domenica 16 gennaio 2022

W.W.1: Un soldato del 271° Btg. Milizia Territoriale, il sommergibile tedesco “UB-48”, il destino del piroscafo “Città di Bari” e del piccolo Giovannino Vernì


“ SVPPBELLUM.BLOGSPOT.COM 
Si vis pacem para bellum “

IL FRONTE MACEDONE DEL 1° CONFLITTO MONDIALE

Il fronte macedone (o fronte di Salonicco, o fronte meridionale) fu il risultato del tentativo delle potenze dell'Intesa di venire in soccorso della Serbia, nell'autunno del 1915, contro l'attacco combinato di Germania, Austria-Ungheria e Bulgaria. La spedizione arrivò tardi e con forze insufficienti ad evitare la caduta della Serbia e fu complicata dalla crisi politica interna in Grecia (il cosiddetto "scisma nazionale"). 






Alla fine si formò un fronte stabile, che andava dalla costa adriatica albanese fino al fiume Strimone, contrapponendo una forza armata multinazionale contro gli imperi centrali. Il fronte macedone rimase abbastanza stabile, nonostante alcune azioni locali, fino alla grande offensiva dell'Intesa nel settembre del 1918, cui seguì la capitolazione della Bulgaria e la liberazione della Serbia. L'impero austro-ungarico aveva attaccato la Serbia nell'agosto del 1914, ma non era riuscita a sconfiggere la resistenza serba. Dopo l'entrata nel conflitto dell'impero ottomano a fianco degli imperi centrali, il fattore decisivo era diventato la posizione della Bulgaria  che occupava una posizione strategicamente importante sul fianco serbo e il suo intervento da una delle due parti sarebbe stato decisivo. Ad ogni modo la Bulgaria e la Serbia avevano combattuto due guerre nei precedenti 30 anni, la prima nel 1885 (guerra serbo-bulgara), la seconda nel 1913 (seconda guerra balcanica). Il risultato di quest'ultima aveva rappresentato una forte umiliazione per la Bulgaria e vi era un sentimento d'irredentismo diffuso, essendosi la Serbia appropriata di terre che di diritto sarebbero spettate alla Bulgaria. Mentre gli stati dell'Intesa potevano offrire solo piccole concessioni territoriali dalla Serbia e dall'ancora neutrale Grecia, le promesse degli imperi centrali erano molto più allettanti, dato che offrivano la maggior parte dei territori che la Bulgaria già reclamava. Quando si dimostrò la forza degli imperi centrali a seguito della sconfitta dell'Intesa nella campagna dei Dardanelli e la sconfitta russa nell'offensiva di Gorlice-Tarnów, il re Ferdinando I firmò un trattato con la Germania ed il 21 settembre 1915 la Bulgaria cominciò la mobilitazione bellica.
A settembre del 1916 era arrivato un corpo di spedizione italiano in Macedonia. Nella primavera del 1917, l'Armee d'Orient del generale Sarrail era stata rinforzata al punto di disporre di 22 divisioni: 6 francesi, 6 serbe, 7 inglesi, 1 italiana, 1 greca "di difesa nazionale" e 2 russe. A queste furono poi aggiunte altre 2 divisioni greche. Venne pianificata un'offensiva per la fine di aprile, ma l'attacco iniziale fallì con gravi perdite e l'offensiva venne fermata il 21 maggio. In seguito gli alleati dell'Intesa, con l'intenzione di esercitare una maggiore pressione su Atene, occuparono la Tessaglia, che era stata evacuata dall'esercito reale, e l'istmo di Corinto, tagliando in pratica il paese in due. Con un'ulteriore pressione diplomatica si arrivò all'esilio del re greco il 14 giugno e la riunificazione del paese sotto il controllo del primo ministro Venizelos, aiutato dalle baionette dell'Intesa. Il nuovo governo dichiarò immediatamente guerra agli imperi centrali e cominciò a creare un nuovo esercito. Nonostante questo risultato favorevole, il nuovo primo ministro francese Georges Clemenceau richiamò il generale Sarrail nel novembre per sostituirlo con il più diplomatico generale Adolphe Guillaumat. Sul fronte macedone era stato destinato mio nonno Pasqualino Vernì…

PASQUALINO VERNI’, UN SOLDATO del 271° Btg. Milizia Territoriale (1879 - 1917)

Mio nonno Pasquale aveva un collo taurino, fronte alta e spaziosa, sguardo dolce e mite, occhi grandi e fissi, capelli scuri e corti, baffi folti e arricciati all'insù: è tutto qui il padre di Giovanni.  Da modesti proprietari terrieri era nato il 13 febbraio 1879; tutti lo chiamavano, Pasqualino. Avesse avuto uno, dieci o quarant'anni ­ di più l'umana sorte non gliene volle concedere ­ per tutti era, sempre e soltanto, Pasqualino, quasicché il vezzeggiativo col quale lo si nominava gli fosse stato ritagliato addosso dalla natura medesima e a Lui spettasse più che a tenero infante. Il secondo di una grossa covata egli era, non unica né rara nel borgo natìo, ­ di quelle che, da sole, riempivano di chiasso e di allegria, da mane a sera, vicoli e strettoie agglomerati nell'antico rione dello Spirito Santo, sempre timoroso di nuovi affacci, pur se già smanioso di più ampi slarghi per gli andirivieni delle sue giovani api. 
Dopo Saverio, il primogenito, (1875), prima di Nicola ("Colett"), il terzogenito, (1881), di Isabella, la quartogenita (1883), di Anna (1885), di Pasqua, la "Ross" (1887) ­ anche lei, come il fratello, portava questo nome tanto caro alla cristianità, prim'ancora di Carmela, di Domenica, di Antonia, l'ultimogenita, supporto, quest’ultima, angelo custode e vestale di casa. Nove in tutto. Nove bocche da sfamare, da crescere, da incamminare nel vasto mondo di fine Ottocento. Molte, si direbbe a prima vista, ma non troppe per la profonda religiosità dei loro pii genitori, consapevoli che tanti figli costituivano pur sempre una benedizione del Cielo. A tutte indistintamente queste creature la mamma, la ferma, la ferrea eppur dolce mamma Maria la benvoluta e ultrastimata "Zia Maria" (z' maroi') del lungo parentado ­ voleva un bene dell'anima: immenso, com'era immenso il suo cuore, uguale per tutti. Ma, quello per il suo Pasqualino era diverso: più evidente ed invadente: in una parola, "protettivo", ma non perché lui portasse il nome del suo avo prediletto o perché mostrasse, più che gli altri fratelli, virtù rare o intelligenza superiore, ma unicamente perché, dentro di sé, nel suo subconscio, lo presentiva bersaglio irato di un maleficio, vittima predestinata di un oscuro disegno, che, sin dal nascere del suo piccolo, la perseguitava come una maledizione, le toglieva la pace, le riempiva l'animo di angosce e di paure, che ella cercava vanamente di allontanare da sé con una più attenta e vigile protezione. Sotto l'ala di siffatta mamma, Pasqualino crebbe sano e forte come un pesce, trascorse un'infanzia serena e tranquilla, forgiò al meglio il suo carattere mite e generoso, sviluppò ancor più il nativo senso del dovere e del sacrificio, imparò con facilità un mestiere qualificato fatto su misura per lui, e, già adolescente, si segnalava tra i più esperti nell'arte del potare. 
Dimenticò, però, l'incauto, di pensare anche a dirozzare la mente, ad imparare, come si dice, a leggere e scrivere e di questa sua noncuranza molto si dorrà, per vero, un giorno non lontano. Vero è che la colpa di ciò non era, e non poteva essere, soltanto sua. Era, infatti, anche dei genitori, i quali mancarono il dovere di mandare a scuola tutti i loro figli, ritenendolo forse un lusso da non poter soddisfare. Come lo era anche dello stato, il nascente stato unitario italiano, il quale, per combattere la piaga dell'analfabetismo, (particolarmente diffusa nel Mezzogiorno, dove il 70% della popolazione era analfabeta ossia non sapeva né leggere né scrivere), si limitò ad emanare una legge ­ la cosiddetta legge Coppino del 1877, dal nome del ministro che la proponeva ­ con cui si istituiva sì la Scuola Elementare obbligatoria, ma non la si rendeva, come la si sarebbe dovuta, gratuita. Il che nocque non poco all'efficacia stessa del provvedimento preso e, nel tempo, evidenziò la necessità di adeguati miglioramenti.  Non di meno quello dell'istruzione non era, e non fu, l'unico e solo problema che afflisse e turbò i sonni di Pasqualino e soci. Ve ne erano altri, non meno gravi e urgenti: quello del lavoro, p.e.; quello dell'occupazione o dell'economia o dei trasporti o delle comunicazioni, per dirne qualcuno. Nessun ministero se ne occupò mai con l'impegno dovuto e perciò restarono a lungo abbandonati ed irrisolti, al punto che il Mezzogiorno era l'immagine stessa dell'arretratezza, dello sfacelo e della miseria e, conseguentemente, del disarmonico sviluppo economico e sociale del Paese.  Responsabile primo del degrado e del malessere di cui soffrivano le genti del Sud era l'agricoltura col suo "latifondo", che lasciava nelle mani di pochi irresponsabili il 70% della terra, la quale, anziché essere lavorata, "era lasciata in gran parte incolta, preda dei rovi e delle erbacce in genere, dominio degli animali da pascolo e regno dei passatempi dei nobili proprietari o era tenuta a "masseria di campagna", con utili e vantaggi esigui o del tutto inesistenti. Il rimanente 30% lo possedevano, in frazioni minime, centinaia, e forse migliaia, di piccoli proprietari terrieri, i quali non solo non ne traevano alcun sostanziale beneficio, non solo non vedevano mutarsi quella minima ricchezza in altra ricchezza, ma non riuscivano mai neppure a cavare quella gran "sete di terra", che da sempre li tormentava.  Non solo. Ma l'incaglio causava, senza volerlo incomodi e disturbi talmente gravi, che condannarono i braccianti agricoli a lunghi periodi di disoccupazione o di sottoccupazione, a paghe striminzite e saltuarie, a fame e miseria senza fine, che intristivano o imbarbarivano chi ne veniva colpito, spingendolo spesso anche a "delinquere" o ad emigrare. E questo fenomeno non risparmiò neppure Pasqualino.  Filava e pungeva la "montagna" o tramontana di casa nostra sulla sera del paese, nel cuore dell'inverno. Tutti erano tappati in casa, anche i più giovani. Saverio, Pasqualino e Coletto, anche loro, se ne stavano al caldo, addosso l'uno a l'altro, stretti nell'ampio "fuoco" (o caminetto) di Tata Giovanni (Tata Giuenn), al primo piano della loro abitazione. Di fronte a loro ardeva e bruciava un grosso ceppo di mandorlo appena scalzato. Rannicchiata in un angolo, stanca, il capo stretto nelle mani, piegata in avanti, mamma Maria. Tra un sobbalzo e l'altro, ella allungava le mani alla fiamma, le scaldava, le sfregava con forza, tendendo l'orecchio ai discorsi sussurrati dei tre figli. Parlavano di tutto: di lavoro che non c'era; di "giornate" che nessuno più trovava; di paghe striminzite e scarse; di proprietari svogliati; di terreni incolti da lunga pezza; di fame e di miseria sempre più crescenti; di famiglie che non sapevano come tirare avanti; e, quel che è peggio, non trovavano più "credito"; di debiti sopra debiti, contratti per pagare il viaggio o, più spesso i viaggi a due o più persone della stessa famiglia; di amici, compagni, coetanei che da tempo non si vedevano più in giro, spariti, scomparsi dalla mattina alla sera, partiti ­ così dicevano tutti ­, di nascosto, alla chetichella, "di contrabbando", clandestini per...­ e qui essi, nel raccontare tutto questo, abbassavano ancor più la voce sino a rendere incomprensibili i suoni e le sillabe ­ ...l'America... ­ quella specie di Fata Morgana che tutti incantava ed attirava ­; ...di Ciccillo, Saverio, Vito Sante, Rocco Martino, da mesi scomparsi, introvabili, dei quali non si avevano più notizie, sino al giorno prima, ma che già avevano trovato un lavoro e dai quali già si ricevevano le prime rimesse...; di ...e giù altre notizie, all'infinito. Voci, queste,? Solo voci? chiacchiere da bar, da oziosi, da sfaccendati? Balle o verità assolute? dette, così, a mezza bocca, in un orecchio, in questo o quel crocchio? Mah! 
Mamma Maria ascoltava, ascoltava, in silenzio. Poi, come per dir la sua, "Pasqualino, fece, alzando un po' la voce, forse per scuotersi dal dormiveglia o forse per darsi coraggio, nel momento in cui questo le mancava. Ho un'idea: se è vero quello che si dice, perché non provi anche tu? lo fanno tutti ormai questo benedetto viaggio in America; perché non lo fai anche tu? Tentare non nuoce, si dice". "E poi, aggiunse, il viaggio, sappilo bene, non lo faresti da solo: insieme con te ci sarebbero almeno altre tre persone: la Madonna del Carmine, io e Coletto, tuo fratello. Saverio, no. Saverio deve stare qui per dare una mano a tuo padre". Altro non disse e riprese a sonnecchiare. 
Fuori, intanto, si faceva sempre più buio e la "Montagna", sibilando, seguitava a pungere e a filare. 
Il tempo di approntare un bagaglio purchessia e di prendere gli ultimi accordi, poi il "traìno" di famiglia, il carro agricolo tuttofare di tata Giovanni prese a bordo uomini e cose e all'alba, per tempo, come sempre, era già alla stazione ferroviaria, dove scaricò due giovani sui vent'anni, due valigette di cartone, un diluvio di lacrime e ...tante speranze. 
Scene da primo Novecento, si dirà, ma anche scene da ultimo Novecento: la Storia dell'Umanità dolente è sempre la stessa, non cambia mai. 
Un lungo viaggio su un treno fumoso e nero portò i nostri due emigranti in quel di Napoli, al porto di Mergellina. Qui li accolse una vecchia carretta di mare, che salpò furtiva sull'imbrunire di un giorno piovoso e triste, mentre nelle vie e sulle scene dei teatri partenopei risuonavano patetiche e struggenti le note di una bellissima, celebre canzone. 
Trenta, quaranta giorni di viaggio, lungo, interminabile, disumano, inenarrabile, più da bestie che da uomini ­ ci si scandalizza tanto oggi dei viaggi degli albanesi o dei curdi o dei marocchini, ma non si prova alcuno sdegno al ricordo dei vergognosi trattamenti riservati a questi nostri infelici "cercatori di lavoro" ­ poi, finalmente lo sbarco, l'odissea, il calvario in terra straniera, a migliaia e migliaia di chilometri di lontananza. 
Nel “bailamme” di New York, approdano quasi tutti qui i nostri connazionali, tra gente d'ogni lingua e colore e religione, dentro veri e propri formicai umani, dentro "street, ave" e sterminate campagne dell'immensa America. 
Ecco, sono piovuti qui, proprio qui, i due rampolli di mamma Maria, Pasqualino e Coletto! Sono venuti qui, in cerca di lavoro, e di fortuna, e di futuro. Li troveranno? Chissà!
Nel crogiolo d'America si saggiò l'oro, tutto l'oro dell'Italia povera.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, sempre sudando e lavorando sodo, da mane a sera, sempre centellinando e risparmiando, con esasperazione eccessiva, con il senso pieno del sacrificio, che solo la gente di casa nostra conosce e sa imporsi, con la voluttà del risparmio, che solo quando è costante e sostanziosa dà, come diede, frutti sapidi e copiosi. 
Costavano (oh se costavano!) quei frutti, ma riempivano di orgoglio. Lo sapeva anche Pasqualino, che diceva: "Se tu spezzassi, se tu riuscissi a spezzare un "cent”, sicuramente ne vedresti uscire... sangue: il sangue del nostro lavoro". E non esagerava. 
Quando, un giorno, il peso della stanchezza si fece sentire, allora anche la solitudine cominciò a rendersi insopportabile, la nostalgia a farsi struggente, ardente la brama del ritorno, acuto il desiderio dei tramonti e delle stelle lasciati laggiù, al paese, in Puglia, carezzevole il sogno di metter su famiglia, di ampliare l'azienda avìta, (avuta cioè in eredità dagli avi) con nuovi appezzamenti, dove che fosse, al Macchione, al Capitolo, a Diasparre, a Parco Casa o La Cattiva, non importa se da spietrare, da sgramignare, da rifare di sana pianta. Divenne allora necessario, per tutti ormai, il ritorno in famiglia. Anche se per poco. E tornarono, anche loro, ai patrii Lari, i forti Pasqualino e Coletto con tanti progetti e tante speranze da realizzare. 

