. Possono ovviare, ed ovviano, infatti, all’inconveniente i volenterosi Losurdo e Vernì con l’ausilio di un carretto, spinto a braccia da loro stessi. Quando c’è la buona volontà, si fa tutto, anche ciò che, all’apparenza, sembra indegno di un... aspirante... docente.
I professori? Forse non ci credereste, ma ci sono anch’essi. Magari non ci saranno tutti, ma quelli di lettere bastano. 
Uno è don Michelangelo, in persona. E’ titolare di cattedra ed essendo temporaneamente senza occupazione per via della emergenza bellica che gli impedisce di far ritorno a Roma, è disponibile e quindi comandabile per Sannicandro.
Gli altri due potrebbero essere il Losurdo ed il Vernì: entrambi sono in possesso del titolo richiesto dalla legge; entrambi occupano un buon posto nella graduatoria provinciale degli aspiranti a supplenza; entrambi potrebbero essere nominati per Sannicandro, ma...c’è, dunque, un ma, anzi due.
Il primo concerne proprio la nomina dei due, che la Commissione provveditoriale non ha ancora fatto, ma che dovrebbe fare, su questo non ci sono dubbi, sebbene con lumachiana lentezza. 
Il secondo, riguarda invece la retribuzione, che decorre, per legge, dal giorno indicato nella lettera di nomina.
Stando così le cose, al momento i due, ancora sprovvisti di nomina, non potrebbero essere utilizzati, a meno che essi non decidessero di prendere servizio senza nomina e, se ciò facessero, sarebbe a proprio rischio e pericolo.
Ma di ciò non c’è da temere, perché sia il Losurdo che il Vernì, non intendono astrarre la loro utilizzazione immediata da questo vincolo, anteporre all’interesse generale della Scuola, l’interesse privato delle loro persone. Intendono, invece, onorare e rispettare una legge, la legge morale, non scritta, che vuole sia messa al primo posto, nel nostro quotidiano operare, il bene comune a quello dei singoli, secondo il ciceroniano “Summum bonum, comune bonum, suprema lex esto (Cic. De Or. 1,222).
Sicché i due, pur non essendo stati nominati – lo saranno, pensate, solo verso Natale, e ne fa fede la fotocopia della lettera di nomina inviata ad uno di loro – e, pur sapendo che il loro diritto alla retribuzione sarebbe decorso dalla data stabilita nella lettera stessa, il 1° ottobre, giorno in cui, una volta, si riaprivano regolarmente le scuole, si presentano, di propria spontanea volontà e per libera scelta, a scuola e insieme con don Michelangelo danno inizio all’anno scolastico 1944 – 1945 che – guarda caso – coincide esattamente con il primo anno d’insegnamento del Vernì e con il primo della lunga serie di anni della nascente scuola.
Nasce, semplicemente così, la nostra Scuola. 
E con tanta voglia di dimenticare gli orrori della guerra, di dar subito inizio all’opera di ricostruzione, di far bene, di far bella figura, di tenere alto il buon nome e il prestigio di chi l’ha fortemente voluta, che non ci s’accorge delle innumeri difficoltà in cui eravamo immersi, ma, soprattutto, non si dà importanza alla mancanza degli altri insegnanti.
Per giorni e settimane si va avanti così, con pochi insegnanti, finché, sotto Natale, la Scuola, espletate le ultime nomine, non assume l’assetto definitivo, il seguente:
Personale docente:
Prof. Don Michelangelo Squicciarini – ordinario di Italiano, Latino, Storia e Geografia in 2ª e Fiduciario del Preside;
Prof. Cosimo Losurdo (Cosimino, per gli amici) nipote di don Cosimo Losurdo, incaricato di Lettere in 3ª;
Prof. Giovanni Vernì, incaricato di Lettere in 1ª;
Prof.ssa Teresa Avolos, incaricata di Francese in 1ª, 2ª e 3ª;
Prof. Antonio Rospi, incaricato di matematica e Disegno in 1ª, 2ª e 3ª;
Prof.ssa Cornelia Ventrella, incaricata di Economia  Domestica in 1ª, 2ª e 3ª;
Prof. Padre Agostino Chimienti, dei Passionisti, incaricato di Religione nelle tre classi.
N.B.: non viene nominato l’insegnante di Educazione Fisica, perché la Sede scolastica non ha l’aula da adibire a palestra.

Personale non docente:
Sig.na Luisa Caiati: Applicata di Segreteria.
Sig. Carlo De Pinto, bidello, distaccato dal Comune.
Nasce, questa nostra piccola comunità scolastica, in un momento altamente drammatico, in un paese incredibilmente e follemente sconvolto dalla guerra, che geme ancora sotto le macerie, che piange ancora i suoi numerosi morti, che non ha più abitazioni sicure per i suoi figli, che, a malapena, è riuscito a pescare tra i pochi immobili di sua proprietà tre modesti locali da adattare ad aule scolastiche, e uno sgabuzzino da adibire ad ufficio di segreteria, al 1° piano del Teatro Vecchio, in Piazza C. Battisti, 4.
Nasce come “Sezione Distaccata della Scuola Media Statale C.Sylos” di Bitonto, sotto la guida del Preside prof. Francesco Elia.
Nasce, alla buona, alla chetichella, quasi in punta di piedi, senza “fragor di grancassa”, senza tanti “battages” pubblicitari, senza discorsi celebrativi, presentazioni, battimani, col solo preannuncio di una diecina, non di più, di discrete scampanellate del dinoccolato ossuto “Piccolino” - oh se lo ricordo il tonante banditore di quel tempo -.
…Nasce dal nulla.
Ma, già con il crisma di una piccola grande famiglia di vecchio stampo, unita, concorde, affiatata, vogliosa di fare bene.
Come da felice simbiosi di mente, di cuore e di animo di:
un esperto nocchiero, un sagace conduttore di vascello, don Michelangelo; 
due validi timonieri, il Losurdo e il Vernì, forse ancora troppo giovani, forse inesperti, forse bisognosi di maturazione, ma non certo privi di carismi e di voglia di affermarsi, che non tardano molto a salire nella considerazione di alunni, colleghi e superiori, fino a diventare le colonne portanti dell’edificio da loro stessi innalzato, e a meritare la nomina a Preside della loro stessa scuola: il Vernì, infatti, sarà il “ primo Preside effettivo ” (anche se non di ruolo), nell’anno scolastico 1953 - ‘54, l’anno in cui la Scuola Media di Sannicandro da Sezione Staccata diventerà Scuola Media Statale Autonoma a tutti gli effetti; il Losurdo, a sua volta, ne sarà il “terzo”, e ciò accadrà più tardi, nell’anno scolastico 1962 -’63;
e quattro volitivi vogatori, Rospi, Avolos, Ventrella e Padre Agostino, i quali sostengono a dovere, integrandola a meraviglia, l’azione incisiva avviata dai loro colleghi.
Non c’erano sacrifici che essi non affrontassero col sorriso sulle labbra, con la naturalezza di chi crede di adempiere un dovere, senza aspettarsi lodi e ringraziamenti, che, di fatto non ricevettero mai, neppure al momento del collocamento a riposo!  Sic transit gloria mundi !
Nasce in mezzo ad una festosa corona di adolescenti, ragazzi e ragazze, volenterosi, attenti, assidui, amanti dello studio e del sapere:
gli Andriola (Ruccio o Saverio), i Saliani (Pio, il dottore), i Marziliano (Nicola, il Cav.), i bitettesi Silecchia (Agostino e Magda) e Rutigliano (Agostino e Rosa), i Racanelli (Raffaella, Teresa - la maestra - e Minguccio “il pàpa”), i Ventura (Eustachio), i Bavaro (Elisa, Emilio e Nina), le Scuccimarri (Italia e Matilde), i Caringella (Trifone, il professore), i Colonna (Vito), le Lobalsamo (Maria, la professoressa), gli adelfitani Mastrogiacomo (Giulia) e Nicassio (Francesco), il cassanese Viapiano, la Martinelli (Mariannina), le Chimienti (Filomena), la Ferrante, la Chiaromonte (Rosa), le Giannone (Lina e Lisa) e tanti altri ancora, che la memoria ben ricorda.
I quali, essendo, per fortuna, ancora tutti vivi e vegeti, potrebbero, se necessario, raccontare il passato, più e meglio di tante carte, oggi forse conservate, forse scomparse, far emergere altri particolari e circostanze su quel primo anno della nostra scuola, allorquando, beati undicenni o dodicenni o tredicenni, ebbero a salire e scendere - cuore in gola e tremito nelle gambe -, la lunga scalinata del Teatro Vecchio.
Cari e felici ricordi di quella beata infanzia e di quella forte giovinezza, come siete lontani!
Di quel nascere, di quel lento e faticoso crescere e farsi della Scuola, questo e soltanto questo è il racconto veritiero; questi e soltanto questi, i particolari, veri al 99 virgola 99%; questi, e soltanto questi, i nomi dei protagonisti; queste, e soltanto queste, le parole dei dialoghi, i pensieri, i sentimenti, le azioni compiute, le funzioni adempiute, l’opera prestata dai docenti dal primo all’ultimo giorno dell’anno scolastico.
Purtuttavia questa verità-testimonianza sulle sue umili origini, non so bene perché, a molti non è mai piaciuta, non è mai andata a genio. Per gelosia, credo, per diffidenza, per partito preso, per supponenza, per incredulità, ma, più verosimilmente, per piaggeria, per compiacenza o riconoscenza verso qualcuno...
Per tutti questi motivi, si dà il caso che il periodo più bello e più duro di questa nostra storia, il periodo eroico, voglio dire, o pionieristico di essa, venga saltato e passato sotto silenzio o, al più, preso a bersaglio di certa qual ironia, (a farne le spese son sempre i soliti “ banchi ”), sottovalutato, sottostimato, disistimato, scambiato quasi per “ preistoria ” o protostoria di cui non rimangono documenti scritti o testimonianza alcuna, - il che non è vero -, se si deve credere a tutto quello che il testimone che scrive ha ricordato o potrebbe ancora ricordare, e che un nuovo personaggio del tutto estraneo alla lista degli artefici primi della scuola sannicandrese, venuto alla ribalta dopo il ‘44, nel ‘47 - ’48 o più tardi ancora, venga ricordato e celebrato come protagonista della vicenda in questione, mentre quelli che vi hanno realmente partecipato siano ingiustamente oscurati e dimenticati.
Tanto, ragionano questi signori, chi scoprirà l’imbroglio? e la falsità diventa storia e..., una bugia, come dice un saggio tedesco, ripetuta più volte, diventa verità...
Francamente, non è possibile sorvolare su tali e tante inesattezze storiche.
Perciò, al di fuori di questa “verità”, peraltro ampiamente dimostrata e documentata, c’è solo inganno, arbitrio, misconoscimento dei reali meriti acquisiti da don Michelangelo e dai suoi primi ed unici collaboratori, che erano e sono appunto il Losurdo e il Vernì.
“Unicuique suum” (a ciascuno il suo), dice Gesù, nel suo Vangelo, oppure “Reddite, ergo, Caesari, quae Caesaris sunt et quae Dei sunt, Deo” (Date, dunque, a Cesare, ciò ch’è di cesare, a Dio ciò ch’è di dio) (Mt.XXII, 21; Mc. XII, 17; Luc.XX, 25).
Piaccia o non piaccia agli increduli, ai diffidenti e ai mistificatori di ieri e di oggi.
Ne prendano nota i giovani che vogliono sapere la Storia. Quella vera, però.”””.
Era il 1944, l'anno della rinascita di una Italia che allora aveva voglia di imparare...

