venerdì 7 gennaio 2022

L'Avia S-199 Mezek ("mulo") o Sakeen (coltello)

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L'Avia S-199 fu un aereo da caccia monoposto, costruito dall'azienda cecoslovacca Avia, parte delle industrie pesanti Škoda (Avia, akciová společnost pro průmysl letecký Škoda), dopo la seconda guerra mondiale.
Fu il primo caccia utilizzato dalla Heyl Ha'Avir, l'aviazione militare israeliana, durante il conflitto del 1948. Realizzato grazie ai progetti ed ai componenti del Messerschmitt Bf 109 serie G, prodotto in Cecoslovacchia durante l'occupazione tedesca, differiva dal modello originale principalmente per l'adozione di un diverso propulsore, ovvero uno Junkers Jumo 211F 12. Non fu un caccia molto popolare tra i suoi piloti, a causa dei numerosi problemi tecnici che lo affliggevano.
Fu soprannominato Mezek ("mulo") dai piloti cecoslovacchi, proprio perché era un ibrido tra il Messerschmitt ed il motore Jumo, mentre in Israele era ufficialmente noto come il Sakeen (coltello). Tuttavia, il nome più spesso utilizzato fu semplicemente Messerschmitt o Messer (che in tedesco e yiddish significa anche "coltello").




Storia

Sviluppo

Durante la seconda guerra mondiale, a seguito dell'intensificarsi dei bombardamenti alleati, parte della produzione di Messerschmitt Bf 109 venne de-localizzata in altre nazioni sotto il controllo del regime nazista. Anche l'Avia contribuì producendo il modello G-12. Dopo la guerra e la fine dell'occupazione tedesca, all'azienda cecoslovacca rimasero in dote molte cellule del Bf 109, ma un numero esiguo di propulsori Daimler-Benz DB 605. Nonostante ciò avviò la produzione del Bf 109 G-14, a cui diede la denominazione di Avia S-99. Presto però si esaurirono le scorte di motori, anche perché nel 1947 molti di questi rimasero distrutti in un incendio di un deposito a Krásné Březno, sobborgo nei dintorni di Ústí nad Labem. Pur di non interrompere la produzione, i tecnici dell'Avia dovettero trovare un'alternativa: costruire da zero il motore Mercedes o trovare un propulsore che potesse sostituirlo. La prima opzione sarebbe stata troppo costosa e dai tempi eccessivamente lunghi per essere avviata, per cui si decise di individuare un nuovo motore. La scelta cadde sullo Junkers Jumo 211 ovvero quello che equipaggiava il bombardiere Heinkel He 111 che l'Avia aveva costruito fino al 1944 e di cui possedeva un buon numero di unità. Nacque così l'S-199, un velivolo con pessime prestazioni generali.




Tecnica

Al pari del Bf 109, l'Avia S-199 era un monomotore ad ala bassa con carrello retrattile interamente costruito in metallo. Rispetto al caccia tedesco, l'adozione del più pesante Jumo 211F comportò una serie di modifiche alla parte anteriore della fusoliera, così da consentirne l'installazione ma, soprattutto, una serie di grosse problematiche, che resero il velivolo pericoloso più per i propri piloti che per gli avversari. In primo luogo lo Junkers, non essendo pensato per i caccia, mancava della prontezza del Daimler Benz, poiché era stato progettato per garantire una elevata coppia motrice ad un basso regime di giri, che insieme alla nuova elica adottata, più grande e più pesante, sbilanciavano pericolosamente il velivolo, rendendolo difficilmente controllabile. Questo, in combinazione con la carreggiata stretta ed il carrello d'atterraggio del 109, resero gli atterraggi ed i decolli estremamente pericolosi.
Anche l'armamento subì delle modifiche a seguito dell'adozione del nuovo motore: il Daimler-Benz DB 605 infatti, consentiva di montare un cannone centrale sparante attraverso il mozzo dell'elica. La stessa cosa non era fattibile con lo Junkers Jumo 211, così per migliorarlo, si utilizzò una versione modificata del kit Rüstsätze VI della Luftwaffe, che prevedeva l'installazione di una coppia di cannoni da 20 mm MG 151 in gondole sub-alari. Tale modifica non fu esente da conseguenze negative, poiché da un lato, comportò un aumento di peso, e dall'altro causò un peggioramento delle caratteristiche aerodinamiche del velivolo. Un ulteriore difetto, era legato al fatto che il nuovo propulsore non prevedeva un sistema di sincronizzazione che consentisse alle armi di sparare attraverso il disco dell'elica. Dovette dunque essere creato ex novo, ma presentò dei malfunzionamenti talmente gravi, che alcuni piloti israeliani al momento di fare fuoco con la coppia di mitragliatrici MG 131, finirono con il colpire la propria elica.
Tra le altre modifiche effettuate dai tecnici dell'Avia, effettuate però durante il conflitto del 1948, vi furono l'adozione di un nuovo tettuccio a goccia, che migliorò sensibilmente la visibilità dei piloti, e cambiamenti marginali, specialmente alla sezione di coda.
Furono costruiti circa 550 S-199, compreso un certo numero di addestratori designati come CS-199 (armati) e C-210 (disarmati). Il primo volo ebbe luogo nel marzo 1947 e la produzione terminò nel 1949.