VENNE LA GUERRA, LA GRANDE GUERRA


Si innamorò e sposò Luicia Guglielmi. 

Poi, venne la guerra, la "Grande Guerra"! Subito arrivò la cartolina precetto, la chiamata alle armi o il richiamo. Prima dei ventenni, poi dei trentenni e oltre. Infine dei diciottenni (classe '99, classe di ferro). E fu il turno anche di mio nonno Pasqualino, che veleggiava tranquillo verso la piena maturità. Richiamato, lui non ne fece un dramma, non oppose ostacoli e furbizie. 
Soldato fedele e disciplinato, reindossò con orgoglio il glorioso grigioverde, ritrovò l'ardore dei giovani anni e, in silenzio, disciplinatamente, raggiunse il reparto cui l'avevano destinato, il 271° Btg Milizia Territoriale, dislocato sul fronte Macedone, tra l'Albania e la Grecia. E lì restò due lunghi anni, senza mai chiedere o mendicare licenze e permessi, pago di sentirsi unito alla famiglia messa su da poco dalle lettere o cartoline che il comandante del suo reparto molto volentieri vergava per lui analfabeta. Col tempo il tarlo della nostalgia cominciò a roderlo, il desiderio degli affetti perduti a tormentarlo. Scalpitò, presentò le sue ragioni, venne accontentato con una lunga licenza premio. A casa trascorse giorni indimenticabili che lo rinfrancarono e lo resero sommamente felice, anche perché così sentiva appagato quel suo, più volte rimarcato negli scritti, desiderio di guardare in faccia e di stringere a sé il suo rampollo, il suo “Giuannìnn" (mio padre), come lui lo chiamava, calcando la voce sull'ultima “i”. Consumata la licenza, lo aspettava il rientro in sede e a quello si preparò con animo sereno, per nulla intimidito dalle notizie che circolavano e dalle insidie nascoste nel braccio di mare tra l'Italia, l'Albania e la Grecia. I rischi e i pericoli ch'egli realmente correva non sfuggivano, però, a chi gli voleva più bene, la moglie, la quale, ancor prima che il consorte si rimettesse in viaggio, nulla tralasciò perché il marito si convincesse ad escogitare, sull'esempio altrui, il mezzo idoneo a farsi dichiarare inabile al servizio militare. Invano. "No, fu la sua risposta, devo tornare al reparto"! E tornò. 

IL RITORNO AL FRONTE

Il giorno stabilito, infatti, riabbracciata la moglie, stretto forte forte a sé il figlioletto, data un'ultima fuggevole occhiata al suo piccolo mondo, fermo e deciso come sempre, si rimise in treno e in poche ore fu a Taranto. Era qui la nave che doveva traghettarlo in Grecia, e di qui, in Macedonia. Bella, nuova, sicura. Fatta per infondere coraggio, al solo vederla. 
"Restai con lui circa due ore, raccontò tra le lacrime il cognato Vito (Minz' mon'c), marito di Domenica, allora sottufficiale in servizio presso l'ufficio imbarchi e sbarchi della Stazione marittima della Città dei Due Mari ­ quando fu l'ora della partenza della nave, lo accompagnai fino alla scaletta. Al momento di lasciarci, lui mi si fece più vicino e, stringendomi forte a sé, "Vito, mi disse con voce velata di sconforto e di tristezza, mi vorrei sbagliare, ma ho tanta paura ed un brutto presentimento". 
Furono le ultime sue parole. Il preannuncio di una tragedia imminente! Era l'alba del 6 ottobre. Era scritto.

IL SOMMERGIBILE TEDESCO UB-48, CLASSE UB-III
  • Nome: UB-48
  • Ordinato: il 20 maggio 1916
  • Costruttore: Blohm & Voss, Amburgo
  • Costo: 3,276,000 Papiermark tedesco
  • Numero di costruzione: 293
  • Varo: 6 gennaio 1917 
  • Completamento: 11 giugno 1917
  • Fu affondato a Pola il 28 ottobre 1918 in seguito alla resa dell'Austria-Ungheria.
  • Dislocamento: 508 tonnellate in superficie, 641 tonnellate in immersione;
  • Lunghezza: 55.30 m;
  • Larghezza: 5,80 m;
  • Scafo immerso: 3,68 m.
  • Propulsione: 2 × alberi di trasmissione - Motore diesel a due cilindri a 2 tempi MAN 2x, 1.085 bhp (809 kW) - 2 × Motori elettrici Siemens-Schuckert, 780 shp (580 kW);
  • Velocità:13,6 nodi in emersione, 8 nodi in immersione;
  • Autonomia: 10.400 mi a 6 nodi in emersione
  • Immersione di 55 nmi a 4 nodi;
  • Profondità di prova: 50 m;
  • Complemento: 3 ufficiali, 31 uomini;
  • Armamento: Tubi lanciasiluri 5 × 50 cm (19,7 pollici) (4 a prua, 1 a poppa) per un totale di 10 siluri; Cannone di coperta 1 × 88 mm;
  • In servizio presso la II Flotiglia di Pola dal 2 settembre 1917 al 28 ottobre 1918;
  • Comandante: Oblt.z.S. Wolfgang Steinbauer;
  • Operazioni: In 9 pattugliamenti furono affondate 36 navi mercantili per 110.095 tsl e 8 navi mercantili danneggiate per 25.113 tsl; 1 nave da guerra danneggiata per 18.400 tonnellate.





Il sommergibile UB-48 della 1^ Guerra Mondiale apparteneva alla classe UB III della marina imperiale tedesca “Kaiserliche Marine”. 

Fu commissionato alla Marina Imperiale tedesca l'11 giugno 1917 come SM UB-48. Fu quindi assegnato alla base navale di Pola e in seguito alla II Flottiglia di U-boat del Mediterraneo con sede a Cattaro. Il sommergibile UB-48 è stato uno dei più famosi U-boats in attività nel Mediterraneo.  Al battello fu assegnato il numero U-79 dalla Marina Austro-Ungarica. Fu affondato a Pola dopo la resa dell'Austria-Ungheria il 28 ottobre 1918. Era un sottomarino di tipo tedesco UB III e fu ordinato data 20 maggio 1916 e costruito dai cantieri Blohm & Voss di Amburgo. Dopo meno di un anno di costruzione, fu varato ad Amburgo il 6 gennaio 1917. Ai comandi dell’UB-48 fu assegnato il Comandante Wolfgang Steinbauer. Come tutti i sottomarini Tipo UB III, l'UB-48 trasportava 10 siluri ed era armato con un cannone da 88 mm.  L'UB-48 aveva un equipaggio di 3 ufficiali e 31 uomini e aveva un’autonomia di 9.090 miglia nautiche; aveva un dislocamento di 516 t in superficie e 651 tonnellate in immersione. I suoi motori gli permettevano di navigare in superficie a 13,6 nodi e ad 8 nodi in immersione. Il sottomarino condusse nove pattugliamenti e affondò 32 navi durante la guerra per una perdita totale di 104.488 tonnellate di stazza lorda (GRT) e un cacciatorpediniere.  In data 4 ottobre 1917, il sommergibile comandato dal Oblt.z.S. Wolfgang Steinbauer, affondò il piroscafo “Città di Bari”, a bordo del quale trovò un tragico destino mio nonno paterno Pasqualino Vernì, soldato del “271° Battaglione della Milizia Territoriale”, dislocato sul fronte Macedone, al quale faceva ritorno dalla licenza durante la 1^ Guerra Mondiale.

PORTO DI TARANTO – MAR PICCOLO

Giovedì 4 ottobre 1917: Aria serena, giornata mite e piena di sole, che fa ben sperare; una bella giornata ottobrina. Il solito movimento del tempo di guerra, piuttosto ordinato e circospetto; il solito andirivieni tra le banchine del gran porto tarantino. Navi alla fonda, navi che vanno, navi che vengono; mercantili o da guerra. Ultimi controlli per i passeggeri pronti all’imbarco.
Attorno ad una, in particolare, ferve sin dal mattino un’insolita attività: si stanno mettendo a punto le ultime cose: fra le quali il funzionamento di un cannoncino da 76 m/m, di cui essa è stata dotata da poco; si stanno caricando le poche mercanzie, imbarcando, alla spicciolata, senza fretta alcuna, i pochi passeggeri, tutti militari, per la vicina Macedonia, via Grecia. E’ il piroscafo “Città di Bari”.



IL PIROSCAFO “CITTA’ DI BARI”

Lo comandava un giovane ma esperto lupo di mare, un barese doc, credo, probabilmente parente stretto del defunto Pantaleo Castellano, un coraggioso di poche parole, concreto, essenziale, il capitano L. Castellano, coadiuvato da un eccellente equipaggio, composto, in gran parte, di pugliesi, se non di baresi – i Violante, p.e., i De Santis, i De Tullio, i Cassano, gli Introna, i Bottalico, i Bellomo, per dirne qualcuno. Chi ne volesse conoscere tutti i nomi, uno per uno, può scorrerne gli elenchi che noi alleghiamo in questo volume, sez. Documenti. Prima dello scoppio della “Grande Guerra” il “Città di Bari” aveva solcato con dignità e onore l’Adriatico e lo Jonio, soprattutto, attivamente partecipando ai traffici commerciali che si svolgevano nei due mari e tenendo ben collegate tra di loro le sponde che ne erano bagnate. Con l’entrata in guerra del nostro Paese, era stato requisito e, armato di cannone, dopo aver partecipato alle operazioni di salvataggio, da parte della Regia marina, dell’esercito Serbo-Montenegrino e di trasporto, da S.Giovanni di Medua a Brindisi, dei membri del governo slavo e del tesoro statale (come provano e documentano fonti italiane e britanniche pubblicate dalla Rivista Marittima del gennaio 2003, che qui di seguito vi mostriamo), veniva adibito ad “ausiliario” della Regia Marina Militare, nel servizio-postale e passeggeri, con partenza da Taranto, al giovedì, sulla linea Taranto – Gallipoli – Corfù – Patrasso.
Il "Città di Bari” era una gran bella nave della Marina Mercantile Italiana, nota al vasto pubblico per i grandi servigi resi al Paese nell'ambito del trasporto marittimo; non di grosso tonnellaggio, ma solido, capace, affidabile; un gioiello di tecnica e di modernità; il fiore all'occhiello della Società di Navigazione cui apparteneva. Varata nel 1913, poco prima dello scoppio della Grande Guerra, aveva solcato con onore e dignità l'Adriatico e lo Jonio, attivamente partecipando ai traffici commerciali che si svolgevano nei due mari e tenendo ben collegate tra loro le sponde che ne erano bagnate.  Con l'entrata in guerra del nostro Paese, era stato requisito ed armato e, all'epoca dei fatti, veniva adibito a nave ausiliaria della Marina Militare nel servizio infrasettimanale sulla linea Taranto-Gallipoli-Corfù-Patrasso.