LA PIÙ BELLA LINGUA DEL MONDO: L'ITALIANO E LE SUE RADICI

Giovanni ripeteva spesso e non nascondeva mai allo scrivente l'amore smisurato che lo univa indissolubilmente alla lingua italiana ed a quelle che considerava le sue radici: il greco antico e la lingua latina. 
Tante, tantissime persone hanno conosciuto tutti i suoi scritti e sono state in comunicazione con lui fino alla fine: esse possono avvalorare senza remore il suo pensiero ed il suo amore profondo per la letteratura italiana, greca e latina.

IL “MAGGIOLINO” ROSSO

Appena possibile, nel periodo lavorativo e non, Giovanni, di buon ora, verso le 05,30, metteva in moto il suo bel “VW Maggiolino” rosso porpora, targato BA204836, e correva a tutta birra per i suoi piccoli poderi campestri: le “Macine”, la “Cattiva”, il “Lago Nuovo”, sulla Via di “Adelfia”. 
Per tanti anni ha chiesto qualche volta il nostro piccolo aiuto: quello di mia madre e quello di tutti noi; in particolare chiedeva il nostro apporto e supporto durante il periodo della raccolta delle olive, delle mandorle e dell'Uva “Regina”.... 
Bei tempi!!!
Quando – oramai – l'età si è fatta incipiente e gli acciacchi sempre più pressanti, borbottando e imprecando sottovoce, alla tenera età di 90 anni ha accettato di appendere in bacheca le chiavi della sua ultima autovettura: una Renault “Clio” bianca. 

LA CAMPAGNA “AMICA”

Il suo secondo amore – dopo la Famiglia e dopo i suoi quattro figli e sette nipoti – era la sua “campagna”. 


Tutta l'agricoltura in senso lato: 
l'ulivo ed i suoi frutti, che amava descrivere nei suoi libri come frutto “divino”, frutto “benedetto dal Signore”; 
la vite e la bellissima uva; 
il mandorlo ed i suoi frutti; 
gli aranci, i mandarini, i peschi ed i suoi saporitissimi frutti...
Tutti questi alberi da frutto il prof. Vernì li coltivava, li amava, li potava di persona, li concimava e li curava per lo stretto indispensabile: egli non amava i prodotti chimici e soprattutto i velenosi diserbanti. Egli era convinto – a ragione – che fossero la fonte prima della tanto temuta malattia del secolo: il “cancro”!
Alla “tenera” età di novant'anni, Giovanni ritenne opportuno non abbandonare al proprio destino i suoi campi; ha continuato a seguirli spesso di persona, facendosi accompagnare in campagna per lo stretto indispensabile e nel giusto periodo, per la raccolta dei suoi amatissimi e succulenti “fichi regina”.

“””.... Tornare… all’ulivo!
“Tornare è un moto verso l’origine. Perché non si torna al vecchio, al già stato, ma all’essenza che custodiva e animava il già stato.  Unessenza che sfugge, talvolta, ci fa disperare.  Nondimeno è là che riposa il senso della vita nostra.  Non si torna al passato, ma all’origine.  Si torna sotto l’albero non per cogliere i frutti della stagione andata, ma per ritrovare l’albero e le sue radici.  Nel vero, grande ritorno, non si torna al padre e alla madre, ma al Padre e alla Madre”. 
(Marcello Veneziani: “Il segreto del viandante”).

L'AMATA PATRIA

Giovanni considerava la parola PATRIA, una parola sacra e soffriva tantissimo nel vedere i nostri politici – per tanti anni – impauriti e quasi restii a pronunciarla... 
Egli vedeva oramai di fatto scaduti non pochi valori fondamentali del viver civile (e della stessa sacralità della Storia umana)... e considerava strana, amara ed illogica la messa in quarantena di talune parole che meglio li rappresentano...
Tra le più prese di mira, le più bersagliate, le più osteggiate, le più incomprese e, anche, le più irrise, quasi che essa sia una sorta di appestato o di untore di manzoniana memoria da fuggire, da bandire o da relegare in un lazzaretto ad ogni costo, trovò, con sommo rammarico e stupore, la parola Patria (scritta con la maiuscola come la si scriveva nei periodi di maggiore fulgore).
Codesta avversione la valutava anche come mero voltafaccia, ostracismo, falsa convinzione ch’essa sia simbolo e coagulo di retorica...
A ben guardare, sembra che la nostra bella parola Patria abbia gettato le barbe nel fertilissimo terreno della nostra stessa civiltà, in quella civiltà greco-latino-mediterranea...
Per Giovanni la Patria impersonava, incarnava, rappresentava, uomini e cose della nostra piccola famiglia (padri, madri, nonni, bisnonni), ma anche cimiteri, chiese, monumenti, paesi, città, stato, territorio, capitale, gente, nazione, nome, bandiera, storia, glorie, memorie, tradizioni, passato, presente ed altro ancora; lui era convintissimo che Patria indica o viene a indicare il luogo dove sono nati e cresciuti i nostri antenati, i nostri amici, i nostri conoscenti; il luogo dove risiedono tutte le nostre persone più care, lo Stato cui è stato imposto il nome Italia.
Per questo, per Giovanni, era giusto e doveroso che ogni prevenzione nei  confronti della parola “Patria” dovesse cessare; che l’odiosa quarantena o delegittimazione avesse finalmente fine e che questa magnifica parola tornasse a inquietare, a interrogare, a risplendere nella nostra lingua del fulgore della sua immensa sacralità, fatta di tre cose fondamentali: 
  • il senso dello Stato;
  • la fedeltà ai valori nazionali;
  • l’amore per la Bandiera,
  • senza più pregiudizi, senza tentennamenti, senza falsi pudori, senza preclusioni ideologiche, soprattutto e prima di tutto, in ogni momento.