Impiego operativo

L'Avia-199 prestò servizio sia nelle file della Československé Vojenské Letectvo (l'aeronautica militare cecoslovacca disciolta nel 1993), che in quelle della Heyl Ha'Avir (le forze aeree israeliane) con cui ebbe il battesimo del fuoco. Dalla Cecoslovacchia furono acquistati ed inviati in Israele venticinque velivoli. Di questi solo due non arrivarono a destinazione. Il prezzo per ogni aereo fu fissato in 190 000 dollari.
Sullo stato europeo vigeva un embargo sulle esportazioni di armi, per cui le trattative con gli agenti dell'Agenzia Ebraica, avvennero in maniera del tutto segreta. I primi esemplari arrivarono il 20 maggio 1948, sei giorni dopo la dichiarazione di Indipendenza di Israele e cinque giorni dopo l'inizio della guerra da parte dell'Egitto. Una volta assemblati furono inviati a combattere per la prima volta il 29 maggio, attaccando l'esercito egiziano tra Ashdod e il ponte nei pressi di Ad Halom, a sud di Tel Aviv.
Fu la prima azione di guerra dello Squadrone 101 delle forze aeree israeliane. Il velivolo si dimostrò inaffidabile e scarsamente manovrabile in combattimento ed inoltre, problemi di manutenzione, fecero sì che non più di cinque aerei contemporaneamente fossero pronti al volo. L'Avia-199 tuttavia, ottenne alcune vittorie contro i suoi avversari, tra cui lo Spitfire.
Visti i pessimi risultati gli S-199 furono gradualmente sostituiti dai North American P-51 Mustang e gli Spitfire e relegati a ruoli secondari, di attacco al suolo o di bombardamento a bassa quota. Alla fine di ottobre del 1948 solo sei Avia erano operativi e continuarono ad effettuare sporadiche azioni di combattimento fino al dicembre dello stesso anno. Una volta concluse le ostilità, furono radiati dal servizio.
L'S-199 continuò la sua carriera nell'aviazione militare cecoslovacca, dove gli ultimi esemplari rimasero in servizio tra le file della Guardia di sicurezza nazionale cecoslovacca fino al 1957.

Versioni:
  • Avia S-99: prima versione costruita dopo la seconda guerra mondiale, utilizzando tutte le componenti del Bf 109 G-12, compreso il propulsore DB 605. L'Avia lo designò come C.10. Furono completati 21 aerei.
  • Avia CS-99: variante da addestramento dell'S-99, basata sul progetto di una versione da addestramento del Bf 109 G-12. L'Avia lo designò come C.10. Furono completati 23 aerei.
  • Avia S-199: versione maggiormente prodotta. Basata sulla cellula del Bf 109 G-14, adottava il propulsore Junkers Jumo 211. L'Avia lo designò come C.210. Furono completati 559 aerei.
  • Avia CS-199: versione da addestramento a due posti costruita adattando un S-199. Ne furono costruiti 2 esemplari.

Utilizzatori:
  • Cecoslovacchia - Československé Vojenské Letectvo - Guardia di sicurezza nazionale cecoslovacca
  • Israele - Heyl Ha'Avir - Squadrone 101.

Esemplari esistenti

Ad oggi sono conservati tre esemplari: un S-199 e un CS-199 sono esposti al Letecké Muzeum Kbely, ovvero il Museo nazionale dell'aviazione di Praga; il terzo invece, è conservato al museo delle forze aeree israeliane, nella base aerea di Hatzerim.

(Fonti delle notizie: Web, Google, Wikipedia, You Tube)


















































 

LA BANDIERA NAZIONALE E IL TRICOLORE ITALIANO - Prof. Giovanni Vernì: “LA PATRIA IN QUARANTENA”


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L’articolo 12 della Costituzione afferma che «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano; verde, bianco e rosso, a tre bande verticali ed eguali dimensioni». 