LA PARTENZA DA TARANTO

Lasciata Taranto nel pomeriggio di giovedì 4 ottobre, il "Città di Bari" giunse a Gallipoli (l'antica Καλήπολις, o "Città Bella", fiorente centro commerciale affacciato sullo Jonio, a 38,5 Km. da Lecce), nelle prime ore della sera dello stesso giorno. Era solo, senza scorta, avendo a bordo, oltre all'equipaggio civile composto di 40 persone e all'equipaggio militare di 11, soltanto 37 (o 35?) passeggeri militari del Regio Esercito (c'era tra questi il padre di chi scrive, Pasquale, soldato del "271° Btg. Milizia Territoriale", dislocato sul fronte Macedone, al quale faceva ritorno dalla licenza) e della Regia Marina ed un carico di 130 tonn. di viveri e materiali vari. "Quando il "Città di Bari" giunse a Gallipoli - narra nel suo interrogatorio l'Ufficiale di Porto - mi recai a bordo della nave, e il Capitano di questa, Luigi Castellano, mi chiese se il Piroscafo "Imera", silurato due giorni prima, avesse avuto la scorta. Alla mia risposta negativa disse: "Chissà se per noi vi sarà la scorta". Risposi che non sapevo, ma che però non lo credevo e, quindi, lo informai che i passeggeri da imbarcare superavano le cento unità. Al mattino seguente informai il Comandante di Spiaggia delle parole scambiate col Capitano a riguardo della scorta. Il Comandante Stranges mi rispose di non avere facoltà di dare la scorta, ma che, se il Capitano l'avesse ufficialmente richiesta, avrebbe telegrafato a Taranto per l'autorizzazione. Mi recai nuovamente a bordo e riferii quanto sopra al Capitano, ma questi mi rispose che non voleva chiedere scorta per non far credere di avere paura. Se queste non furono le sue precise parole, certo il senso ne era equivalente.
Rimasi a bordo del Piroscafo tutto il pomeriggio e verificai se tutti avessero il salvagente e se lance e zattere fossero a posto, libere da impedimenti ed in numero sufficiente, del che ebbi anche assicurazione dal Capitano.  Non mi occupai, perché non di mia competenza, del ritiro delle armi dei passeggeri; per quanto mi consta, ciò non fu fatto né dell'Autorità di Pubblica Sicurezza, né da quella di bordo, né dagli Agenti della Regia Dogana.  
Ritornai a terra mezz'ora prima della partenza e riferii al Comandante di Spiaggia che il Capitano non aveva creduto di chiedere la scorta.
Il "Città di Bari" partì regolarmente alle 18h,30m. A tenore delle norme vigenti, non feci alcun telegramma di partenza, però, in vista del rilevante numero di passeggeri, telegrafai subito ai Servizi Logistici che il Piroscafo era partito con 400 passeggeri".
"Imbarcati, dunque, 405 passeggeri e come merci del vino e dei tessuti di cotone - scrive il Contrammiraglio Paladini  - il Piroscafo lasciava, alle ore 18.30 del 5 ottobre, il  porto di Gallipoli...
...La partenza del Piroscafo fu telegrafata al Ministero, al Dipartimento di Taranto ed l Comando in Capo dell'Armata di Taranto, con queste parole: "Piroscafo Città di Bari mare"  -  Nessun telegramma fu fatto invece ai Comandi Navali di Brindisi, Valona e Corfù", perché, - si giustifica lo Stranges nel suo interrogatorio - nessun ordine di tale specie avevo per quanto riguarda la partenza per Corfù".  E nessuna scorta fu data al Piroscafo, perché, - sempre a dire dello Stranges - non avevo alcuna istruzione di fornire scorta per interi viaggi, perché il Città di Bari è partito dopo il tramonto, ma, soprattutto, perché il Capitano del Piroscafo si diceva riluttante a dar mostra di temere il pericolo".
Trascorsero tranquille - scrive sempre il Paladini - le prime ore della notte": notte di luna - ricordano i superstiti -; aria fosca; forte vento di E-NE che rendeva il mare agitato; visibilità scarsa.
Ma, attorno alla mezzanotte, tra le 23h,45m e le 24h, il marinaio Albano - che era di guardia al cannone, e qualche altro, videro passare di poppa la scia di un siluro.  Avvisato, il Capitano della nave, si portò immediatamente sul posto, ma, non trovando conferma del lancio prospettatogli e non scorgendo alcun segno della presenza del sommergibile siluratore - (probabilmente perché questo si é affrettato a far perdere traccia di sé) - credette ad un abbaglio e tutto finì lì.
Invece abbaglio non era e l'Albano e gli altri avevano visto giusto.
E la conferma ce la dà il sopravvissuto - italiano o straniero? membro dell'equipaggio del Città di Bari o anonimo passeggero? - fatto prigioniero e condotto poi a Pola, del quale, però, la fonte austriaca non rivela il nome per ragioni di riservatezza.
Alle Autorità di marina che lo interrogavano, il sopravvissuto anonimo raccontò che quel primo lancio il sommergibile siluratore  lo effettuò esattamente alle 2h,30m del mattino del 6 ottobre. ("Am 6 Oktober um 2 Uhr 30' a.m.", è scritto nel documento precitato) e che il "Città di Bari" rispose all'attacco sparando alcuni colpi di cannone - ("Antwortete mit seinen Kanonen").
Veri o falsi, in tutto o in parte, questi particolari, sta di fatto che un primo siluro fu effettivamente lanciato contro il piroscafo italiano e che, probabilmente, l'U boot tedesco, andato a vuoto quel suo primo tentativo di siluramento, temendo la reazione del "Città di Bari", sospese momentaneamente l'attacco per riprenderlo più tardi.
L'allarme, perciò, rientrò;  la calma ritornò a bordo e tutti tirarono un sospiro di sollievo.
"L'aria era fosca ed un forte vento di E, NE rendeva il mare agitato. Le 4 erano passate da circa un quarto d'ora - racconta il 2° Ufficiale del Piroscafo 94 - e mi trovavo in sala nautica allorché udii lo scoppio...
"Il tempo era quasi nuvoloso, tirava un vento moderato da scirocco ed il mare era mosso. Si diceva anche che era possibile qualche sorpresa all'alba.  Alle 4h,10m circa, udimmo una forte esplosione"...- ricorda il 1° Ufficiale.
 "Mi trovavo sul primo cassero, - narra a sua volta il direttore di macchina - passeggiavo tra l'osterigio di macchina e la sala nautica;  erano passate da poco le 4h,00m allorché udii un colpo metallico fortissimo e vidi sollevarsi dall'osterigio di macchina un'alta colonna di acqua e vapore. Il siluro aveva colpito il bastimento proprio fra la caldaia e le macchine, che si fermarono immediatamente, insieme naturalmente alle due dinamo.  Il bastimento rimase all'oscuro".
"Svegliato dall'esplosione, - racconta, tra l'altro, Luigi Aleotti per prima cosa corsi abbasso nella stazione R.T. che si trovava proprio nel corridoio che univa la prima con la seconda classe: vidi tutti gli strumenti per terra e capii che la stazione non poteva più funzionare.  In coperta la gente si agglomerava intorno alle sei imbarcazioni.  Vi erano anche molte zattere, circa 16 in legno e sei od otto in ferro. 
Il Comandante era sulla dritta e il capo timoniere sulla sinistra; ambedue cercavano di ottenere un po' di calma, per effettuare ordinatamente il salvataggio, ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei Greci: gettavano gli zatteroni a mare senza ritenuta, facevano capovolgere le lance, venivano alle mani..."
"Intanto il bastimento si sbandò un poco a dritta, molto a sinistra, e quindi si immerse per circa due metri, rimanendo orizzontale.  Una ventina di minuti dopo il siluramento - ricorda ancora il 2° Ufficiale 98 -, arrivò la prima granata che cadde una ventina di metri a sinistra del bastimento.  La seconda, credo colpisse il cannone di poppa.  Seguirono altri colpi.  Appena cominciato il fuoco, non fu possibile impedire alla gente di gettarsi a mare raggiungendo le zattere che, filate e senza ritenute, s'allontanavano dal bordo."
"Svegliato dall'esplosione, - riferisce a sua volta il sottocapo cannoniere 99 - corsi subito vicino al pezzo, ma non vidi nulla.  Dopo un po' scesi dalla tuga per cercare il capo timoniere ed il Comandante.  Trovato il capo timoniere, andai con lui ad aiutare a mettere le zattere in mare.  
Mentre facevo questa operazione, ho udito il primo colpo di cannone e visto il sommergibile al traverso a sinistra.  Corsi subito a poppa, ma fui fermato dai Greci che non volevano si sparasse, temendo che il sommergibile, per rappresaglia, sparasse sulla gente a mare...
...Prima di buttarmi a mare - a bordo eravamo rimasti solo io e il sottocapo francese AUGER Renè - vidi i Greci che facevano segno al sottomarino con una camicia, affinché non sparasse più.  Mi precipitai addosso e strappai loro la camicia...
All'ultimo momento i Greci ammainarono pure la bandiera italiana".
"Restai a bordo fin quasi all'ultimo - ricorda VALENZO Pietro.  Vidi all'inizio del bombardamento che dei Greci facevano segnale al sommergibile gridando: "Costantino".
"Dopo una mezz'ora - racconta il marinaio cannoniere FAVAZZA Salvatore - il sommergibile emerse a circa 200 metri dalla poppa e cominciò a bombardare.  Due colpi raggiunsero il fumaiolo ed uno colpì in prossimità della stiva prodiera.  Durante il bombardamento (a base di granate incendiarie)  solo io rimasi in prossimità del cannone. Poco dopo, però, me ne andai per mettermi al riparo.  Il sottomarino, allora, si affiancò a dieci o quindici metri di distanza e mi si domandò in buon italiano dov'era il Comandante.  Gli risposi che non c'era..."
"Nel frattempo il sommergibile si era avvicinato al Piroscafo e aveva sbarcato il radiotelegrafista dell'IMERA su una zattera - riferisce il 2° Ufficiale -.  
Tirò una cannonata sulla prua del Piroscafo al galleggiamento determinando l'affondamento".
Colpito a morte, senza preavviso, da quindici granate incendiarie, l'ultima delle quali  al bagnasciuga, tutte sparate tranne l'ultima, mentre la gente era ancora a bordo e cercava in tutti i modi e con tutti i mezzi di convincere gli artiglieri di bordo a non sparare contro il sommergibile e, alzando bandiera bianca e ammainando la bandiera italiana, quelli del sommergibile a non sparare sui passeggeri ancora presenti sulla nave, il "Città di Bari", lentamente affondò in fiamme - "...endlich sank das schiff in flammen”. Trascinando con sé, in fondo al mare, a 39° 20' Lat.N., 19° 23' Long.E. - rotta 107° magnetico da un punto 15 miglia a sud di S.Maria di Leuca - al largo dell'isoletta di Paxòs o Paxì, a sud di Corfù, nel mentre in cielo e sul mare già albeggiava e si scatenava un furioso temporale che durò tutta la notte. Sfasciate le imbarcazioni per l'imperizia dei Greci che se n'erano impadroniti e che pagarono con la vita l'atto precipitoso, le zattere di bordo raccolsero i rimanenti passeggeri e affrontarono il viaggio della salvezza, che per i più non giunse mai. Ma, quasi a rendere più intricata  e drammatica la fase finale di questa angosciosa vicenda, ecco, fosco ed oscuro, il dramma personale del coraggioso sfortunato Capitano: non é presente fisicamente, come noi ci aspetteremmo, alla morte della sua nave. Eppure, subito dopo l'esplosione del secondo siluro, molti lo hanno visto, lo hanno notato, mentre...
...si precipitava fuori (della cabina di comando) gridando: "Salvagenti a posto"! - deposizione del secondo ufficiale -;
...cercava di organizzare il salvataggio e infondere un po' di calma" - (direttore di macchina) - ;
...sulla dritta cercava di ottenere un po' di calma per effettuare ordinatamente il salvataggio..., ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei greci – ...diceva all'artigliere: "Sono Capitano e la mia nave è stata già silurata. Non faccia fuoco, altrimenti sparano contro le zattere!"  - (primo timoniere) -;… ...vedendo la nave sbandare a dritta in modo che giudicò pericoloso, ordinava: "Gente in riga e zattere e lance a mare!" - (primo ufficiale) -;...
Dopo tutto questo, il Capitano non si vede più, esce di scena, scomparendo proprio mentre ci si aspettava di vederlo, nel solco della tradizione marinara, fermo al suo posto di comando, andare coraggiosamente a fondo e morire insieme con la sua nave.
Secondo un testimone oculare, egli si gettò a mare.  Infatti, il primo cameriere testimoniò: "Mi gettai a mare dopo il Comandante dal boccaporto n.2".
Allora, gettatosi a mare, è per caso affogato? o, piuttosto, è sembrato gettarsi a mare, mentre, invece, vi cadeva accidentalmente probabilmente ferito a morte da..."quel colpo di rivoltella sparatogli contro dal basso da uno sconosciuto?", come racconta nella sua deposizione il 2° Capo timoniere?.
Non lo sapeva chi gli stava dattorno, non lo sappiamo nemmeno noi.
Se, però, dobbiamo dar credito alla fonte austriaca, il capitano Castellano sarebbe morto di morte violenta, ucciso, con altri, durante la sommossa scoppiata a bordo del piroscafo in seguito alle prime cannonate sparate dal sommergibile.
Vera o falsa, questa versione, verosimili o inventati questi particolari, il mistero resta e ci è difficile svelarlo.
Quando, verso le ore 5.30 del mattino, la luce del giorno scese a illuminare questa parte del Mar Jonio, sulla scena del disastro non c'era più nulla ormai: non la snella mole della bella nave barese, sprofondata con tutto il suo carico negli abissi;  non la sagoma scura del sommergibile tedesco, apparentemente assente, ma, di fatto, aggirantesi ancora minaccioso in quei paraggi;  non le scialuppe di salvataggio, che, pur stracariche di naufraghi, vagavano sempre più lontane, alla deriva, facile preda delle onde, delle correnti e della forza dei venti.
"Nelle zattere si trovarono mescolati italiani e greci, che, numerosi, usarono soprusi e violenze, pestando coi piedi e ferendo di coltello e rasoio i nostri connazionali ed altri che si affollavano intorno alle già gremite imbarcazioni."
Dura, lunga e faticosa fu la lotta dei naufraghi in una situazione oltremodo loro avversa, folle e vana la speranza di veder arrivare da un momento all'altro il soccorso liberatore: Corfù non sapeva; Taranto nemmeno. Finché, poi, qualcuno non darà l'allarme.
Nella notte, ad appena poche ore dall'affondamento, qualcuna delle zattere giunse anche a vedere in lontananza la terra della salvezza, ..."ma il forte mare ci impedì assolutamente di avvicinarci a Fano, racconta un sopravvissuto.
Nessun mezzo di soccorso videro i naufraghi durante tutto il giorno 6.
"Verso il mezzogiorno del 7 - appena due ore prima che fossero scoperti e tratti in salvo - calmatosi ormai il mare, abbiamo visto una leggera imbarcazione, una specie di caicco, contenente un greco. Un greco che era con noi allora abbandonò la nostra zattera e andò a parlare con quello.  Ritornò poco dopo dicendo che quella imbarcazione non poteva salvarci ”.
“ Verso le prime ore del pomeriggio (del 7) apparve l'ESPERO ”.
“ Potevano essere le 2.00 del pomeriggio, allorché avvistammo un caccia ed un rimorchiatore"...credo che la nostra zattera sia stata l’ultima ad essere recuperata dall'ESPERO ”.
“ Alle 01.30 del giorno 7 - racconta il Comandante della Settima Squadriglia - ricevetti a Taranto un fonogramma che mi ordinava di accendere i fuochi per eseguire una missione.
Ricevetti solo verso le 3.00 le istruzioni scritte che dicevano: 
di percorrere la rotta del Città di Bari che non era ancora giunto a Corfù.  Dovevo continuare le ricerche fino al tramonto e passare la notte a Gallipoli.
Partii alle 3.30 da Taranto con una velocità di 20 miglia e seguii la rotta ordinatami... Avvistai la prima zattera verso le 2.05 / 2.10 del pomeriggio.
Questa conteneva tre o quattro uomini tra cui il 2° Ufficiale... Siccome sapevo che pure alla ricerca dei naufraghi si trovavano i C.T. "Pilo" e "Bronzetti", feci loro un radiotelegramma, comunicandogli le coordinate geografiche del luogo ove mi trovavo.  Infatti, dopo appena un quarto d'ora, essi arrivarono.  Vennero altri due idrovolanti francesi che indicavano la posizione delle zattere.  Continuai il salvataggio sino alle 16.45, raccogliendo ben 98 persone.  Tra i salvati ve n'erano 97 della Città di Bari e uno R.T. dell' "IMERA".  Avendo visto che vi erano dei feriti da coltello, ordinai il disarmo generale.  Un greco, DEMETRE PRIFTIS, consegnò un rasoio insanguinato. A Gallipoli tutti i naufraghi ebbero assistenza.” A loro volta, il "Pilo" e il "Bronzetti", ne recuperarono altri 58 che provvidero a trasportare all'ospedale di Corfù.   "Di 493 persone che erano a bordo al momento della partenza da Gallipoli, - conclude malinconicamente nella sua relazione il Comandante della Divisione Base di Taranto - solo 156 si erano salvate e pure é certo che lo scoppio non può aver ucciso che, al massimo, una diecina di persone e che qualche altro può aver trovato la morte per aver battuto qualche forte colpo nel gettarsi in mare, forse tra questi ultimi il Capitano del piroscafo, del quale non si riuscì ad avere alcuna notizia dopo l’affondamento."