La Patria – ce lo ha ripetuto - va onorata e rispettata sempre, in pace come in guerra, in umiltà e silenzio.  Secondo verità e giustizia.

IL MARE

Stenterete a crederci, da vero agricoltore qual'era Giovanni, amava profondamente il mare ed anche i suoi frutti. Appena possibile, quando il lavoro scolastico glielo permetteva, raggiungeva il mare in quel di Fesca, a Bari. Amava nuotare, senza eccedere con l'allontanarsi dalla terra ferma: nuotava benissimo in acque dove poteva appiedare, rilassato quanto basta, perché diffidava sempre delle insidie del mare. Mi raccontava, tempo fa, che negli anni '30, '40, '50 tutta la sua famiglia, i conoscenti, gli amici e non, si riunivano in carovane di traini agricoli trainati da muli, muniti di tutto l'occorrente e partivano da Sannicandro per Bari: località preferite “San Francesco”, “San Girolamo” e “Fesca”.
Ricordo con immenso piacere la festa che avvolgeva le giornate di fine giugno, le bellissime mattinate di inizio estate: puntualmente, arrivava un camion decrepito, tutto fumo, rumore e “niente arrosto”; anche la fatica era tanta, tanta era la voglia di partire in ferie per la nostra “Sharm El Sceick”: Lido di Fesca, Lido Cataldo, Lido Pisani, la vecchia “ex colonia”... Si caricava il cassone del camion di alcuni materassi, un bel canotto (quello dove dormivo) e si partiva. Il mio posto era sul cassone esterno; mio padre, mia madre, Lucianna, Pasquale e la piccola Angela con il pullman della “SITA”. L'ultimo anno che siamo partiti per la casa al mare è stato il 1966, l'anno del mondiali di calcio in Gran Bretagna. Per tale occasione, Giovanni decise di portare per la prima e unica volta a Fesca il nostro bel televisore 23 pollici di marca “Vega”. Con un po' di artifici elettrici da far impaurire qualsiasi elettricista o antennista, si riuscì a seguire tutte le partite del Mondiale di calcio, compresa la memorabile partita con la Corea del Nord; con quella orribile prestazione e con il risultato di 1 a 0 a nostro sfavore (goal di Pak-do-I), la nostra amata nazionale di calcio fu estromessa dal Campionato del Mondo. 
Tutto il periodo estivo (giugno – agosto), sino ai primi di settembre si svolgeva tra la spiaggia di Lido Pisani, una bella focaccia barese ed un pranzetto preparato con parsimonia da mia madre; Lucianna le dava una mano perché impegnata dalla piccola Angela (nata il 20 maggio 1965); mio fratello Pasquale (tra una partita di calcio ed un'altra) ed io ci recavamo presso la fontana pubblica per fornire di acqua potabile la nostra tavola. 
Giovanni era addetto alle compere presso la bottega di “Chino” e mio fratello Pasquale, tra una partita di calcio ed un'altra, si recava spesso presso il nostro amatissimo panificio di Fesca per l'acquisto del bel pane casereccio e della fumante focaccia barese, farcita con le olive ed i pomodorini e ricca di profumatissimo origano.
Tutte le sere, ripuliti di tutto punto, la bella famigliola si recava a passeggio sul lungomare di San Girolamo, qualche volta verso Lido Cataldo e, quando si aveva voglia, al cinema all'aperto di Fesca ed a quello più “in” di Bari-Palese.
L'anno successivo, si decise di andare al mare con modalità diverse: quando possibile, si caricava il bel Maggiolino rosso di ombrellone, sedie sdraio, riviste e quant'altro e felici si partiva... 
Il nostro Giovanni, nonostante i suoi 80 anni a passa, - appena possibile - amava ancora farsi una bella e rilassante nuotata nel suo mare preferito; a suo dire, il mare più profumato del mondo!
Verso le 14.00 si tornava a casa: la nostra dolce casa di Viale Alcide De Gasperi a Sannicandro!  Che tempi!

I SUOI LIBRI

Gli ultimi vent'anni della sua bellissima e lunghissima esistenza terrena, Giovanni li ha dedicati alla sua sezione dei “Combattenti e Reduci”, alla famiglia  e al suo “hobby” preferito: 
  • la ricerca storica e linguistica.
  • Egli amava in particolare:
  • la lingua italiana;
  • la lingua latina;
  • il greco antico;
  • la Storia con la “S” maiuscola;
  • la geografia;
  • Sannicandro!
In occasione del cinquantenario della feroce e cruenta incursione aerea subita da Sannicandro di Bari, scrisse un discorso commemorativo che gli piacque raccogliere in un “opuscoletto” dal titolo:

“LA  NOTTE   DEL BOMBARDAMENTO” - Discorso commemorativo - anno 1993.
Da quella data, prese veramente a cuore il tragico destino di 939 poveri Sannicandresi, deceduti durante e subito dopo a causa di quell'orribile bombardamento aereo. Gli studi e gli approfondimenti successivi svolti senza sosta e senza un attimo di respiro, gli permisero di redigere un approfondito studio sui tragici fatti che sconvolsero la nostra piccola cittadina; tutta la sua ricerca iniziale amò raccoglierla nel libro:


“25-26 giugno ’43: ERRORE O CALCOLO? ” - Studio e ricerca storica – Solazzo editore - Cassano M. - anno 1999.
Commenti alla sua opera:
“E’ un libro di buon valore culturale nella scala della “STORIA LOCALISTICA” meridionale del 2° DOPOGUERRA” – Ed. Casucci – Bari.
“E’ uno studio serio, ponderato, accurato, che fa ormai testo, dal quale nessun altro lavoro potrebbe più prescindere” (Sac. don Nicola Rotundo).
“E’ un lavoro serio e coscienzioso da storico vero. Lo rispetto molto, come se fosse opera mia. Guardate: è sempre con me, sempre a mia portata di mano, tra le opere a me più care. Merita rispetto e considerazione” (Prof. Giovanni Veneziani - storico).
“Complimenti per l’interessante libro sul bombardamento aereo di Sannicandro e ad maiora!” (Sac. Don Tommaso Mariani).
“Sono ammirato e senza parole! Mi chiedo: ma come ha fatto a mettere insieme tanti documenti, tante prove e testimonianze importanti?” (Prof. Agostino Rutigliano).
“Giovanni Vernì fa una puntuale ricostruzione di quell’evento…considera l’intera dinamica del bombardamento di Sannicandro… non esclude… l’ipotesi di un’azione preordinata e intimidatoria nei confronti degli Italiani…messa in pratica per sperimentare la nuova dottrina della guerra aerea, indiscriminata, la cui importanza era stata indicata per la prima volta da un generale italiano, Giulio Douhet, nel saggio “Il dominio dell’aria del 1921”: l’ufficiale italiano sosteneva che l’utilizzazione di un gran numero di bombardieri in grado di trasportare ordigni di grosso calibro avrebbe alla lunga distrutto le vie di comunicazione, le strutture produttive,…il morale della resistenza del fronte interno, ucciso centinaia e migliaia di civili innocenti, …agevolando l’avanzata delle truppe di terra. In quest’ambito si colloca l’attacco aereo della R.A.F. nella notte tra il 25 e il 26 giugno 1943…” (Bari – oil Stanic è solo depistaggio, falso scopo per gli allocchi, caro prof. Leuzzi – Gazzetta del Mezzogiorno giugno 2003).
E' un buon libro. Ma riusciranno a capirti? Don Vincenzo MARTINELLI.
Chiaramente, Giovanni non avrebbe mai potuto imparare alla sua età l'uso dei supporti informatici e, pertanto, chiese al sottoscritto di dargli una piccolissima mano: non gliela negai. Mi dava un piacere immenso restituirgli per posta i suoi manoscritti e le bozze già stampate, una dopo l'altra, dei vari capitoli: per tanti giorni, per tanti mesi, per alcuni anni...
Mai domo, per nulla stanco, Giovanni, pochi anni dopo mise in cantiere ed ultimò una vera antologia di storia localistica sannicandrese:
“MEDAGLIONI ” - Uomini e fatti di casa nostra – Scritti di varia umanità – anno 2001.
“E’ un libro denso di notizie certe sulla vita e sulle opere di un’intera comunità cittadina e… soprattutto vibrante di vigore morale…; un esempio di prosa d’arte e di impegno etico… Constato con piacere che dalle sue parti è ancora vivo il ricordo di Mons. Curi, che, prima di diventare arcivescovo di Bari, fu priore della Collegiata di S. Angelo in Fermo” (Prof. Paolo Petruzzi - Fermo).
“Hai saputo scrivere molti lustri di vita sannicandrese con il rigore dello storico, ma anche con la passione di colui che manifesta l’orgoglio di appartenenza. E’ bello tutto ciò, caro Giovanni, perché il tuo libro è scritto in forma talmente avvincente, che stimola l’interesse anche del lettore qualunque che, mentre ritiene di doversi acculturare nelle beghe paesane, scopre invece di trovarsi innanzi ad una impressionante rassegna di personaggi emblematici e di storie eroiche. Particolarmente tenera e toccante, ma anche assai interessante ho trovato la ricostruzione della vita e delle opere del tuo papà nonché delle circostanze così tragicamente nebulose che caratterizzarono il suo ultimo viaggio…. Io ritengo che la tua fatica meriti di essere conosciuta sia da coloro che oggi vivono a Sannicandro, in particolare i giovani, ma anche dalle generazioni future, perché l’avvenire non si costruisce, se non si conosce la Storia. Un’opera come la tua, dalla quale traspare in tutta evidenza un’appassionante ricerca della verità, effettuata con intelligenza e perseveranza, ben merita di essere divulgata! Nel confermarti i complimenti più vivi ti abbraccio con l’affetto di sempre!.” Roma, 29 novembre 2000 (Vito Andriola).
“Il suo ricco bagaglio personale affina, eleva e trasmuta le esperienze, pure quelle dolorose proprie e della comunità… La sua ricerca della VERITA’ avvicina il lettore alla Storia e alle Storie…; l’uso accurato delle parole aiuta ad avvicinare il lettore alla Storia e alle storie con mente e animo sgombri “depurati da veleni e ambiguità”… E’ innegabile che proprio l’amore per Sannicandro e per il suo destino ha guidato il suo cuore e la sua scrittura a comporre e medaglioni con parole autentiche e appassionate… “Emigrante e soldato…senza fine” è una storia che tocca le corde più profonde e dolorose di una famiglia sannicandrese costretta, come tante famiglie italiane dell’epoca, a privarsi delle sue braccia più forti e dei suoi affetti più saldi.  Ma ciò che colpisce è il fatto che, non ostante la tragedia vissuta per anni e giorni, il piccolo “Giuannín”, da adulto, riesce a trasfigurare il suo grande dolore, quello della mamma, e insieme a loro, quello di tante famiglie colpite dagli stessi drammi, scegliendo come compagni…uno storico e un poeta e dando alla storia dell’emigrante soldato la forza e la dignità di un’epopea…” (Prof.ssa Giovanna Nicassio – VITARELLA).
“E’ il vero libro di “STORIA PATRIA”! (dott. Nicola Chimenti – medico provinciale di Bari e provincia, buon’anima).
“Il prof. G. Vernì non mentisce, non dice bugie: è per davvero un grande dimenticato, com’egli scrive in un veridicissimo medaglione! Il suo povero papà disperso nello Jonio a sua volta un eroe!” Ne abbiamo le prove e la certezza: eccole! (Due amici (non più increduli ma credenti) in una piccola festa… 
“Senti”? – Donn! – cinque volte…!” Così mi accolse un giorno canticchiando dolcemente, quasi a mo’ di una armoniosa melodia… “La voce della Rimembranza – la ricordate? – “M-ngùcc u Pàup”. La cosa più bella, il regalo più gradito ch’egli potesse fare al suo vecchio professore…
Lo stesso anno, mentre chiacchieravamo del più e del meno, come eravamo soliti fare in assenza di orecchie indiscrete, gli posi un feroce e duro quesito che lo lasciò senza parole: 
“””Babbo, hai scritto tantissime storie e quadretti storiografici, hai sviscerato la lingua italiana, quella greca e quella latina, ma della triste storia di nonno Pasquale sai soltanto la data presunta di morte per l'affondamento, da parte di un sommergibile austriaco, del piroscafo “Città di Bari” che lo trasportava in Albania, sul fronte Macedone: nulla più!”””
Subito, non seppe rispondere. Dopo qualche attimo e dopo un breve ripensamento, mi chiese:
“””Cosa pensi sia meglio fare?”””
Gli feci presente che sicuramente gli avrebbe dato un grande aiuto l'Ufficio Storico della Marina Militare Italiana a Roma, l'Ambasciata Austriaca a Roma e qualche rivista nazionale che trattava argomenti di carattere militare. Tutto sembrò finire lì. Qualche giorno dopo tornai a Fermo, nelle Marche, ove risiedo dal 1985. 
Qualche mese dopo, quando tutto sembrava procedere nel solito “tran”, “tran” quotidiano, mi chiamò al telefono e mi confermò che gli aveva scritto una bella lettera l'Ambasciata d'Austria a Roma! Non credeva ai propri occhi: gli avevano inviato copia del messaggio telex trasmesso subito dopo il siluramento del “Città di Bari” dal sommergibile austriaco “UB48”!
Anche l'Ufficio Storico della Marina Militare Italiana – qualche tempo dopo - ruppe gli indugi e gli inviò copia fotostatica di tutti i verbali compilati a seguito della immane tragedia del nostro piroscafo. Tutti i documenti storici oramai in suo possesso, gli permisero di mettere in cantiere ed ultimare il bellissimo racconto storico:

“UNA TRAGEDIA SCONOSCIUTA: 6 ottobre 1917” - Racconto storico – anno 2001.
“Gentile prof. Vernì, spiace comunicare che il comitato di redazione ha dato parere negativo alla pubblicazione dei due articoli inviati con la sua del 28 aprile 2000… Il parere è legato sia alla natura degli scritti che poco si attagliano allo standard della Rivista (Marittima), sia al fatto che per prassi vengono pubblicati esclusivamente pezzi assolutamente inediti”.                                                                
Senza entrare nel merito del senso e del significato dell’aggettivo “inediti” in modo particolare, non abbiamo dubbio che questa risposta si appalesa molto abile e accorta nel fare il proprio interesse di parte in causa e nel nascondere “il netto rifiuto della Marina Militare italiana a farsi riconoscere corresponsabile di una strage colposa plurima”, come gli atti giudiziali e le stesse testimonianze dei pochi sopravvissuti al misfatto avevano ampiamente provato e dimostrato nel lontano ’17, in sede processuale.
“Questa tragedia sconosciuta”, - lo sappiano e se ne ricordino “quelli della Rivista” – non è più sconosciuta, non è più un mistero almeno per un orfano. Nessuno l’aveva finora pubblicata. Non voleva pubblicità. Voleva, cercava solo lo spazio, la visibilità, il compianto, il dolore, il rimpianto, non il “mea culpa” da parte di chi aveva causato sì ignobile misfatto, ma… tanta pace nella luce di DIO per i morti incolpevoli dello Jonio.
Questa strage, anche se noi oggi ce ne tiriamo furbescamente fuori, era e resta colposa e, proprio perché tale, “sempre rimorde e sempre rimorderà l’umana coscienza!”
Galvanizzato dai risultati sin qui ottenuti, per la sua incommensurabile passione per l'agricoltura, decise di svolgere in pochi anni uno studio approfondito sul suo albero da frutto preferito: l'ulivo. Tutta la sua ricerca, con immane pazienza, la raccolse nel libro: 
“FRATEL OLIVO“: Nel cammino dell'uomo – Dalla Creazione ad oggi - Istantanee – anno 2006.
L'anno successivo, sviluppò in maniera approfondita e “sviscerò” tutte le paure che avvolsero e che avvolgono oramai per sempre i poveri sannicandresi che sopravvissero al bombardamento aereo del 25 – 26 giugno 1943. Tutto lo studio lo racchiuse nel libro:
“LA PAURA” – Che rimase per sempre nell'animo di un Popolo – Saggio introspettivo  (giugno 2007).
“Cercavo lo storico, ho trovato invece “lo psicologo” o “psicanalista” (don Giacomo Simone, v.Parroco Chiesa S.M. Assunta).
“Mi ripeterò, ma è la sacrosanta verità, lei si dimostra anche in questo volume un degno erudito della Scuola Storica…(prof. P.Petruzzi).
Senza perdere tempo, mise a frutto tutto il suo sapere linguistico, storico e glottologico e “buttò giù” in breve tempo il più bel libro – a mio modesto parere – della serie:
“PERLE E DIAMANTI” LESSICALI DI ANTICA PARLATA ÀPULA – Studio e ricerca tra storia e glottologia (marzo 2008).
Nato per soddisfare il bisogno di sapere del pubblico ristretto di casa nostra, questo lavoro ha finito con lo stuzzicare la curiosità di non pochi forestieri, sedotti e affascinati, per non dire ammirati dalla spirituale bellezza che ne promana. Sono tra questi gli editori fermani delle mie ultime tre fatiche, i quali, senza che nessuno glielo chiedesse, “confessarono di essersi auto-regalati una copia” per conservarne il grato ricordo.
Bravo, Giovanni: Hai fatto una cosa bellissima, utilissima. Bravo! Generale  MAFFEI (al telefono).
“Trovo il suo libro molto interessante nel suo insieme, ma soprattutto sotto l’aspetto storico, del nostro lontanissimo Passato, dell’altissimo grado di civiltà raggiunto nel corso dei millenni dai nostri lontanissimi progenitore abitanti nel leggendario villaggio che “preesisteva” addirittura alla greco-italiota “MEZΆRDO”, sui resti della quale si trovano ora sedute le nostre abitazioni. E’ veramente bello” (Signora M. Clarizio nata Bellino).
“Ho letto attentamente i volumi che mi ha gentilmente inviato: lavori davvero interessanti e soprattutto assai utili. C’è un filo rosso che li unisce; la preoccupazione di salvaguardare il passato e di favorire il ricordo, eventi tragici, ma anche testimonianze del rapporto tra l’uomo e la natura concorrono a farci crescere e ad essere migliori. Le sue ricerche e le sue storie sono pagine di altissima caratura conoscitiva” (Prof. Paolo Petruzzi).