In questo breve escursus sono racchiusi più di due secoli di storia patria, la storia della nostra bandiera nazionale. Il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, veniva assunto dal Congresso della Repubblica Cispadana, come bandiera dello Stato, il tricolore rosso, bianco e verde a fasce orizzontali. Al centro del vessillo spiccava, quale allegoria dell’unione delle città di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio Emilia, un turcasso con quattro frecce, circondato da un serto di alloro e ornato da un trofeo di armi con il monogramma R. C. 
La rivoluzione francese aveva introdotto la bandiera tricolore quale simbolo della nazione e segno delle libertà conquistate, mentre le imprese napoleoniche avevano contribuito a diffondere in Europa i valori rivoluzionari. Per volere di Napolene Bonaparte, la neonata Legione Lombarda, che avrebbe dovuto affiancare l’esercito francese durante la prima Campagna d’Italia, venne dotata, nell’ottobre del 1796, di uno stendardo che presentava i colori verde, bianco e rosso. É quindi verosimile che proprio questa combinazione cromatica abbia influenzato la proposta del deputato Compagnoni.
Durante il Risorgimento richiami all’unità nazionale si sono ricercati nella storia dell’Italia e della sua letteratura, a volte anche con delle forzature, come nel caso di una rilettura in chiave patriottica della Divina Commedia (scritta a partire dai primi anni del 1300), laddove, nel Canto XXIX del Purgatorio, le virtù teologali sono rappresentate, secondo Dante, da tre donne, vestite rispettivamente di verde la Speranza, di bianco la Fede, di rosso la Carità. 
Con alcune varianti, tutte le repubbliche giacobine, sorte fra il 1796 e il 1797 in Italia, assunsero questo tricolore come propria bandiera.





Mutando in alcune parti, ma mantenendo i colori, si ebbero le bandiere della Repubblica Cisalpina (1797-1802), della Repubblica Italiana (1802-1805) e del Regno Italico (1805-1814). La Restaurazione, seguita al Congresso di Vienna del 1815, soffocò il tricolore per più di sei lustri, ma il vessillo continuò a incarnare i principi di libertà, indipendenza e democrazia, riapparendo ogni qualvolta, in qualche parte d’Italia, vi fosse un moto insurrezionale. 
Nel 1848, in tricolore divenne il simbolo di una riscossa nazionale da Milano, a Venezia, a Roma, a Napoli e Palermo.
Nel 1848 Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, concesse lo Statuto e il 23 marzo 1848, all’avvio della prima guerra d’indipendenza, il tricolore fu adottato dall’esercito piemontese che si apprestava a varcare il Ticino. 
Il re si rivolse ai popoli del Lombardo-Veneto con le parole dello storico proclama: «Per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana, vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo dei Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana». 
In data 17 marzo 1861 fu proclamato il Regno d’Italia, la bandiera continuò ad essere per consuetudine quella della prima guerra d’indipendenza, fino alla proclamazione della Repubblica del 2 giungo 1946. 
Con un D.L. del 19 giugno 1946, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, con i poteri di Capo Provvisorio dello Stato, stabilì la foggia definitiva della nostra bandiera. 
La Costituzione italiana del 1948 restituì all’Italia il tricolore senza lo stemma della monarchia. 
L’Assemblea costituente, nella seduta del 24 marzo 1947, approvò l’art. 12, con un lungo e caloroso applauso rendendo omaggio al ritrovato simbolo della nostra Unità nazionale.








Prof. Giovanni Vernì: “LA PATRIA IN QUARANTENA”

“Patria parens omnium nostrum est” (Cic.)
(La patria è la madre di noi tutti).

*  *  *

Mentre sempre più preoccupante si fa lo scadimento di non pochi valori fondamentali del viver civile (e della stessa sacralità della Storia umana), riesce quanto meno strana, amara ed illogica la messa in quarantena di talune parole che meglio li rappresentano, specie di quelle che invece dovrebbero meritare di essere rispettate onde conservare inalterati pregio, onore e nitore.
Tra le più prese di mira, le più bersagliate, le più osteggiate, le più incomprese e, anche, le più irrise, quasi che essa sia una sorta di appestato o di untore di manzoniana memoria da fuggire, da bandire o da relegare in un lazzaretto ad ogni costo, trovo, con mio sommo rammarico e stupore, la parola Patria (che scrivo con la maiuscola come la si scriveva nei periodi di maggiore fulgore).