L’EPILOGO E L’IMMANE TRAGEDIA

Dunque, terminate le operazioni di ricerca e fatta  la conta dei superstiti, all'appello risposero soltanto 156 persone - (160, secondo la fonte austriaca). E le altre 337 o 368 o 560, o forse più? (se dobbiamo credere alla predetta fonte straniera). Disperse. Morte.  Tutte morte.  Tutte finite in fondo al mare. 


Precipitatevi non dalla nave che le trasportava, ma dalle scialuppe di salvataggio, in cui erano riuscite, bene o male, a trovar posto, prima che il “Città di Bari” affondasse.  Precipitatevi da sole. Lasciatevisi andare così, con semplicità, quasi con un dolce senso di abbandono e di rassegnazione nel proprio destino. Uccise dagli stenti, dal maltempo, dalla violenza di prepotenti compagni di viaggio, dagli scoraggiamenti, dalla lunga attesa e permanenza in mare - durata, è incredibile, un giorno e mezzo! - Ce ne parlano diffusamente, nelle loro deposizioni, i pochi fortunati superstiti. Basti leggere, come ha fatto l’orfano che scrive, - “un groppo alla gola, l’occhio inumidito dal pianto, il cuore in subbuglio” - gli scioccanti racconti che i dichiaranti fanno alle autorità giudiziarie.
Vi trovi tutto: la fatalità, la casualità, la logica della guerra, l'imprevedibilità e l'inevitabilità degli eventi; l'impotenza dell’uomo nella lotta contro le forze della natura; l'insano egoismo che sempre alberga nell’animo umano, nella buona come nella cattiva sorte: l’assenza, o la mancanza di spirito di solidarietà; ma anche, e soprattutto: l’incomprensione ed il malinteso; la leggerezza; l’indifferenza; l’apatia; la negligenza “nell’adempimento dei doveri del proprio ufficio”; l’inettitudine di alcuni comandanti. Doveri, che, se fossero stati compiutamente ed opportunamente osservati e responsabilmente adempiuti, avrebbero potuto almeno contenere, voglio dire, limitare, se non proprio ridurre al minimo, le proporzioni di una "catastrofe annunciata" sin dalla partenza della nave da Gallipoli, e che, invece, omessi e inosservati, furono la causa scatenante della morte di un si alto numero di persone.

Oltre 400 certamente. Forse 500. Forse anche di più. Un vero disastro. 

Non delle stesse proporzioni di quello lamentato nell’affondamento del “TITANIC” (1912), - ricordate? - ma pur sempre grande, enorme, terrificante, impressionante, raccapricciante, certamente di origine colposa. E di scalpore e di impressione ne fece tanta il malaugurato evento che ne rimasero giustamente preoccupati politici e militari, considerato anche e soprattutto, il grave momento in cui esso avveniva - si era, infatti, in un mese “ caldissimo ” della guerra in atto: nel fatale ottobre ‘17 -. E, per far piena luce e chiarezza sulla triste vicenda e tacitare le coscienze turbate, usando prudenza, cautela e circospezione, il Ministero della Marina, aprì in tutta fretta un’ampia inchiesta: furono sentiti, in primo luogo i sopravvissuti (italiani e stranieri): i membri dell’equipaggio, gli artiglieri, i radiotelegrafisti, i passeggeri imbarcati, tutti i veri protagonisti insomma della vicenda. Furono ascoltati inoltre, come parte in causa, indiziati di reato, il Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Taranto, il Comandante in Capo dell’Armata R.N. “Trinacria”, il Comandante della Divisione Base di Taranto, il Comandante della Divisione Navale dello Jonio R.N. “Città di Catania”, il Comandante di Spiaggia di Gallipoli, il Commissario militare del piroscafo “Città di Bari”, dei quali taccio - per carità di Patria - nomi e cognomi.
E, dopo due mesi circa di minuziose indagini, acclarata ogni cosa e individuati i veri responsabili del disastro, il Tribunale Militare emanò la sua sentenza: inflisse le pene che ciascuno si meritava, ma con mitezza, senza infierire contro nessuno. Le sanzioni e i provvedimenti presi restarono però nel chiuso degli uffici, ammantati di riservatezza, mai svelati. Solo pochi conobbero le conclusioni della Giustizia. Esse non furono mai rese pubbliche “per l’impressione” si disse.  
Come non venne mai reso pubblico il numero preciso delle persone scomparse, tutte insieme, in uno stretto braccio di mare:
morte,
a due passi dalla salvezza, pensate!
Sotto i nostri stessi occhi.
Con la nostra stessa complicità.
Come non pensare che essi, i morti, tutti quei morti, pesino, ancora oggi, sulla comune coscienza?
Le colpe, le responsabilità, stavano là e parlavano da sole e chiedevano giustizia, non vendetta, ma neppure dimenticanza.
Giunse sì la giustizia, e anche presto; arrivarono le conclusioni del Tribunale, puntuali, rapide, immediate, ma non proprio riparatrici, accompagnate, vorremmo dire, da giusto rigore morale e giuridico.  Sapevano troppo di affrettato, di condizionato, da interesse superiore, di ovattato, forse di vergognoso, da nascondere, da rinchiudere, da confinare al più presto, a doppia mandata, in fondo ai ferrei cassetti degli archivi di Stato, insieme con la verità. E le lacrime non furono mai asciugate! Sicché, una tragedia sì grande e sì grave, lentamente, fatalmente, scivolò nel dimenticatoio. Quell’«orfano», intanto, pianse la figura del padre per circa 98 anni! 
Che tristezza!

IL PICCOLO GIOVANNINO VERNI’ (1916-2014): AVEVA SOLO 20 MESI!

Riavvolgiamo velocemente la pellicola di un vecchio film “super8” e vedremo tanti piccoli lampi di luce, qualche imperfezione nelle immagini sbiadite; noteremo, però, una lagrima fuggevole sui volti degli spettatori... Tante volte avrei voluto chiedere a mio padre di scrivere l'ennesimo, ultimo “Medaglione” dei sui libri: non ho mai trovato il coraggio di chiedergli quello che era ormai uno sforzo troppo grande: quello di scrivere di suo pugno il “medaglione” della sua lunghissima, bellissima e travagliatissima vita...  Avevo il timore e la certezza di rovinare la sua giornata fatta di quotidianità, di studio, di lettura e di qualche preghiera. Oramai l'età era andata avanti inesorabilmente e spesso leggevo un velo di tristezza sul suo volto corrugato da oltre trent'anni d'insegnamento scolastico, dal sole e dalla fatica campestre. Lui non amava la morte, la detestava, non voleva parlarne mai; amava la vita, curava sempre la sua salute e la sua inesauribile Fede nell'Altissimo immergendosi spesso nella preghiera. 
Questo ricordo, è frutto di una ricerca storica da leggere e da meditare, un lavoro di approfondimento culturale ed etico-sociale sulla vita e sulle opere di alcune figure nate e cresciute con noi ed in mezzo a noi a cavallo di due secoli, passati da tempo a miglior vita, in quel di Sannicandro, loro patria nativa, ove vivevano, circondati dall'affetto dei propri cari. 
Giovanni Vernì, mio padre, era una figura complessa di padre e di insegnante, ancor tutta da conoscere e da scoprire negli aspetti più noti e meno noti del suo carattere e nei tratti più significativi del suo animo, nelle sue virtù nascoste, nelle sue doti umane, nella sua ricca spiritualità, nella sua precisa identità.  


Un insegnante di scuola media, uno storico e scrittore, un vero Agricoltore con la “A” maiuscola, che si è fatto tutto da solo, con fermezza e risolutezza.  Un “umile, onesto” servitore dello Stato, come hanno detto e riconosciuto pubblicamente varie autorità, nel triste giorno del suo solenne funerale nella Chiesa “Matrice” di Sannicandro di Bari. Un mite di cuore. Un giusto. Un uomo schivo e riservato, restío ad apparire e a mettersi in mostra. Un simbolo vivente di persona innamorata della famiglia, della moglie, dei figli e dei nipoti ed anche dei pro-nipoti, della sua piccola cittadina d'origine e della sua storia, della scuola da lui fondata e della sua seconda attività campagnola. Un generoso. Un altruista per natura, sempre pronto e disponibile con tutti, conoscenti e non. Un uomo, un uomo qualunque che amava profondamente Dio, la Famiglia, la Patria, il lavoro, la campagna amica, le sue origini, il mare, il calcio giocato (il Bari ed il Milan) e lo sport in genere, le materie letterarie, la natura. 
Un galantuomo dal tratto umano di rara sensibilità d'animo, sicuramente degno di occupare almeno un posto piccolo piccolo nella nostra memoria storica, di avere un adeguato “medaglione” nella particolare galleria di ritratti o “imagines” di inobliabili volti del passato di nostra gente, che si sono segnalate e messe in luce tra i tanti e che sono meritevoli di essere eternate nel ricordo, imitate e possibilmente emulate dalle future generazioni della nostra gente.
Di origini “CONTADINE­-PICCOLO­-BORGHESI”, venne al mondo il 16 gennaio 1916, in una famiglia di “agricoltori”, abitanti in una casa singola, su due piani, sulla sinistra della via per Cassano, proprio al centro del paese. Un nucleo famigliare, il suo, piccolo, piccolo, di poche persone, ben costumate, modeste, rispettose e religiose quanto basta, tutte di onorati sentimenti, che non fecero mancare nulla, proprio nulla a mio padre, il piccolo Giovannino: non l'affetto, non l'educazione religiosa e neppure l'istruzione nella scuola elementare della nostra città. 
Nonna Lucia, la mia nonna paterna, una donna dal carattere autoritario, dal suo canto, si coccolò a lungo il suo cucciolo, ma senza mai eccedere in malvezzi e smancerie diseducative. 
Nonno “Pasqualino”, a sua volta, un dinamico, fattivo e volitivo agricoltore e coltivatore diretto sannicandrese, voleva un bene dell'anima al suo primogenito.  La Guerra, la 1^ Guerra Mondiale, ed il dovere patrio lo separarono dalla giovane consorte e dal piccolo “Giuannin”.
Circondato da una montagna di affetto, il nostro futuro professore, crebbe sano e forte come un pesce, senza tanti grilli per la testa, buono, umile, modesto, timoroso del Signore. “Orfano” sin dalla prima infanzia del padre, andato disperso nello Jonio in seguito al siluramento del piroscafo “Città di Bari”, compì gli studi ginnasiali e liceali presso la Scuola privata di don Ciccio Saliani (a Sannicandro), il “Cirillo” e il “Flacco” a Bari e il “Rinascimento” ad Asti.  Si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università Statale “Federico II” di Napoli, e si laureò in Lettere il 9 giugno del 1941, discutendo con l’esimio prof. Giuseppe Toffanin la seguente tesi: “La Letteratura Italiana a Napoli nel decennio 1820­1830 attraverso il Giornale delle Due Sicilie”.