“Apprezzo moltissimo questo suo studio sulla lingua parlata nel suo paese. E’ un’analisi attenta e convincente quella che lei sta facendo.

Mi piace, mi affascina facendomi partecipe ed interessata per mia stessa natura e predisposizione al suo utilissimo lavoro. Attendo con ansia che lei lo conduca in porto e me lo faccia gustare con tutto il suo “profumo filologico” che non è poco. (Signora Emilia ved. Preside Lorusso – appassionata di glottologia).

(Al telefono Don Nicola Rotundo): “Professore, al mio ritorno a casa, ho trovato, graditissimo, il suo bel regalo. Grazie… Gli ho dato già uno sguardo”. “Quanta cultura!”, e chiuse.
Dal mio barbiere, un giorno, da uno sconosciuto, che forse mi conosceva, ma che probabilmente non aveva letto ancora il mio “PERLE E DIAMANTI”. 

Ci dicono tante belle parole italiane, ma nessuno, credo, ci ha mai spiegato cosa significano tante nostre cattive parole dialettali. Vedete? E non aveva torto!!
Nel 2010, il prof. Vernì volle “sgranchirsi” un po' le meningi e si divertì a mettere in cantiere e ad ultimare una bella ricerca:

“IL VIAGGIO DELLA MENTE” Alle fonti del sapere – Alla ricerca della verità – Causa e fine – Analisi e sintesi – Prove e testimonianze – Compendio di storia retrospettiva (anno 2010).
Nel mese di novembre 2011, purtroppo, venne a mancare improvvisamente un carissimo ed indimenticabile “Amico” con la “A” maiuscola. Di fronte ad una mia richiesta, non se lo fece ripetere due volte e scrisse in pochi giorni un bellissimo saggio:

“IL GENERALE MAFFEI  TRA STORIA E MITO”  - Saggio critico - biografico (anno 2011).
(Al telefono) Sono la moglie del Generale della G. di Finanza… ADINOLFI: COMPLIMENTI!  Ma come ha fatto a scrivere, a pensare, meglio quel gran bel libro sul Defunto GEN. MAFFEI?
Questi i commenti e le critiche alle opere di Giovanni.

Pochi giorni dopo il suo ritorno alla Casa del Padre, una breve ricognizione sulla scrivania di Giovanni permetteva allo scrivente di rinvenire alcune belle foto e, soprattutto, l'ultimo manoscritto.
Era come di solito racchiuso in una cartellina plastificata trasparente, in ordine come tutte le sue cose, i suoi libri che consultava tutti i giorni, le sue foto e cartoline che conservava con gelosìa. 

Tra le tante, mi ha colpito quella del prof. Michelino Soranno, inviata nel lontano 1954 da Venezia: la conservava tra le cose più care: forse, anzi sicuramente perché Michelino era stato il suo collega più vicino durante la sua lunga carriera. 
Ricordo che i due si consultavano spesso allo scopo di redigere i profili personali degli alunni al termine dei vari trimestri scolastici.

Al suo ultimo lavoro, purtroppo incompiuto, Giovanni ha inteso attribuire il seguente titolo: 

“IL VALORE E L'IMPORTANZA DELLA STORIA”, NEL CAMMINO DELL'UOMO. IL POTENTE INFLUSSO ESERCITATO DALLA MEDESIMA NELL'ESPLORAZIONE DELLA TERRA PER LA CRESCITA DELL'UMANO SAPERE – Saggio critico.

Giovanni si è sempre interrogato sui tanti temi della sua lunga esistenza: DIO, l’Aldilà, la vita, la sofferenza, la felicità, la malattia, il dolore, la morte, il passato, i trapassati, il futuro, il Destino ecc… 
E’ giusto, è naturale che lo abbia fatto, guai se non lo avesse fatto! Avrebbe fatto la figura di chi vive di presunzione, di chi presume di sapere tutto e invece non sa nulla. Specie quando l’interrogativo che gli si poneva rifletteva e riguardava la verità sulla esistenza in vita dei suoi stessi predecessori, così lontana, nebulosa, tutta avvolta in una fitta coltre di dubbi e d’incertezze, fonte e causa prima di tanti mali.
Giovanni ha svolto con passione – per un lungo periodo del suo tempo libero - l'analisi e l'interpretazione etimo-lessicologica-lessicografica delle voci e delle forme dialettali più significative ancor oggi presenti e ricorrenti sulla bocca della gente comune.
Voci e forme viste alla luce dell’influenza esercitata su di loro dalle preponderanti tradizioni culturali greca e latina; il suo pensiero era che esse non possono non testimoniare l’origine nobile e non plebea del nostro lessico utilizzato correntemente.
L’idea di portare a termine questo studio approfondito è andata gradatamente maturando dentro avendola vagheggiata e accarezzata a lungo ed ha dato grande importanza ed enorme valore sociale e culturale al suo studio. Dietro tutto ciò si nasconde:
l’amore per la sua terra,  il rispetto per i suoi progenitori più lontani, la grande passione per gli studi filologici sapientemente inculcatagli da valenti maestri dell’Ateneo Partenopeo, poi via via, …
l’inderogabile necessità di realizzare senza indugio un ambìto progetto, che aveva molto a cuore, che si trascinavo dietro da una vita.
l’innato istintivo bisogno di sapere, e di far sapere, di conoscere, e di far conoscere, di capire e di aiutare a capire quanto più possibile, sul “PASSATO” di nostra gente e sulla ancor misteriosa Mezardo;
Il vivo desiderio di dare compimento al suo “vecchio appassionato discorso” sulla nobiltà d’origine della nostra “vituperatissima” parlata popolare.

Con il libro “PERLE E DIAMANTI LESSICALI DI ANTICA PARLATA POPOLARE APULA”, Giovanni ha portato a termine  uno studio ricco di fascino e di seduzione: “un’analisi comparata”, “un confronto” tra termini di diversa origine, “un espediente didattico” che, nel passato, nell’ora di latino, piaceva molto ai suoi ragazzi: li ammaliava, li avvinceva, li conquistava, li faceva assolutamente interessati e attenti, quindi…persuasi e convinti che, in linguistica, esiste per davvero uno stretto legame, un solido rapporto “di interconnessione” tra termini dialettali.
Uno studio approfondito sul PASSATO” interessante e intrigante: è “come un ideale viaggio a ritroso nel tempo”, “un ritorno sui nostri passi”, “una sorta di pellegrinaggio ai santuari della nostra Vetustà” ai segni e alle testimonianze della nostra Storia millenaria, alle innumerevoli “vestigia” della nostra gente. 
Giovanni lo sentiva, peraltro, come “un dovere morale”, “un atto dovuto”, volontario e consapevole, da compiere. 

Egli:
“voleva sottrarre ad una fine miseranda, ingiusta ed ingloriosa, questa nostra parlata popolare”, questo nostro prezioso “patrimonio lessicale”, fatto anche, se non soprattutto, “di tante pregevoli voci”.
“Voleva ridar voce” a chi voce più non ha, e forse mai più ne avrà.
Desiderava, con tutta l’anima, ridare a questi preziosi monili lessicali” il posto, lo spazio, la visibilità che loro spettano e competono nella scala dei valori linguistici, a causa ed in ragione della loro indiscussa nobiltà di origini e del loro intrinseco valore.
“Voleva tirarli fuori a tutti i costi” dal dimenticatoio in cui li abbiamo stoltamente e maldestramente gettati un po’ tutti.
“Voleva toglierli dal grave stato di abbandono” in cui li hanno precipitati incoscientemente sia la lontananza del tempo, sia l’incessante violento bombardamento di “inglesismi”, e di “esotismi vari”. Com’è destino di tutte le lingue, le parlate e le…superbie di questo mondo: nascono, crescono e poi…scompaiono, senza lasciar più traccia di sé.
Per far tutto questo, non ha esitato a sobbarcarsi ad un duro ingrato lavoro…di ricerca, di pescaggio e di analisi, necessario ed indispensabile per dare una fattiva, decorosa e dignitosa conclusione all’impegno assunto.
Cercati, reperiti, ritrovati, riportati all’attenzione di tutti, ripescati e setacciati a dovere, sottoposti, uno per uno, da parte di un esperto etimologo qual Giovanni certamente era, ad una analisi attenta ed oculata, che ne ha stabilito con certezza l’origine e la provenienza, la formazione e la composizione. 
Ecco, tutto d'un tratto, essi sono tornati come per incanto a risplendere di luce propria e a riempire l’occhio di splendore e di natural fulgore. Grazie di cuore, Giovanni, a nome di tutti i sannicandresi!

IL DEBOLE PER LA TERRA ÁPULA

Così Giovanni descriveva la sua terra amatissima:
“””....Terra vetusta! TERRA LONGÉVA! PLURIMILLENARIA!! voglio dire.
Terra antica, quella della nostra regione, tra le più antiche create dal Buon DIO!
Terra beata! Dove l’uomo può anche sognare per tutta la vita!
Terra bella! Dalle mille bellezze!
Terra mirabile! Lodata ed apprezzata da quanti vi mettono piede!
Terra piana, ma anche alta e collinosa!
Terra lunga, orlata di isole e di coste interminabili, stupende!
Terra assolata, arida, povera di acque! Ma anche dal clima mite! Dai tanti misteri! Dalla invidiabile “A-SISMICITÀ” del nostro territorio!!! Non dico chiacchiere o “fesserie”! Sono sincero! E' esperienza e conoscenza specifica di studi scientifici e di “vita vissuta”! Infatti, la nostra gente – lo sanno tutti – non conosce la paura dei terremoti!
Terra sitibonda, ma anche assai ferace! La terra dei “vivacissimi” ulivi!, dei “saporosissimi” vini! Delle “croccantissime” uve!
Terra d’incanto! Veramente benedetta da DIO!
Terra culla di antichissime civiltà!
Una ricchezza inestimabile!”””.

LA  FEDE

Giovanni è stato testimone della Fede, la Fede con la “F” maiuscola! La Fede degli avi! Dei nostri avi!
Così umile e così semplice! Così profonda e così sentita! Così salda e così incrollabile! Ed anche così antica e così testimoniata!13
Una Fede documentata da riferimenti certi, inconfutabili, storicamente provati, ma pur sempre databile attraverso l’attenta analisi di elementi forniti dalla tradizione popolare e dalla particolare situazione archeologica del nostro territorio.
Una Fede tradizionale – come si suol dire – che traeva le sue origini ai tempi immediatamente successivi al “protocristianesimo romano-paestinese”. Quando, cioè, l’eco della crocifissione e risurrezione del nostro Salvatore, della predicazione e del martirio subìto dai più carismatici degli apostoli di Gesù non era ancora del tutto spenta e l’opera di evangelizzazione non attraversava una fase di stanca e procedeva inarrestabile nei vari paesi bagnati dal Mediterraneo.
Come si sa, la nostra regione, oggi come ieri, non ha mai negato la sua generosa ospitalità al fratello povero e bisognoso.
La nostra amata terra, è stata sempre solcata da buone vie di comunicazione e il nostro paese - in modo specifico - non è così lontano dal tracciato di quella superba arteria stradale che risponde al nome di Via Appia, da Roma a Brindisi.
La Fede, quella vera, approdò anche dalle nostre parti: entrò nelle case dei nostri progenitori; prese stabile dimora nei piccoli “pagi” o villaggi o colonie o insediamenti urbani che si erano già costituiti o si andavano costituendo sul nostro territorio; s’introdusse senza uscirne più in quelle modeste case, nei cuori semplici di gente umile e buona, di infaticabili lavoratori dei campi, di operosi produttori di olio e di vino, di abili commercianti, di ceramica e di derrate agricole, paghi, alla sera, di raccogliersi in preghiera davanti ad una pittura muraria raffigurante o Gesù, gli apostoli Pietro, Paolo, Giovanni o la Madonna o lo stesso Padre Celeste.
I nostri antenati erano anzitutto, devoti a tal punto dei loro protettori, dei fedeli discepoli di Gesù da chiamare i loro piccoli villaggi con il nome dei principali campioni della Fede di Cristo.
Il primo era intitolato a S.Pietro (in gergo “Sant Pietr”). Sorgeva ad est del nostro paese, su di un dosso abbastanza esteso, tra i rioni Picone e Calambra. Da piccolo e da grande, a piedi o su carro agricolo, da solo o in compagnìa di altri, ci sono passato tante volte vicino. Percorrendo la strada che portava al Ramigliacco e ad Acquaviva, Mamma Lucia me ne mostrava a dito l’ampia zona desertica da esso occupata, le poche tracce e le residue rovine ancor visibili alla nostra sinistra.
Il secondo portava invece il nome di S. Giovanni e sorgeva ad ovest del nostro abitato, nella zona compresa, pressappoco, tra la nuova scuola Elementare e le adiacenze attigue. Aspetti e vestigie di questo e di quello sono andati gradatamente mutando nel tempo sino a scomparire, del tutto o quasi. Sotto l’azione distruggitrice del tempo, l’incuria e l’insipienza dell’uomo, l’avanzata cieca i inarrestabile della moderna civiltà, ripeto, di quelle felicissime ed antichissime “oasi” di Fede cristiana, tutto è scomparso; molto, forse, giace ancora sepolto sotto il grembo di madre terra. Il nome, l’intitolazione sopravvivono ancora. Ma chi li ricorda più? E sino a quando?
Di quel culto e di quei nomi, di quella devozione e di quella particolare “pietas” religiosa, oggi sono rimaste poche tracce significative, la più importante delle quali, a livello familiare e iconografico, è un magnifico S.Giovanni Battista Bambino in legno pieno: alto poco più di un metro; viso roseo, paffuto; capelli ricci, corvini; occhi grandi, sfumati d’azzurro; in veste candida, dell’epoca, splendidamente ricamata; nella sinistra un grosso stendardo con su scritto: Ecce Agnus Dei! Per me un piccolo capolavoro dell’arte statuaria del passato oltreché un testimone visibile, un segno tangibile della particolare devozione delle cospicue famiglie che se l’erano tramandato: dei Mondelli, dei Mariani (“Cap-rizz”), dei Mossa, dei Guglielmi, ch’io custodisco gelosamente in un angolo di casa mia; a livello cittadino, invece, le Sacre immagini di S.Pietro e di S.Paolo a tutt’oggi venerate nella “Cappella” di Via Bari della nostra città. Prova e testimonianza segno e pegno entrambi di una fede antica ancora viva e vegeta.
Ebbene proprio questa bella “Fede antica”, intesa e recepita nel senso etimologico di (piena) “fiducia”, di (ferma) “credenza” in Dio – dal latino fides,ei (e questa da fido,is = confido, ho fiducia in, conto su, credo in qcn o qcs) fiducia – questa splendida virtù teologale, questo inestimabile dono di Dio a noi credenti, questa infallibile spia del nostro comune sentire cristiano, ha abitato a lungo tra noi nella pienezza della sua accezione, è vissuta con noi, ha albergato dentro di noi sempre schiva e pudica, alácre e prodigiosa, umile e profonda, quale l’avevano sentita e professata i nostri lontanissimi progenitori. Usi tutti, grandi e piccoli, ricchi e poveri, a “confidare” in Dio, a “pregarlo” con umiltà e sincerità di cuore, nei  suoi Angeli e nei suoi Santi, nei suoi segni e nei suoi simboli, nelle ore più buie e drammatiche della loro esistenza individuale e collettiva, a “credere” soprattutto ed anzitutto nella sua reale onnipotenza.
Usi, tutti indistintamente, ripeto, per naturale divina ispirazione a riporre la massima “fiducia” in Colui “che è potente”, a “credere fermamente” in tutto ciò che Dio ha rivelato e la Santa Chiesa ci propone a credere, nei suoi Angeli, nei suoi Santi e nei suoi Segni più significativi e rappresentativi, ad affidare alla forza della preghiera, fatta con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutto il cuore, alimentata e ravvivata costantemente da opere di bene, le pene, le fatiche, i travagli della propria vita, che era, poi, (ed è), il vero modo del buon cristiano di rapportarsi con Dio. 
La Fede, con la “F” maiuscola oggi è messa in discussione, negata e combattuta, svilita e sviata dalle teorizzazioni materialistiche del mondo, divenuta preda delle seduzioni del modernismo. 
Essa ha cominciato a vacillare sempre più e, fattasi incredula, sta lentamente scomparendo dai nostri cuori e dalla nostra vista.
Svanita?  Smarrita?  Morta?
Chissà! 
Giovanni, di certo, non l'ha mai perduta.