Chiamato alle armi, quale “volontario universitario” prestò servizio militare militando, dopo la frequenza del corso allievi ufficiali per la nomina a sergente, dal luglio 1941 al gennaio 1944, data del suo collocamento in congedo per particolari ragioni di famiglia, nella 3a Compagnia telegrafisti in approntamento per il fronte russo al seguito della Divisione Alpina “JULIA”, nel Comando della IIa Armata – Intendenza – P.M. 10 (Fiume ­ Croazia), nella 91a Compagnia Telegrafisti da inviare al Fronte di Cassino al seguito della V Armata americana.

Per la sua partecipazione alla Guerra ’40­’45 fu insignito di “doppia croce al Merito di Guerra”. 

Sposato dal 1947 con Rachele Stangarone, con lei ha vissuto per 67 lunghissimi anni di matrimonio che gli hanno dato quattro figli: Lucianna, Pasquale, Nico e Angela; e sette nipoti: Rachele, Giovanni e Matteo (di Pasquale), Giovanni e Francesco (di Nico), e Giovanni e Federica Carmen (di Angela). Un matrimonio di una durata inaudita per i nostri tempi, un matrimonio nato tra diverse avversità di natura familiare e non.  
Era da poco terminata la 2^ Guerra Mondiale e Giovanni era solo agli inizi della sua bella carriera di insegnante “precario”. Pochi sanno che in quei tempi difficili gli insegnanti ricevevano la nomina annuale e percepivano lo stipendio per il solo periodo d'insegnamento: al termine dell'anno scolastico Giovanni era solito dar fondo ai risparmi accumulati nel periodo lavorativo. Le avversità famigliari consigliarono ai due giovani innamorati di dar corso a quella che si suol chiamare “la fuitina”, o “fuga d'amore”, per porre di fronte al fatto compiuto le famiglie. Così fu.  Con pochi indumenti, qualche paio di mutande e calze per sopravvivere, Giovanni e Rachele “scapparono” a casa della zia paterna di Giovanni, zia Paolina Guglielmi.  Una zia carissima, zia Paolina, una donna forte, una donna d'altri tempi, che li accolse senza remore, li rifocillò senza problemi per diversi giorni.... 
Mio padre Giovanni amava tantissimo la sua “creatura”: la Scuola!... e, di conseguenza, amava tutti i suoi alunni. Con i professori Squicciarini e Losurdo (Jun.) partecipò alla istituzione in Sannicandro di Bari di una Sezione staccata di Scuola Media Statale, divenendone, al momento della sua trasformazione in Scuola Autonoma, primo preside effettivo (a.s. 1953 – 1954), titolare di lettere del corso A, per tutta la durata del servizio prestatovi, ininterrottamente dal 1944 al 1976, anno del suo volontario collocamento in pensione. Per quasi tutto il mese di ottobre del ’46, inoltre, il prof. Giovanni Vernì fu incaricato provveditoriale dell’insegnamento di materie letterarie nella 4a ginnasiale di un istituendo “Ginnasio sannicandrese” quale sezione staccata del barese “Q. O. Flacco”. 
Entrò nel mondo della Scuola e dell'insegnamento, sicuramente perché ne avvertiva l'attrazione e la vocazione. Traendone, però, un gran profitto che gli valse non poco e lo aiutò enormemente per affinare la sua indole alquanto impulsiva per natura, per addolcire e stemperare le asprezze del suo temperamento, apparentemente ruvido e aspro, di fatto, però, mite, generoso e benevolo: pronto e disponibile sempre a fare del bene, a compiere quei miracoli che solo lui era capace di compiere per chi era effettivamente bisognoso di comprensione. Pienamente cosciente e consapevole che, nella vita, vale molto di più la mitezza o dolcezza dei modi che la “durezza di cuore”.  Nulla tralasciò e molto si adoperò perché la sua opera ed il servizio riuscissero proficui e meritevoli di gratitudine da parte dei suoi concittadini.  Al termine della sua lunga carriera, come vedremo in seguito, Giovanni intese approfondire sempre più tutti i suoi studi scolastici e lo scibile linguistico mettendo in cantiere e sfornando senza sosta, uno dopo l'altro, i suoi bellissimi approfondimenti storico-­linguistici. Sulla nascita della allora embrionale scuola sannicandrese, Giovanni ci ha raccontato una storia sconosciuta ai più...
Giovanni ripeteva spesso e non nascondeva mai allo scrivente l'amore smisurato che lo univa indissolubilmente alla lingua italiana ed a quelle che considerava le sue radici: il greco antico e la lingua latina. E' ormai diffuso il linguaggio anglofono e Giovanni non amava tutto questo. In certi particolari settori poteva anche capirlo, vista per esempio l'evoluzione tecnologica. Ne comprendeva molto meno l'uso in ambienti politici e/o professionali, soprattutto se si parlava di discipline umanistiche. Giovanni si chiedeva spesso: “è moda o inganno?”.  Egli era molto sensibile al tema e lo riteneva degno della massima attenzione, perché lo riteneva anche questo un nostro “guaio”. Da un suo punto di vista, il guaio dei guai, la rovina delle rovine, e spiegava anche il perché.  A suo dire, c'è un uso dei termini inglesi nella lingua italiana che è sicuramente moda; c'è anche un'anglofonia tecnica dovuta allo strapotere anglosassone in certi settori. E questo, lo riteneva inevitabile: se la finanza vive e lavora a Londra o a New York, parlerà inglese e non certo spagnolo o italiano. E fin qui, di nuovo, passi pure: se a dettare legge sono loro, noi non possiamo che subire.  C'è un'anglofonia salottiera che serve anche per coprire qualche buco o qualche voragine culturale, così come una volta c'era una francofonia analoga che mascherava incapacità varie. E qui le cose cominciano un po' a complicarsi, sconfinano nel campo del vorrei ma non so e non posso, complessi, senso di inferiorità, tentativo di rivalsa, inadeguatezza e via discorrendo. A parere di Giovanni, non era proprio una bella cosa, ed era proprio chiaramente inganno e truffa. 
Appena possibile, nel periodo lavorativo e non, Giovanni, di buon ora, verso le 05,30, metteva in moto il suo bel “VW Maggiolino” rosso porpora, targato BA204836, e correva a tutta birra per i suoi piccoli poderi campestri: le “Macine”, la “Cattiva”, il “Lago Nuovo”, sulla Via di “Adelfia”.  Per tanti anni ha chiesto qualche volta il nostro piccolo aiuto: quello di mia madre e quello di tutti noi; in particolare chiedeva il nostro apporto e supporto durante il periodo della raccolta delle olive, delle mandorle e dell'Uva “Regina”....  Bei tempi!!!  Quando – oramai – l'età si è fatta incipiente e gli acciacchi sempre più pressanti, borbottando e imprecando sottovoce, alla tenera età di 90 anni ha accettato di appendere in bacheca le chiavi della sua ultima autovettura: una Renault “Clio” bianca. 
Il suo secondo amore – dopo la Famiglia e dopo i suoi quattro figli e sette nipoti – era la sua “campagna”. Tutta l'agricoltura in senso lato: l'ulivo ed i suoi frutti, che amava descrivere nei suoi libri come frutto “divino”, frutto “benedetto dal Signore”; la vite e la bellissima uva;  il mandorlo ed i suoi frutti;  gli aranci, i mandarini, le nespole, i peschi ed i suoi saporitissimi frutti... Tutti questi alberi da frutto il prof. Vernì li coltivava, li amava, li potava di persona, li concimava e li curava per lo stretto indispensabile: egli non amava i prodotti chimici e soprattutto i velenosi diserbanti. Egli era convinto – a ragione – che fossero la fonte prima della tanto temuta malattia del secolo: il “cancro”!  Alla “tenera” età di novant'anni, Giovanni ritenne opportuno non abbandonare al proprio destino i suoi campi; ha continuato a seguirli spesso di persona, facendosi accompagnare in campagna per lo stretto indispensabile e nel giusto periodo, per la raccolta dei suoi amatissimi e succulenti “fichi regina”.  Il suo albero da frutto prediletto era certamente l'ulivo, a cui dedicò un bellissimo libro...
Stenterete a crederci, da vero agricoltore qual era Giovanni, amava profondamente il mare ed anche i suoi frutti. Appena possibile, quando il lavoro scolastico glielo permetteva, raggiungeva il mare in quel di Fesca, a Bari. Amava nuotare, senza eccedere con l'allontanarsi dalla terra ferma: nuotava benissimo in acque dove poteva appiedare, rilassato quanto basta, perché diffidava sempre delle insidie del mare. Mi raccontava, tempo fa, che negli anni '30, '40, '50 tutta la sua famiglia, i conoscenti, gli amici e non, si riunivano in carovane di traini agricoli trainati da muli, muniti di tutto l'occorrente e partivano da Sannicandro per Bari: località preferite “San Francesco”, “San Girolamo” e “Fesca”.


Gli ultimi vent'anni della sua bellissima e lunghissima esistenza terrena, Giovanni li ha dedicati alla sua sezione dei “Combattenti e Reduci”, alla famiglia e al suo “hobby” preferito: la ricerca storica e linguistica.  Egli amava in particolare: la lingua italiana; la lingua latina;  il greco antico; la Storia con la “S” maiuscola; la geografia; Sannicandro!  Mio padre Giovanni si è sempre interrogato sui tanti temi della sua lunga esistenza: DIO, l’Aldilà, la vita, la sofferenza, la felicità, la malattia, il dolore, la morte, il passato, i trapassati, il futuro, il Destino.  E’ giusto, è naturale che lo abbia fatto, guai se non lo avesse fatto! Avrebbe fatto la figura di chi vive di presunzione, di chi presume di sapere tutto e invece non sa nulla. Specie quando l’interrogativo che gli si poneva rifletteva e riguardava la verità sulla esistenza in vita dei suoi stessi predecessori, così lontana, nebulosa, tutta avvolta in una fitta coltre di dubbi e d’incertezze, fonte e causa prima di tanti mali. Giovanni ha svolto con passione – per un lungo periodo del suo tempo libero ­ l'analisi e l'interpretazione “etimo­-lessico-logica­-lessico-grafica” delle voci e delle forme dialettali più significative ancor oggi presenti e ricorrenti sulla bocca della gente comune. Voci e forme viste alla luce dell’influenza esercitata su di loro dalle preponderanti tradizioni culturali greca e latina; il suo pensiero era che esse non possono non testimoniare l’origine nobile e non plebea del nostro lessico utilizzato correntemente. L’idea di portare a termine questo studio approfondito è andata gradatamente maturando, avendola vagheggiata e accarezzata a lungo, ed ha dato grande importanza ed enorme valore sociale e culturale al suo studio. Dietro tutto ciò si nasconde: l’amore per la sua terra, il rispetto per i suoi progenitori più lontani, la grande passione per gli studi filologici, sapientemente inculcatagli da valenti maestri dell’Ateneo Partenopeo…; l’inderogabile necessità di realizzare senza indugio un ambìto progetto, che aveva molto a cuore, che si trascinava dietro da una vita;  l’innato istintivo bisogno di sapere e di far sapere, di conoscere e di far conoscere, di capire e di aiutare a capire, quanto più possibile, il “PASSATO” di nostra gente e ancor misteriosa Mezardo; il vivo desiderio di dare compimento al suo “vecchio appassionato discorso” sulla nobiltà d’origine della nostra parlata popolare. Uno studio approfondito sul “PASSATO” interessante e intrigante è “come un ideale viaggio a ritroso nel tempo”, “un ritorno sui nostri passi”, “una sorta di pellegrinaggio ai santuari della nostra Vetustà”, ai segni e alle testimonianze della nostra Storia millenaria, alle innumerevoli “vestigia” della nostra gente. Giovanni lo sentiva, peraltro, come “un dovere morale”, “un atto dovuto”, volontario e consapevole, da compiere. 
Giovanni è stato testimone della Fede, la Fede con la “F” maiuscola! La Fede degli avi! Dei nostri avi! Così umile e così semplice! Così profonda e così sentita! Così salda e così incrollabile! Ed anche così antica e così testimoniata! Una Fede documentata da riferimenti certi, inconfutabili, storicamente provati, ma pur sempre databile attraverso l’attenta analisi di elementi forniti dalla tradizione popolare e dalla particolare situazione archeologica del nostro territorio. 
Da Pasquale (Pasqualino), agricoltore, e da Lucia GUGLIELMI, casalinga, Giovanni Vernì nacque a Sannicandro di Bari il 16 gennaio 1916 ed è tornato alla casa del Padre il 6 gennaio 2014.


Come già detto, partecipò alla istituzione in Sannicandro di Bari di una Sezione staccata di Scuola Media Statale, divenendone al momento della sua erezione in Scuola Autonoma suo primo preside effettivo (a.s. 1953 – 1954), titolare di lettere del corso A, per tutta la durata del servizio prestatovi, ininterrottamente dal 1944 al 1976, anno del suo volontario collocamento in pensione. 
Per quasi tutto il mese di ottobre del ’46 mio padre fu incaricato provveditoriale dell’insegnamento di materie letterarie nella 4a ginnasiale di un istituendo “Ginnasio sannicandrese” quale sezione staccata del barese “Q. O. Flacco”. Di idee politiche moderate, ma non di appartenenze partitiche, ha preso una sol volta parte alle competizioni elettorali nelle Amministrative del 1956 con la lista de “IL CASTELLO”, uscendone eletto consigliere di minoranza. 
Sposato dal 1947 con Rachele Stangarone, ha avuto quattro figli: Lucianna, Pasquale, Nico e Angela; nonno di sette nipoti: Rachele, Giovanni e Matteo (di Pasquale), Giovanni e Francesco (di Nico), e Giovanni e Federica Carmen (di Angela) e due pronipoti: Giorgio ed Alessandro.
Nell'esilio dorato di Sannicandro di Bari, circondato dall'affetto della cara consorte Rachelina, della figliola Lucianna e di tutta la famiglia, sognava sempre......: la carezza della mamma defunta, la “g­i­o­i­a” del suo papà Pasqualino che non aveva potuto conoscere, gli amici del cuore, i dolci conversari presso la casa paterna in Via Cassano, la “parca” cena con la famiglia, il pane casereccio e la focaccia di Altamura che lui apprezzava oltre ogni esaltazione, la cucina sobria della nostra terra, “i col–rizz” saporiti...., la pasta con le cime di rapa, la cicoria di campagna condita con il purè di fave ed il suo olio extra­vergine d'oliva, il calore e l'affetto silenzioso dell'immensa schiera di ex alunni (alcuni oramai ultra-­settantenni) e dei concittadini tutti.... 