LO SPIRITO, I VALORI

Amava le buone letture e i buoni libri. Soprattutto i trattati di letteratura italiana, greca e latina, quelli storici, geografici, istruttivi e formativi, e tra questi, anche quelli religiosi, come p.e. la SACRA BIBBIA, le lettere di S. Paolo, i Vangeli di GESÙ, la vita terrena del nostro Salvatore.
Apprezzava particolarmente la lettura dei quotidiani AVVENIRE, IL GIORNALE, LIBERO; seguiva con attenzione e sarcasmo e passione critica gli scritti di Vittorio Feltri e Marcello Veneziani, perché li riteneva tutti interessanti, accurati, capaci di fare “genuina cultura”, vero “approfondimento culturale”, di dare “un piccolo contributo” alla ricerca sulla nostra storia e sulla nostra lingua in modo particolare.
Un uomo, certo, di comando quando esercitava la funzione di vice-preside nella Scuola Media Statale “A. Manzoni” di Sannicandro di Bari, ma anche un cuore puro, aperto alla carità fraterna, giusto, soccorrevole – dalla spiccata personalità – un esempio di onestà e di moralità vissuta a tutta prova, che ha lasciato un segno, marcato un tempo, caratterizzato un'epoca a cavallo tra il '900 ed il secolo in corso.
Un lavoratore instancabile quando svolgeva il suo “hobby” preferito nei piccoli poderi di proprietà. Non negava mai un consiglio disinteressato a tutti coloro che gli chiedevano un piccolo aiuto per dare una potata accurata a qualche alberello. 
Il nemico n°1 della menzogna e della falsità storica per eccellenza.

IL   SOGNO

Nell'esilio dorato di Sannicandro di Bari, circondato dall'affetto della cara consorte Rachelina, della figliola Lucianna e di tutta la famiglia, sognava sempre......: 
la carezza della mamma defunta, la “g-i-o-i-a” del suo papà Pasqualino che non aveva potuto conoscere, gli amici del cuore, i dolci conversari, presso la casa paterna in Via Cassano, la “parca” cena con la famiglia, il pane casereccio e la focaccia di Altamura che lui apprezzava oltre ogni esaltazione, la cucina sobria della nostra terra, “i col–rizz”14 saporiti...., la pasta con le cime di rapa, la cicoria di campagna condita con il purè di fave ed il suo olio extra-vergine d'oliva, il calore e l'affetto silenzioso dell'immensa schiera di ex alunni (alcuni oramai ULTRA-settantenni) e dei concittadini tutti....

I CINQUE RINTOCCHI DELLA CAMPANA

Dopo la morte del suo grande e fraterno amico – il Gen. Rocco Maffei – Giovanni ha continuato giornalmente ad aggiornare i suoi studi, i suoi bellissimi libri, ad integrare il dizionario “SANNICANDRESE-LATINO-GRECO” contenuto nel libro “PERLE E DIAMANTI LESSICALI...”. 
Purtroppo, oramai, le forze iniziavano ad abbandonarlo. 
Anche la vista lo stava abbandonando. 
A seguito di pressanti inviti di chi gli stava accanto, il 1° giugno ed il 1° luglio 2013 decise di sottoporsi – con esito positivo - ad un delicato intervento alle cataratte. Tutto sembrava essere andato per il verso giusto: il suo deambulare per casa ed in giardino sembrava tornato normale; sembrava...
Dall'alto dei suoi 98 anni, pian pianino, ha iniziato ad alimentarsi con parsimonia, a bere pochissimo....
Qualche sera, usava saltare la cena standosene a letto.
Sembrava rinascere a nuova vita solo alla vista dei propri cari, dei suoi figlioli e degli amatissimi nipotini.... 
Tutto si è concluso nel pomeriggio del 5 gennaio 2014.... 
Le cure amorevoli di una bravissima infermiera e del “118” dell'ospedale di Grumo Appula non hanno potuto nulla contro la volontà di Colui che tutto può!
Per tanti anni ho pregato il Signore...
Negli ultimi dieci anni ho chiesto espressamente a Nostro Padre di concedermi la grazia di esser lì con lui nel momento più triste: immensa Gloria al Signore che ha ritenuto opportuno esaudire la mia richiesta. 
Tutto il pomeriggio del 5 gennaio ho dato una mano a mia madre ed a mia sorella Lucianna restando a casa con loro; innumerevoli volte l'ho sorretto per accompagnarlo in bagno. Sono stato vicino a lui, gli stringevo la mano, gli controllavo la flebo e la mascherina dell'ossigeno...
Alle 04,30 mi ha chiesto di sorreggerlo un po' e di massaggiargli il ventre, la schiena, le anche...
Ho sistemato i cuscini e, per farlo, l'ho abbracciato...
Accarezzandogli il capo ho notato che il respiro – purtroppo - si era fatto affannoso.... Ho capito ed anche lui ha capito tutto, purtroppo. 
Ho ringraziato il Signore per tutto quello che ha fatto per noi ed ho iniziato a pregare con lui ad alta voce...nel silenzio della notte!
Si è spento tra le mie braccia, tra le mura di casa, in Pace con il Signore, - per cause naturali - alle ore 05,00 del 6 gennaio 2014. 
Subito dopo, mano nella mano, mamma Lucia ed il babbo Pasqualino, lo hanno abbracciato e, mano nella mano, lo hanno accompagnato davanti al trono dell'Altissimo.
Nell'immediatezza del tristissimo evento, ho trovato il coraggio di avvertire subito mia madre e mia sorella Lucianna e quindi, subito dopo, ho telefonato a mio fratello Pasquale, mia sorella Angela ed ho avvertito mia moglie, i miei figli.
Alle ore 07,00, con mio fratello e mio cognato Alberto abbiamo avvertito le onoranze funebri che si sono subito attivate per le indispensabili incombenze del caso. Dopo le ore 09,00 abbiamo atteso  ed abbiamo pregato con gli amici di famiglia, con i parenti e con tutta la cittadinanza nella piccola ma accogliente chiesetta del Santissimo Crocifisso.
A stento era possibile trattenere le lacrime, soprattutto quando si vedeva la tristezza sui volti di tanti amici, di innumerevoli persone care, di tutti i suoi alunni, tantissimi oramai cinquantenni, sessantenni ed anche ultra-settantenni...
Uno di loro, non lo dimenticherò mai, mi ha abbracciato e mi ha sussurrato tra le lacrime: “...Tuo padre mi ha insegnato tutto, ma soprattutto l'educazione!”.
Una frase semplice che racchiude tutta l'essenza ed il vero spirito dell'insegnamento di mio Padre ad innumerevoli schiere di sannicandresi e di tanti ragazzi dei paesi vicini.
Verso le ore 10,30 del 7 gennaio 2014, stremati dal dolore per l'immensa perdita, abbiamo accompagnato il feretro verso la Chiesa Madre di Sannicandro: era presente e non ha voluto mancare al triste appuntamento, tutta la cittadinanza al completo, il sig. Sindaco Novielli accompagnato dal padre “don Franchino”, amico d'infanzia di Giovanni ed anche amico della Sezione Combattenti e Reduci di Sannicandro di Bari. Nel tragitto dalla Chiesetta del Santissimo Crocifisso alla Chiesa Madre, il corteo si è arrestato di fronte al Monumento ai Caduti di tutte le guerre: Giovanni era uno degli ultimi ex combattenti e, pertanto, come per tutti gli altri, cinque rintocchi, cinque ultimi sussulti ai nostri cuori, hanno scandito un triste pomeriggio sannicandrese ...
Il suono magico della carissima campana dei Caduti – carissima soprattutto a Giovanni – ha accelerato di colpo tutte le nostre lacrime fuggevoli entrando per sempre nel nostro cuore!
La funzione religiosa, bellissima e commovente, è stata officiata dal parroco - Mons. Nicola Rotundo – amico carissimo di Giovanni, che lo ha inteso ricordare con sobrietà e semplicità; tra tutti i ricordi, il più bello è stato quando ha ricordato le innumerevoli letture di Giovanni in Chiesa: lui non leggeva, le declamava e le recitava ad alta voce!
Una persona a noi immensamente cara ha lasciato la vita terrena per incontrare DIO Padre in una dimensione tutta nuova. L'immagine che serbo nel cuore è la tenerezza del suo sguardo: il tempo gli aveva lasciato due occhi belli e vivi. La sua vita spesa interamente per gli altri, nel silenzio, mi ha fatto pensare a quella piccolezza che piace a DIO e che ci fa destinatari delle sue benedizioni. 
Una vita che richiama ai valori grandi: una FEDE semplice riposta interamente in DIO, la famiglia, gli affetti, la rettitudine, il valore della parola data, l'accettazione serena della vita e del suo destino. 
Negli ultimi giorni della sua vita terrena le persone che gli volevano bene, attorno alla casa da lui abitata, avevano preparato un bellissimo giardino.... 
Questa immagine significativa mi ha confermato che DIO fa lo stesso con noi: ci ama gratuitamente e ogni giorno ci prepara le cose più belle che spesso noi non vediamo, travolti da impegni vorticosi e da corse affannate. 
Un cristiano non è migliore degli altri ma vive con la certezza che DIO lo ama per quello che è! 
Ci lascia nella nostra libertà per volerci ancora più bene... 
Diviene difficile, a volte, comprendere la sofferenza quando questa bussa alla porta delle nostre case...
Ora, anche noi abbiamo conosciuto quel dolore che sembra attraversare l'anima...
Era una grigia giornata di gennaio e faceva molto freddo... un freddo intensissimo e pungente.
Non si ha tempo per pensare; in questi casi si ha solo il tempo di pregare, pregare, pregare....
Mentre pregavo il Signore, il volto di Giovanni mi pareva quasi rilassato, con un leggero sorriso che voleva invogliarci ad esser sereni: Lui avrebbe comunque continuato sempre a vegliare sulla sua cara moglie, su di noi tutti e, soprattutto, sui sette nipotini ai quali era tanto, tanto legato....
Innumerevoli concittadini e non sono giunti presso la camera ardente: li abbiamo salutati tutti e ci siamo uniti a loro nella commozione del momento.
Questo è tutto, caro babbo. 
Una giornata che non potrò dimenticare, che nessuno dei presenti potrà dimenticare.  
Quel giorno, un velo di tristezza ha coperto per sempre i nostri cuori. 
Per sempre.



CONCLUSIONE

Scorrono già i titoli di coda della pellicola del nostro film “Super8” e si intravedono già i piccoli lampi, i graffi, piccolissime fiammelle e qualche immagine sfuocata.
Considerati attentamente tutti i dati relativi al nostro personaggio - al termine di questo nostro fugace “excursus vitae” -, ammirato e stupito della luminosa figura di uomo, di cittadino e di genitore, ritengo cosa utile ed opportuna dedicargli questo breve profilo che lo ricordi ai giovani e ne tramandi nel tempo l'immagine e l'esempio, con il sincero augurio e la segreta speranza che nulla, veramente nulla, vada perduto di sì leggendaria personalità che ha, a tratti, dell'“incredibile” per chi non ha avuto l'onore di conoscerlo di persona. 
Nulla, torno a ripetere, deve andare perduto:
del suo cuore aperto a tutti;
della sua instancabile voglia di fare e di lavorare;
della lezione di vita che ci ha impartito, inconsapevolmente, senza volerlo e senza saperlo;
del bene che ha fatto, indubbiamente, a chi gliel'ha insistentemente richiesto con un nodo alla gola direttamente, o per interposta persona;
del sorriso che ha donato a tutti noi;
delle lacrime che ha asciugato ai tanti alunni bisognosi; 
dell'educazione di vita e scolastica donata senza risparmio a folte schiere di concittadini e alunni venuti dai paesi limitrofi alla disperata ricerca di un titolo di studio e di una decorosa sistemazione.
di tutto quello che ha fatto per il nostro bene.
Grazie, Giovanni, e che il Signore Buono e Misericordioso ti abbia già nella gloria del Suo Regno, perché te lo meriti, e come!!!

“...ERA MIO PADRE”

Vivo... 
è chi legge queste righe, 
vivo è chi le ascolta da chi gli fa' dono sereno 
della propria voce amica.
Lieta o complicata, deludente o straordinaria,
abbiamo tutti a cuore la nostra vita.
Quanto abbiamo bisogno dell'amore, 
del rispetto e della stima di qualcuno per affrontare le nostre giornate.
Così, nello stesso tempo,
noi stessi possiamo essere custodi delle vite che troviamo accanto:
dei nostri cari innanzitutto.
Ed anche di chi è ancora più fragile di noi,
come i piccoli fin dal loro concepimento,
gli anziani, gli ammalati e chiunque viva la situazione in cui, 
per diversi motivi, non riesce o non può affrontare la vita.
Non ci può rendere felici una cultura che nega il fatto 
di aver bisogno gli uni degli altri per vivere...
Vivo è anche chi amava la Patria;
vivo è chi amava la propria terra, 
i propri Avi, la propria lingua;
vivo è chi amava la scuola e i propri alunni;
vivo è chi amava la terra ed i frutti donati dal buon Dio;
vivo è chi amava la propria famiglia, 
la moglie, i figli, i nipotini;
vivo è chi aveva una immensa Fede nel Signore:
vivo è anche chi amava profondamente la vita...
“Se conosceste il mistero immenso
del Cielo dove ora vivo, 
questi orizzonti senza fine,
questa luce che tutto investe e penetra,
non piangereste se mi amate, 
così ci sussurra Giovanni.
Sono ormai nell'abbraccio infinito di Dio,
nell'incanto della sua sconfinata bellezza.
Le cose d'un tempo
sono così piccole a confronto!
Qui non ci sono rumori, 
non ci sono auto e moto rumorose; 
c'è una luce diffusa dappertutto; 
qui possiamo sederci e parlare 
guardandoci negli occhi.
Mi è rimasto l'amore di Voi,
una tenerezza dilatata che neppure immaginate.
Vivo in una gioia purissima.
Nelle angustie  del tempo,
pensate a questa casa
ove un giorno saremo uniti
oltre la morte,
dissetati
alla fonte inestinguibile
della gioia
e dell'amore infinito.
Non piangete, se mi amate...”





….Gli attuali eventi storici ci devono insegnare che, se vuoi vivere in pace, 
devi essere sempre pronto a difendere la tua Libertà….
La difesa è per noi rilevante
poiché essa è la precondizione per la libertà e il benessere sociale.
Dopo alcuni decenni di “pace”,
alcuni si sono abituati a dare la pace per scontata:
una sorta di dono divino 
e non, un bene pagato a carissimo prezzo dopo innumerevoli devastanti conflitti.…

(Fonti: https://svppbellum.blogspot.com/, Web, Google)











 

GUERRA CIVILE SIRIANA 2015 - 2023: la feroce “battaglia di Khasham”, ovvero, i numerosi contatti a fuoco avvenuti tra “special forces” statunitensi, ribelli siriani e “gruppo Wagner”…

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