Per quanto possa inciampare, un insegnante è votato a sperare sempre che con lo studio si possa modificare il carattere di un ragazzo e, di conseguenza, il destino di un uomo. Giovanni non ha eventi da consegnare alla storia: una vita dedicata allo studio, alla campagna, alla famiglia, al Signore. La sua vita confluisce in altre vite. Uomini così sono la linfa che alimenta il tessuto intimo delle nostre scuole, sono i più alti sacerdoti custodi di un templio. Uomini così continueranno ad essere una fiamma che arde e darà significato alle nostre vite.

Giovanni, “ERA MIO PADRE….”.

(Fonti delle notizie: Web, Google, Prof. Giovanni Vernì, Ambasciata austriaca, Ufficio storico della M.M., Wikipedia, You Tube)







 

Una possibile configurazione dei cacciatorpediniere di nuova generazione "DDG(X)" della US NAVY


“ SVPPBELLUM.BLOGSPOT.COM 
Si vis pacem para bellum

Il programma DDG (X), noto anche come programma Next-Generation Guided-Missile Destroyer, è un programma della Marina degli Stati Uniti per sviluppare una classe di navi da combattimento di superficie per sostituire i suoi 22 incrociatori di classe Ticonderoga e gli Arleigh Burke. 




Il programma è il culmine dell'iniziativa Large Surface Combatant (LSC) che ha seguito la cancellazione del CG(X), ridotto l’approvvigionamento dei caccia DDG-1000, 1001 e 1002 e l'eventuale necessità di sostituire gli attuali incrociatori e DDG. Le navi incorporeranno sistemi di sensori più potenti e avranno margini di spazio e peso maggiori per la crescita futura.
Con la cancellazione del CG(X) nel 2010, la US Navy ha intrapreso vari studi e programmi per il futuro del ruolo di difesa aerea svolto dagli incrociatori. Gli incrociatori costruiti sugli scafi dei cacciatorpediniere classe Spruance, avevano un potenziale di aggiornamento limitato a causa dello spazio, del peso e dei margini di potenza. Nel frattempo, l'approvvigionamento dei cacciatorpediniere classe Zumwalt fu gravemente ridotto a causa dei costi elevati e di una rinnovata enfasi sulla difesa aerea e missilistica per i caccia più grandi. Alla fine, la US NAVY scelse di potenziare i Ticonderoga e di procurarsi gli Arleigh Burke Flight III potenziati con l'AN/SPY-6 e sistemi di combattimento migliorati per integrare i Ticonderoga per la difesa aerea e missilistica. L'FSC si è evoluto nel programma Large Surface Combatant (LSC), che è diventato il DDG(X) con l'ufficio del programma istituito nel giugno 2021.




Il DDG(X) dovrà sostituire la classe Arleigh Burke, la cui ultima variante, la DDG-51 Flight III, sarà ancora in produzione oltre il 2027 e che dovrebbe rimanere in servizio nella US Navy anche oltre il 2060. L'ultimo Arleigh Burkes, sostiene Hart, "fornirà i migliori elementi del sistema di combattimento di difesa aerea e missilistica (IAMD) del mondo per il combattimento a breve termine”. La classe Arleigh Burke è considerata purtroppo carente in termini di capacità di continuare a ricevere aggiornamenti e miglioramenti, rendendo il DDG(X) un requisito improcrastinabile se la Us Navy vuole essere in grado di impiegare la nuova generazione di missili ipersonici e le armi ad energia diretta. Gli attuali cacciatorpediniere della Marina statunitense (o delle marine alleate), semplicemente non hanno i requisiti di spazio, peso e potenza elettrica per ospitarli. In qualità di “grande combattente di superficie", il DDG(X) avrà il potenziale per mettere in campo capacità di sensori aggiuntive, armi a lungo raggio per applicazioni antinave e di attacco terrestre e armi a energia diretta, inclusi i laser. Allo stesso tempo, il nuovo design sottolineerà una migliore sopravvivenza, con una richiesta di progressi rispetto alle unità “DDG-51 III” in termini di mantenimento della mobilità e delle capacità IAMD anche dopo aver subito danni.




La nuova nave da guerra sarà anche più adatta al concetto in via di sviluppo di “Operazioni marittime distribuite”, che è l'idea della Marina statunitense su come combattere con le sue forze disperse nello spazio di battaglia, compresi i tipi di scenari previsti in qualsiasi futuro confronto con la Cina nella regione “Asia / Pacifico”. Parte di questo requisito sarà una maggiore resistenza rispetto all'odierna classe Arleigh Burke. In particolare, la nuova nave da guerra dovrebbe essere in grado di offrire un aumento della autonomia operativa di almeno il 50%, mentre il tempo in stazione aumenterà di oltre il 120%. Ciò dovrebbe essere ottenuto almeno in parte da una maggiore efficienza del carburante, riducendo il consumo di carburante di almeno il 25%, il che, a sua volta, ridurrà il carico sulla flotta logistica. Oltre alle operazioni distribuite nell'Asia del Pacifico, il DDG(X) sarà ottimizzato per il dispiegamento nell'Artico, un'altra area di crescente importanza strategica. 
L'illustrazione fornita nel briefing di Hart è considerata solo una bozza pre-decisionale, ma raffigura una forma di scafo particolarmente elegante, con apparenti misure di riduzione della firma, che ricorda più l'Arleigh Burke che il DDG-1000 Zumwalt.
Come l'Arleigh Burke, il design del DDG(X) incorporerà futuri costanti aggiornamenti. In effetti, questo percorso è stato determinato all'inizio e include l'aggiunta successiva di missili ipersonici, sebbene finora non sia stata identificata una tipologia specifica; la Marina rimane impegnata nella fase di sviluppo di tali armi. Il briefing dell'Ufficio Esecutivo del Programma identifica le prenotazioni spaziali nel DDG(X) che prevederanno le seguenti aree di aggiornamento: 
  • radar di difesa aerea e missilistica (AMDR); 
  • comando, 
  • controllo, 
  • comunicazione, 
  • computer e crescita dell'intelligence (C4I),
  • armi a energia diretta ad alta potenza 
  • e celle missilistiche.

IL PROGETTO DELLO SCAFO

Varie configurazioni di scafo sono attualmente in fase di test presso il Naval Surface Warfare Center (NWSC) Carderock e il NSWC Philadelphia. 


Un concetto presentato al Surface Warfare Symposium del 2022 raffigura uno scafo angolare con una prua convenzionale, con una sovrastruttura che ricorda il cacciatorpediniere classe Zumwalt. Le future navi della classe potranno essere allungate con un modulo di carico utile per capacità aggiuntive.

LA CONFIGURAZIONE DEI DDG (X)

La US NAVY ha di recente rivelato una possibile configurazione del suo cacciatorpediniere di nuova generazione, o DDG(X), ed ha rilasciato i dettagli dei suoi piani per le nuove unità navali da guerra, che utilizzeranno capacità anti-superficie e di attacco a lungo raggio, nonché armi a energia diretta ad alta potenza. Il futuro DDG(X) è inteso come seguito dei cacciatorpediniere DDG-51 Arleigh Burke: l’obiettivo è quello di iniziare i lavori per la costruzione delle nuove unità entro la fine di questo decennio. L'ultimo concetto di DDG(X) e nuovi dettagli del suo design sono stati svelati al simposio nazionale della Surface Navy Association (SNA) ad Arlington, in Virginia, come parte di un aggiornamento del programma del capitano David Hart, responsabile del programma DDG(X).
In questa fase, i piani prevedono che il radar SPY-6 di base acquisisca un'antenna ad apertura maggiore, che va dagli attuali 14 piedi fino a 18 piedi di dimensione, il che, a sua volta, significherebbe che le minacce aeree potrebbero essere rilevate e tracciate a una distanza maggiore e con maggiore fedeltà. Per quanto riguarda le armi a energia diretta, l'illustrazione di accompagnamento indica che le navi saranno inizialmente equipaggiate con una coppia di lanciatori a 21 celle per il missile Rolling Airframe Missile (RAM), come già ampiamente utilizzato per la difesa di punto a bordo delle navi; in seguito si prevede l’utilizzo di due laser da 600 kilowatt che fornirebbero quindi una difesa contro le minacce missilistiche in arrivo, mentre verrà fornito anche un laser da 150 kilowatt, mostrato nella parte anteriore della sovrastruttura concettuale. 
In passato, gli esperti hanno testato un laser da 600 kilowatt come ottimale per la distruzione di missili da crociera a bassa quota. È anche degno di nota il fatto che due lanciatori RAM sono un aggiornamento della singola unità di cui sono equipaggiati al massimo gli attuali cacciatorpediniere della US Navy. Nella concept art iniziale, il DDG(X) è dotato di 32 celle del sistema di lancio verticale (VLS) Mk 41 a prua della sovrastruttura. Tuttavia, in una fase successiva, i piani prevedono la sostituzione degli Mk 41 con 12 celle missilistiche più grandi, probabilmente adattate per i nuovi missili ipersonici che sono ora in fase di sviluppo. Oltre alle celle VLS più grandi, lo spazio sul ponte sarà disponibile anche per VLS aggiuntivi, di dimensioni standard o ingrandite, per fornire una maggiore capacità complessiva del caricatore delle armi imbarcate. Sebbene il concetto di base includa solo 32 celle VLS, la Us Navy vuole che il DDG(X) abbia una capacità missilistica simile ai DDG-51 III, che ha 96 celle. Non è chiaro come esattamente ciò verrà raggiunto. Allo stesso tempo, una volta che le celle VLS Mk 41 più piccole saranno scambiate con celle più grandi in grado di ospitare armi ipersoniche, la capacità totale dei missili imbarcati verrà nuovamente modificata. Ciò che è più probabile è che la grafica resa pubblica ai media sia solo per scopi rappresentativi; il design effettivo avrà certamente un requisito minimo di celle VLS più elevato.
Altre caratteristiche del design includono un hangar più grande rispetto ai caccia Arleigh Burke, per supportare elicotteri con equipaggio e/o droni e un modulo di carico utile opzionale. Non è chiaro in cosa consisterebbe questo modulo. Ad alcuni suggerisce piani simili a quelli previsti per le mediocri Littoral Combat Ships. Queste navi da guerra dovevano avere diversi moduli di missione, tra cui la guerra ASW e la guerra contro le mine, che potevano essere cambiati rapidamente mentre erano in porto: adesso quell'idea è stata definitivamente abbandonata. D'altra parte, questo potrebbe indicare un modulo di carico utile più flessibile per nuove armi modulari, che potrebbero essere sostituite secondo le necessità. 
L'uso dei sistemi esistenti, ove applicabile, e la loro sostituzione in un secondo momento con alternative più efficaci è visto come un mezzo per mettere in servizio il DDG(X) in modo più economico e rapido. Il programma mira anche a fare uso di test a terra dei sistemi ove possibile per ridurre ulteriormente il rischio.
Il lavoro di test a terra si estenderà anche alla forma dello scafo e al sistema di alimentazione integrato, con prove pianificate presso il Naval Surface Warfare Center (NSWC) Carderock nel Maryland e il NSWC Philadelphia, Pennsylvania. Nel complesso, il piano è quello di completare i test dei sistemi critici prima dell'approvazione del Milestone B, che vede il programma entrare nella fase di sviluppo e dimostrazione del sistema.
Con i costruttori navali che sono stati inseriti nel team di progettazione del DDG(X) nel marzo dello scorso anno, per aiutare a informare il processo decisionale precoce, il programma è ora nella fase di formulazione del concetto, con l'intenzione di entrare nella fase di progettazione preliminare prima della fine dell'attuale anno fiscale.

LA PROPULSIONE

Il DDG(X) utilizzerà la propulsione elettrica integrata (IEP) impiegata sulla classe Zumwalt, con una portata maggiore del 50%, un tempo di permanenza in stazione maggiore del 120% e una riduzione del 25% del consumo di carburante rispetto agli attuali cacciatorpediniere della US Navy.
Il DDG(X) deve anche offrire un miglioramento di almeno il 50% di ciascuna delle sue firme acustiche, infrarosse ed elettromagnetiche subacquee (UEM). Nel contempo, un efficiente sistema di alimentazione integrato (IPS) garantirà una maggiore efficienza, riducendo i costi operativi e le richieste. L'IPS sarà anche vitale per soddisfare le crescenti richieste di generazione di energia sia delle armi a energia diretta che dei potenti array dei sensori imbarcati. La tecnologia alla base dell'IPS è la stessa che si trova nella classe di cacciatorpediniere Zumwalt, in cui un avanzato sistema di trasmissione turbo-elettrico sostituisce il tradizionale ingranaggio di propulsione a turbina a gas. Sebbene la classe Zumwalt (a causa dei costi esorbitanti) non si sia rivelata un successo, con solo tre scafi completati, il suo sistema di propulsione è indiscutibilmente potente, erogando oltre 75 megawatt di potenza.

I SENSORI

I sensori saranno inizialmente varianti ingrandite del radar AN/SPY-6 baseline 10 montato sui cacciatorpediniere di classe Flight III Arleigh Burke. Lo scafo è progettato con disposizioni per sensori aggiornati in futuro, inclusi array radar più grandi.




La Us Navy vorrebbe che il nuovo DDG(X) utilizzi un approccio progettuale "evolutivo", il che significa che deve trarre spunto dalle lezioni apprese con gli incrociatori classe Ticonderoga e dagli aggiornamenti degli Arleigh Burke, e persino dal modo in cui vengono eseguiti i programmi dei sottomarini Virginia e Columbia, in termini di coinvolgimento del settore. In questo modo, il DDG(X) inizialmente farà affidamento sugli elementi già ampiamente testati del sistema di combattimento dell'Arleigh Burke, soprattutto il collaudato radar di sorveglianza aerea SPY-6 e il sistema Baseline 10 Aegis, oltre ad altre tecnologie riutilizzate, anche se su uno scafo completamente nuovo.





Il radar AMDR (Air and Missile Defense Radar, ufficialmente chiamato AN/SPY-6) è un radar 3D  la difesa aerea e missilistica in avanzata fase di sviluppo per la Marina degli Stati Uniti. Il sistema AESA fornirà difesa Aerea missilistica integrata; sono in fase di sviluppo varianti per il retrofit dei caccia Burke Flight IIA e per l'installazione a bordo delle nuove fregate Constellation di Fincantieri, per le portaerei classe FORD e per le LPD classe San Antonio.

LO SVILUPPO

Nel 2013, "Raytheon Company (RTN) si aggiudicò un contratto cost-plus-di-incentivazione di 385.742.176 $ per la progettazione, lo sviluppo, l'integrazione, il collaudo e la consegna di Air and Missile Defence dello sviluppo di ingegneria e produzione (EMD) Radar S-band (AMDR-S) e Radar Suite Controller (RSC). Nel 2010, l’Us Navy assegnò contratti di sviluppo tecnologico alla Northrop Grumman, alla Lockheed Martin ed alla Raytheon per lo sviluppo del radar in banda S e del controller suite radar (RSC). Lo sviluppo del radar in banda X sarà oggetto di contratti separati. A far data dal 2016, la Marina USA sta installando l’AMDR sui caccia flight III della classe Arleigh Burke: le navi attualmente montano il sistema di combattimento Aegis, prodotto dalla Lockheed Martin. 
L’AMDR è inteso come un sistema scalabile; la tuga del caccia Burke può ospitare solo una versione da 4,3 m (14 piedi) ma l'USN afferma di aver bisogno di un radar di almeno 6,1 m (20 piedi) per far fronte alle future minacce relative ai missili balistici. 


Ciò richiederebbe un nuovo design della nave; i cantieri Ingalls hanno proposto la classe SAN ANTONIO come base per un incrociatore per la difesa antimissile balistica con AMDR da 6,1 m (20 piedi). Per ridurre i costi, i primi dodici set AMDR avranno un componente in banda X basato sul radar rotante SPQ-9B esistente, che sarà sostituito da un nuovo radar in banda X nel set 13 che sarà più capace contro le minacce future. I moduli di trasmissione e ricezione utilizzeranno la nuova tecnologia dei semiconduttori al nitruro di gallio. Ciò consentirà una maggiore densità di potenza rispetto ai precedenti moduli radar all’arseniuro di gallio. Il nuovo radar richiederà il doppio della potenza elettrica rispetto alla generazione precedente, generando oltre 35 volte più potenza radar. Sebbene non fosse un requisito iniziale, l'AMDR potrebbe essere in grado di eseguire attacchi elettronici utilizzando la sua antenna AESA. I contendenti per il Next Generation Jammer della Marina hanno utilizzato i moduli al nitruro di gallio per i moduli di trasmissione-ricevitore (GaN) per i loro sistemi EW. La precisa direzionalità del raggio consentirebbe di attaccare le minacce aeree e di superficie con raggi strettamente diretti di onde radio ad alta potenza verso i velivoli, navi e missili ostili.


Il nuovo radar in dotazione ai DDG (X) sarà 30 volte più sensibile e potrà gestire contemporaneamente oltre 30 volte gli obiettivi dell'attuale AN / SPY-1 D (V) al fine di contrastare i raid complessi del prossimo futuro. 

ARMAMENTI IN DOTAZIONE AI DDG (X)

Le navi saranno inizialmente dotate di blocchi a 32 celle del Mk. 41 VLS. Al posto del Mk. 41, le navi possono anche accettare un blocco a 12 celle di lanciatori più grandi per missili ipersonici. 




Le versioni aggiornate della classe possono anche incorporare armi a energia diretta, con laser che vanno da 150 a 600 kW. Il progetto denominato “Conventional Prompt Strike (CPS)”, concerne lo sviluppo tra US NAVY e US Army, di un missile ipersonico basato su di un motore razzo “acceleratore” ed un “glide ipersonico”. Vista la non idoneità degli attuali lanciatori verticali dei DDG, da 25 e 28 pollici, nell’ospitare il nuovo sistema d’arma, si è scelto di rimuovere i due cannoni da 155 mm “Advanced Gun System” prodieri per fare posto ad un complesso di lancio “Advanced Payload Module” (APM), idoneo ad ospitare il CPS e un razzo da 34,5 pollici; il sistema di lancio verticale sarà composto da diverse celle in grado di ospitare fino a 12 missili ipersonici.  Il documento programmatico della US NAVY conferma altresì che lo stesso sistema di lancio APM verrà imbarcato entro il 2028 anche sui sottomarini nucleari classe OHIO e VIRGINIA.

ARMI IPERSONICHE “LRHW”

L'arma ipersonica a lungo raggio (LRHW) è un prototipo di un sistema di lancio integrato operativo per unità dell’US ARMY, in grado di volare a Mach 5 +, capace di fornire una risposta tempestiva a un possibile scenario di minaccia ostile. 







L’LRHW sfrutta la ricerca innovativa nella gestione del calore, la manovrabilità, la progettazione dei materiali e la logistica delle operazioni per costruire e testare un'arma ipersonica in grado di superare i confini della velocità di volo. I sistemi ipersonici viaggeranno a Mach 5+ (oltre un miglio al secondo) e potenzialmente anche più veloci! Creare un sistema così veloce significa superare una serie di difficili sfide ingegneristiche e fisiche. L'Advanced Hypersonic Weapon (AHW) è un veicolo di planata a lungo raggio dimostrativo in grado di volare nell'atmosfera terrestre a velocità ipersonica. Il programma di dimostrazione della tecnologia AHW è gestito dall'US Army Space and Missile Defense Command (USASMDC) / Army Forces Strategic Command (ARSTRAT). La tecnologia è stata sviluppata attraverso lo sforzo cooperativo del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per valutare una capacità convenzionale di attacco globale immediato (CPGS) per colpire obiettivi sensibili di alto valore. Nel novembre 2011, l’AHW è stato lanciato dal Pacific Missile Range Facility a Kauai, Hawaii, al Reagan Test Site sulle Isole Marshall. Il veicolo in planata ha colpito con successo il bersaglio, che si trovava a circa 3.700 km dal sito di lancio. Le caratteristiche di volo del veicolo sono state raccolte da piattaforme spaziali, aria / mare, mare-mare e terrestri. Il test è stato condotto per dimostrare le tecnologie boost-glide ipersoniche e testare la capacità di volo atmosferico a lunghe distanze. Il test di volo è stato effettuato in conformità con i regolamenti del Trattato di riduzione delle armi strategiche, nonché del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio. "Lo Strategic Target System (STARS) è stato utilizzato per il test di volo dell'AHW dal Kauai Test Facility (KTF).” L'arma ipersonica avanzata è stata sviluppata come parte del programma convenzionale di attacco globale immediato (CPGS). Il programma CPGS consentirà alle forze di difesa statunitensi di colpire obiettivi ovunque sulla Terra con armi convenzionali entro un'ora. Questa capacità garantirà che gli Stati Uniti possano attaccare obiettivi di alto valore o obiettivi temporanei all'inizio o durante un conflitto. Il budget FY2010 per il programma AHW è stato di 46,9 milioni di dollari. 



La Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) ha completato i test di volo boost-glide nell'aprile 2010 e nell'agosto 2011. I risultati dei test sono stati utilizzati nel test di volo AHW. L'ufficio del programma dell'SMDC a Huntsville esegue il programma AHW. La Sandia National Laboratories ha fornito il sistema di aumento pressione e il veicolo di scorrimento. Il sistema di protezione termica è stato sviluppato dallo US Army Aviation and Missile Research Development and Engineering Center (AMRDEC). Il veicolo AHW hypersonic glide body (HGB) ha un design conico con alette. È stato progettato per adattarsi al gruppo del carico utile. La struttura è realizzata in alluminio, titanio, acciaio, tantalio, tungsteno, tessuto di carbonio, silice e altre leghe, tra cui cromo e nichel.

IL CANNONE DA 127/62 MK45 Mod.4

Il sistema da 127 mm / 62 calibri Mk 45 Mod 4 è oggi in servizio nella Marina degli Stati Uniti, ed è pronto a migliorare significativamente il Naval Surface Fire Support (NSFS) e le prestazioni generali della missione. 


I principali aggiornamenti dell'Mk 45 Mod 4 includono una canna da 62 calibri, sottosistemi rinforzati per armi da fuoco e montaggio, miglioramento avanzato del sistema di controllo e una firma ridotta, scudo per armi a bassa manutenzione. L'Mk 45 Mod 4 fornisce all'NSFS una portata di oltre 20 miglia nautiche (36 km) con il nuovo proiettile Cargo da 5 pollici della Marina Militare e una migliore carica propulsiva. Il funzionamento e le prestazioni delle munizioni a distanza estesa sono stati studiati per ottenere un effetto ottimale e un raggio d'azione all'unisono con i principali aggiornamenti del sottosistema della Mk 45 Mod 4 Naval Gun. A partire dal DDG 81, l'Mk 45 Mod 4 è stato installato sui cacciatorpediniere di classe DDG 51 della Us Navy. Altre applicazioni Mod 4 includono installazioni per le flotte della Corea del Sud, del Giappone e della Danimarca. Gli attuali supporti Mk 45 Mod 0-2 possono essere aggiornati alla configurazione Mod 4, che è prevista per le navi di classe CG 47 nell'ambito del programma di modernizzazione degli incrociatori della Marina Militare. L'Mk 45 Mod 4 e il suo nuovo sistema di movimentazione automatica è stato selezionato per la futura Fregata della Royal Navy, della Royal Australian Navy e della Royal Canadian Navy Type 26. BAE Systems e Leonardo si sono recentemente associati per offrire una soluzione a basso rischio, con guida di precisione, più accessibile e più performante rispetto alle alternative attuali. Offrendo una portata e una precisione significativamente maggiori, il sistema Vulcano è compatibile con la maggior parte delle piattaforme terrestri e navali, compresi i sistemi di cannoni da 155 mm e da 127 mm per affrontare ed annientare le minacce terrestri e marittime. La famiglia Vulcano si avvale di una tecnologia nuova ed emergente basata su una cellula stabilizzata con alette a controllo canard per un raggio d'azione esteso e guida terminale, con interfacce meccaniche identiche alle munizioni standard. In qualità di produttore di primo equipaggiamento dei principali sistemi di cannoni come l'Advanced Gun System Mk 51, il cannone navale Mk 45 e gli obici M777 e M109, BAE Systems è la soluzione ideale per integrare il sistema a lunga gittata Vulcano in queste armi. Allo stesso modo, gli ultimi adattamenti del Vulcano sono compatibili con la maggior parte dei sistemi di artiglieria in servizio, compresi i cannoni navali 127/64 LW e 127/54C di Leonardo.

LASER WEAPONS

I laser, invisibili ad occhio nudo, possono distruggere i bersagli alla velocità della luce con una precisione senza pari. Inoltre, queste piattaforme a energia diretta potranno colpire ripetutamente dando una fornitura quasi infinita di munizioni o, come dice Lockheed, "una rivista illimitata di proiettili”. 


Saranno presto la migliore arma per annichilire le minacce ad alto volume e a basso costo come i droni, che stanno diventando sempre più diffusi sul campo di battaglia. Di recente la Lockheed ha fornito all’US ARMY un laser da 60 chilowatt che è stato poi montato su un grande camion modificato. Il sistema d'arma laser a terra è stato utilizzato per distruggere razzi, artiglieria, missili da crociera e droni, così come altri veicoli terrestri. L'esercito statunitense non è l'unico che incorpora nelle sue piattaforme di armi la tecnologia in stile "Guerre Stellari”. La Lockheed ha ricevuto anche dalla US NAVY un contratto del valore di 150 milioni di dollari per lo sviluppo e la consegna di due sistemi d'arma laser per l'integrazione a bordo entro il 2020.  L'Air Force Research Lab ha assegnato all'USAF 26,2 milioni di dollari per sviluppare un laser in fibra ad alta potenza da testare su un jet da combattimento entro il 2021. Inoltre, nuove tecnologie prendono forma in jammer ECM ed ECCM, sistemi di allarme rapido e decoys elettronici progettati per attirare gli attacchi nemici. Ad esempio, il sistema AN/ALQ-210 Electronic Support Measures di Lockheed, installato su alcuni degli elicotteri MH-60R dell’Us Navy, fornisce ai piloti tutte le capacità di cui sopra. L'idea è che l'ESM agisca come un ulteriore set di occhi e orecchie per i membri del servizio nello spazio di battaglia. Facendo un passo avanti in questa tecnologia, Lockheed Martin vuole aggiungere intelligenza artificiale al mix di armi tecnologicamente all’avanguardia.
Sappiamo tutti di essere entrati in un'epoca in cui i dati sono una risorsa strategica: l'intelligenza artificiale può sicuramente aiutare a ordinare questi dati, riconoscere modelli e anomalie, fornire agli utenti informazioni sulle minacce e le necessarie opzioni per annientarle definitivamente. Un Sistema di Armi Laser della Marina Militare degli Stati Uniti, temporaneamente installato a bordo del cacciatorpediniere a missili guidati USS Dewey. Purtroppo, le armi che sono state testate finora sono troppo voluminose e pesanti per poter essere montate a bordo di humvee e jet da combattimento. Inoltre, sono anche notoriamente difficili da raffreddare. Così i protagonisti dell'industria della difesa statunitense non si sono rivolti ai laser in fibra per trasformare il sogno dei militari in realtà. 



La Lockheed Martin di recente ha testato un laser in fibra da 30kW. Già nel maggio 2013, la Lockheed è stata in grado di intercettare e annientare razzi con un laser portatile in fibra 10kW a circa 1,5 km di distanza. Quest'ultimo risultato è "la più alta potenza mai documentata pur mantenendo la qualità del fascio e l'efficienza elettrica”; inoltre, il laser che utilizza la fibra consuma la metà della potenza del convenzionale laser allo stato solido. MBDA Systems, Raytheon e Northrop Grumman, negli ultimi due anni,  hanno tutti testato laser che utilizzano la fibra ad alta potenza. La filiale tedesca di MBDA Systems ha utilizzato il suo sistema da 40kW per abbattere proiettili di artiglieria ad una distanza di circa 2 km. Il sistema da 40kW è costruito con quattro sorgenti da 10kW fornite dal produttore industriale di laser a fibre ottiche IPG Photonics. La Northrop Grumman è anche impegnata nello sviluppo di laser a fibra ad alta potenza attraverso vari contratti militari, tra cui la Robust Electric Laser Initiative dell’esercito. Gli ultimi ritrovati tecnologici di laser a fibra utilizzano uno speciale tipo di fibra ottica come materiale che emette luce, al contrario dei cristalli al neodimio utilizzati nei laser convenzionali allo stato solido. Poiché la fibra può essere arrotolata, gli sviluppatori possono imballare più potenza in un sistema compatto. Tali dispositivi possono essere due volte più efficienti dei tradizionali laser allo stato solido; il maggiore rapporto superficie/volume delle fibre li rende molto più facili da raffreddare. Tuttavia, hanno una limitazione di potenza. I laser monofibra non possono raggiungere alte potenze e qualità del fascio. Così la maggior parte dei sistemi ad alta potenza, compresi quelli di Lockheed Martin, combinano i raggi di più moduli laser a fibra ottica in un unico fascio di alta qualità. Alcuni ritengono che la potenza di riferimento militare di 100 kW di potenza di 100 kW per un'arma laser potrebbe essere una sfida da raggiungere con i laser a fibra. Questo punto di riferimento è il risultato di un progetto militare di oltre dieci anni fa, che ha stabilito che la distruzione di un bersaglio in movimento da un chilometro o due chilometri di distanza richiede 100 kW, soprattutto per superare la diffusione del raggio laser. Ma i laser hanno fatto molta strada da allora, e come sottolinea lo spettro IEEE Spectrum nell'articolo "Ray Guns Get Real", alcuni esperti mettono in dubbio la necessità di un sistema laser da 100 kW.

MISSILI STANDARD “SM-6 Extended Range Active Missile”

L’agenzia statunitense Missile Defense Agency e la Us Navy collaboreranno per mettere a punto le capacità del missile “STANDARD SM-6 - RIM-174 Standard Extended Range Active Missile” di intercettare bersagli ipersonici manovranti. Gli “hypersonic boost-glide” vengono inviati a mezzo booster ad altissima quota ed accelerati a velocità ipersoniche tramite razzo propulsore; in seguito si distaccano per iniziare una discesa planata a velocità di Mach 5+. Rispetto a un normale missile balistico, la differenza principale è la maneggevolezza, che consente cambiamenti di rotta improvvisi e manovre che rendono l’intercettazione quasi impossibile. La Cina avrebbe già messo a punto il DF-17, mentre la russa AVANGARD, che è un’arma strategica armata di testata nucleare.  Esisterebbe un missile aerolanciato con glider ipersonico cinese destinato ai bombardieri H-6N, che utilizzano una baia ventrale destinata ad armamenti di notevoli dimensioni.  Sarebbero in avanzato sviluppo anche armi balistiche con veicoli di rientro manovranti (il russo KINZHAL) e missili cruise con propulsione scramjet capaci di velocità ipersoniche; intercettare queste minacce sfuggenti è oramai urgente.  Per tale evenienza esiste l’SM-6, che è un’arma a doppio scopo, capace anche di strike contro obiettivi di superficie; la prossima versione B1 userà verosimilmente lo stesso corpo missile a diametro incrementato dell’SM-3 Block IIA, per contenere un nuovo motore razzo che garantirà velocità ipersoniche. Il test anti-boost glide con l’SM-6 è parte dell’iniziativa Sea-Based Terminal Defense, che vedrà ulteriori esperimenti per arrivare a dimostrare una capacità operativa entro il 2024. 
Gli Stati Uniti stanno mettendo a punto il “Glide Phase Interceptor (GPI)” che punta ad accelerare gli sforzi in campo anti-ipersonico ed a schierare a breve una prima capacità operativa. 




Il missile RIM-174 Standard Extended Range Active Missile (ERAM) o Standard Missile 6 è un missile attualmente in produzione per la Marina degli Stati Uniti. È stato progettato per scopi di guerra antiaerea a raggio esteso (ER-AAW) fornendo capacità contro velivoli ad ala fissa e rotante, veicoli aerei senza pilota, missili da crociera anti-nave in volo, sia via mare che via terra, e difesa da missili balistici terminali.  Può anche essere usato come missile anti-nave ad alta velocità. Il missile utilizza la cellula del precedente missile SM-2ER Block IV (RIM-156 A), aggiungendo il cercatore di ricerca radar attivo dell'AIM-120C AMRAAM al posto del cercatore semi-attivo del progetto precedente. Ciò migliorerà la capacità del missile Standard contro bersagli altamente agili e bersagli oltre la portata effettiva dei radar di illuminazione dei bersagli delle navi lanciatori. La capacità operativa iniziale è stata raggiunta il 27 novembre 2013. L'SM-6 non è destinato a sostituire la serie di missili SM-2, ma servirà a fianco e fornirà una portata estesa e una maggiore potenza di fuoco. È stato approvato per l'esportazione nel gennaio 2017. Lo Standard ERAM è un missile a due stadi con uno stadio booster e un secondo stadio. È simile nell'aspetto al missile standard RIM-156A. Il cercatore radar è una versione ingrandita adattata dal cercatore AMRAAM AIM-120 C (13,5 pollici (34 cm) contro 7 pollici (18 cm).  




Il missile può essere impiegato in una serie di modalità guidata inerziale al bersaglio con acquisizione terminale utilizzando un cercatore radar attivo, un homing radar semi-attivo lungo tutto il percorso o un tiro oltre l'orizzonte con capacità di impegno cooperativo.  Il missile è anche in grado di difendere i missili balistici terminali come supplemento allo Standard Missile 3 (RIM-161). A differenza di altri missili della famiglia Standard, lo Standard ERAM può essere periodicamente testato e certificato senza essere rimosso dal file di sistema di lancio verticale. L'SM-6 offre una portata estesa rispetto ai precedenti missili della serie SM-2, essendo principalmente in grado di intercettare missili anti-nave ad altitudine molto elevata o a sfioramento del mare, ed è anche in grado di eseguire la difesa missilistica balistica in fase terminale. L'SM-6 può anche funzionare come missile anti-nave ad alta velocità. Può discriminare i bersagli usando il suo cercatore a doppia modalità, con il cercatore semi-attivo che fa affidamento su un illuminatore a bordo di una nave per evidenziare il bersaglio, e il cercatore attivo che ha il missile stesso invia un segnale elettromagnetico; il cercatore attivo ha la capacità di rilevare un missile da crociera terrestre tra le caratteristiche del suolo, anche da dietro una montagna. L'SM-6 multi-missione è progettato con l'aerodinamica di un SM-2, il gruppo di propulsione dell'SM-3 e la configurazione dell'estremità anteriore dell'AMRAAM. Le stime della gamma dell'SM-6 variano; la sua portata ufficiale pubblicata è 130 nmi (150 mi; 240 km), ma potrebbe essere ovunque da 200 nmi (230 mi; 370 km) fino a 250 nmi (290 mi; 460 km). La Marina degli Stati Uniti sta aggiungendo la guida GPS all'SM-6 Block IA in modo che abbia la capacità di colpire bersagli di superficie se necessario, ma dato il suo costo più elevato rispetto ad altre armi da attacco terrestre come il missile da crociera Tomahawk, probabilmente non sarebbe usato come un'opzione primaria. Nel febbraio 2016, il Segretario alla Difesa Ashton Carter ha confermato che l'SM-6 sarebbe stato modificato per fungere da arma anti-nave. La Marina degli Stati Uniti ha approvato i piani per sviluppare l'SM-6 Block IB, che sarà caratterizzato da un motore a razzo da 21 pollici invece dell'attuale motore da 13,5 pollici. La nuova variante aumenterà in modo significativo la portata e la velocità del missile consentendo una capacità di guerra anti-superficie ipersonica ed estesa. La società Raytheon ha stipulato un contratto nel 2004 per sviluppare il missile per la Marina degli Stati Uniti, dopo la cancellazione del blocco IVA (RIM-156B) a raggio esteso Standard Missile 2. Lo sviluppo è iniziato nel 2005, seguito da test nel 2007. Il missile è stato ufficialmente designato RIM-174A nel febbraio 2008. La produzione iniziale a bassa velocità è stata autorizzata nel 2009. La Raytheon ha ricevuto un contratto da 93 milioni di dollari per iniziare la produzione del RIM-174A in Settembre 2009. Il primo missile di produzione a bassa velocità è stato consegnato nel marzo 2011. L’SM-6 è stato approvato per la produzione a tasso pieno nel maggio 2013. Il 27 novembre 2013, lo standard ERAM ha raggiunto il CIO (Capacità operativa iniziale) quando venne installato a bordo della USS KIDD. Durante alcune esercitazioni, la USS  John Paul Jones ha lanciato quattro missili SM-6. Una parte dell'esercitazione, denominata NIFC-CA AS-02A, si è conclusa con l'allora più lungo impegno terra-aria nella storia navale; la portata esatta dell'intercettazione non è stata resa pubblica. Il 14 agosto 2014, un SM-6 è stato testato contro un bersaglio subsonico di missili da crociera a bassa quota e lo ha intercettato con successo sulla terra. Un elemento chiave del test è stato valutare la sua capacità di distinguere un bersaglio che si muove lentamente tra il disordine del terreno. Il 24 ottobre 2014, la Raytheon ha annunciato che due missili SM-6 avevano intercettato obiettivi missilistici anti-nave e da crociera durante scenari di "ingaggio a distanza". Un supersonico a bassa quota e a corto raggio GQM-163 A e un subsonico BQM-74E a bassa quota e medio raggio sono stati abbattuti da SM-6 lanciati da un incrociatore lanciamissili guidati utilizzando le informazioni di mira fornite da un cacciatorpediniere. L'avvertimento avanzato e il segnale da altre navi consentono di utilizzare la capacità oltre l'orizzonte del missile in misura maggiore, consentendo a una singola nave di difendere un'area molto più ampia. Nel maggio 2015, l'SM-6 è stato spostato dalla produzione ridotta a quella a pieno rateo, aumentando in modo significativo i numeri di produzione e riducendo ulteriormente i costi unitari. La US NAVY ha anche già testato la versione modificata dell'SM-6 Dual I per intercettare con successo un bersaglio di missili balistici in fase terminale, gli ultimi secondi prima dell'impatto; l'aggiornamento Dual I aggiunge un processore più potente che esegue un software di mira più sofisticato per colpire una testata che scende dall'atmosfera superiore a velocità estrema. Ciò si aggiunge alle capacità di difesa missilistica della flotta consentendole di intercettare i missili balistici che non possono essere colpiti dai missili SM-3, che prendono di mira i missili nella fase intermedia. La Marina aveva utilizzato l'SM-2 Block IV come intercettore missilistico terminale, ma l'SM-6 combina la difesa missilistica con i tradizionali missili da crociera e l'interdizione degli aerei nello stesso pacchetto. La configurazione SM-6 Dual I è entrata in servizio nel 2016. L'SM-6 ha dimostrato sia la massima portata verso il basso che la massima intercettazione a distanza trasversale in missioni di impegno a distanza oltre l'orizzonte supportate dalla CEC, battendo il precedente record di massimo impegno stabilito nel giugno 2014. Cinque obiettivi sono stati abbattuti durante il test, dimostrando la capacità del missile di condurre più scenari di destinazione. L'SM-6 affondò anche la USS  Reuben James dismessa in una dimostrazione del 18 gennaio 2016, mostrando le sue capacità anti-nave. Il 30 settembre 2016, la Raytheon ha annunciato che l'SM-6 aveva nuovamente raggiunto l'intercettazione terra-aria più lunga nella storia navale, battendo il suo precedente record di intercettazione a lungo raggio registrato nel gennaio 2016. Nel 2016, la Missile Defense Agency lanciò con successo due missili SM-6 Dual I contro un "bersaglio missilistico balistico complesso a medio raggio", dimostrando che la sua testata esplosiva piuttosto che hit-to-kill era in grado di abbattere missili balistici a medio raggio; questa capacità potrebbe consentirgli di contrastare le minacce di missili balistici anti-nave DF-21D e DF-26 cinesi. L'Agenzia per la difesa missilistica ha inoltre condotto con successo un altro test di intercettazione di un missile balistico a medio raggio (MRBM). Due missili SM-6 Dual I furono lanciati dal cacciatorpediniere di classe Arleigh Burke USS John Paul Jones per intercettare un MRBM bersaglio lanciato dalla Pacific Missile Range Facility durante la fase terminale del suo volo. Il test ha segnato la terza intercettazione riuscita di un missile balistico da parte dell'SM-6.

INIZIO COSTRUZIONE DEI DDG (X): anno fiscale 2028.

Tuttavia, ci sono ancora alcuni grandi punti interrogativi sul programma DDG(X). Finora non c'è chiarezza sulle dimensioni complessive della nave o sui costi che ne deriveranno. Il costo per ogni scafo sarebbe probabilmente superiore a $ 1 miliardo, sulla base di cifre equivalenti per l'Arleigh Burke e i costi di sviluppo coinvolti nella classe Constellation. Con l'enorme spesa dei programmi sottomarini SSN(X) e Columbia da affrontare, oltre alle future fregate Constellation, la US NAVY dovrà probabilmente scegliere tra capacità e convenienza mentre lavora per finalizzare il suo progetto DDG(X).

(Fonti delle notizie: Web, Google, Thedrive, Wikipedia, You Tube)













I futuri DDG (x) sostituiranno i DDG classe Arlegh Burke.