*  *  *

Nasce codesta avversione, che è anche voltafaccia, ostracismo, dalla falsa convinzione ch’essa sia simbolo e coagulo di retorica e da una singolare improvvisa folata di antipatia, da un inatteso sussulto di orgoglio frustrato da secoli di sudditanza, da una sorta di curiosa involuzione dell’atteggiamento umano (“Oh, forze mirabili e dolorose, - direbbe il Manzoni (Pr.Sp.XXXII) – d’un pregiudizio generale!”, ma, si potrebbe anche aggiungere, soprattutto, dalla scarsa conoscenza che certamente si ha del suo vero D.N.A. – come oggi si usa dire – o codice genetico o “acido desossiribo nucleico”.
Insomma – ma non ne sono del tutto convinto – da incomprensione, (nel senso di non – comprensione o di mancanza di comprensione o di insufficiente comprensione).
Volendo, allora, ovviare a tutto questo stato di cose e dovendo necessariamente cercare di renderne più chiaro il significato, è d’uopo per noi chiedere aiuto all’etimologia, la scienza, cioè, che studia l’origine, la derivazione di un vocabolo. (Non salgo, o risalgo, in cattedra, per questo, ma resto in piedi, in mezzo agli alunni, tra i banchi, con loro, come facevo una volta, quando spiegavo, prima che agli altri, a me stesso).

* * *

Come ben si vede anche da questi due ultimi versi, nell’esprimere un identico pensiero, entrambi i poeti, pur così distanti nel tempo (circa settecento anni, se non andiamo errati) usarono la stessa parola, anche se con grafìa diversa, la parola: Patria.
La quale, pur diversa nella grafìa, denota un’unica origine, un unico tema, un’unica radice, che è “patri” per il latino, “πατρ” per il greco; o, più brevemente,:”Pat” o “πατ”, che si ritrovano nel nome da cui derivano:”pater, patris”(latino); “πάτήρ, πατρός” (greco) [rad. “Pa o “πα” da “pasco,is (mi nutro) e da “πατέομαι” (mi nutro, mi cibo, mangio] e che significa, sia nell’una che nell’altra lingua, l’avo, il padre, l’antenato, il quale, come tutti ben sappiamo, è la persona, la prima persona, della nostra famiglia, verso la quale un figlio deve, ab immemorabili (da tempo immemorabile) rispetto, amore, onore e verso la quale la Tavola della Legge del cristiano impone, come massima, come 4° Comandamento “Onora il Padre e la Madre”.

* * *

Estendendo la nostra ricerca nell’ambito della grammatica latina, troviamo, poi, che la parola, incriminata ed osteggiata “patria”, in origine, non era usata come nome, ma come aggettivo e seguiva sempre il nome astratto res, rei e significa la cosa paterna,  la cosa del padre; e ciò in analogia con altri nomi, come, ad es.: Res publica = la cosa pubblica, lo Stato, la repubblica, il governo; res rustica = la cosa rustica, l’agricoltura; res divina = la cosa divina, la cerimonia sacra, il sacrificio; res frumentaria = le vettovaglie, i viveri; res militaris = l’arte della guerra, la pratica militare, ecc…ecc…
Scomparso, nell’uso, il nome res, l’aggettivo patria restò e da solo venne adoperato nel significato originario e letterale di patria e cioè cosa del padre o dei padri e, in senso lato, di luogo o luoghi, terra o terre dove sono nati e vissuti i nostri padri, i nostri avi, i nostri antenati, i nostri progenitori, i padri, gli avi, gli antenati, i progenitori di tutti noi che formiamo la comunità nazionale. La Patria, insomma, è la cosa o la casa di tutti.

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Se è questo, come è questo, il significato vero, letterale, della nostra bella parola, se è questo, come è questo – e l’abbiamo ampiamente ed irrefutabilmente dimostrato, il suo vero D.N.A.; se è vero, come è vero che la Patria impersona (o è impersonata da) incarna (o è incarnata da), rappresenta (o è rappresentata da), uomini e cose della nostra piccola famiglia (padri, madri, nonni, bisnonni), ma anche cimiteri, chiese, monumenti, paesi, città, stato, territorio, capitale, gente, nazione, nome, bandiera, storia, glorie, memorie, tradizioni, passato, presente ed altro ancora; se è vero come è vero che Patria indica o viene a indicare il luogo dove sono nati e cresciuti i nostri antenati, i nostri amici, i nostri conoscenti; il luogo dove risiedono tutte le nostre persone più care, lo Stato cui è stato imposto il nome Italia; allora è giusto e doveroso che ogni prevenzione nei suoi confronti cada; che l’odiosa quarantena o delegittimazione cessi e che questa magnifica parola torni a inquietare, a interrogare, a risplendere nella nostra lingua del fulgore della sua immensa sacralità, fatta di tre cose fondamentali per ciascuno di noi: il senso dello Stato, la fedeltà ai valori nazionali, l’amore per la Bandiera: senza più pregiudizi, senza tentennamenti, senza falsi pudori, senza preclusioni ideologiche, soprattutto e prima di tutto, in ogni momento.

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La Patria - lo sappiamo tutti - va onorata e rispettata sempre, in pace come in guerra, in umiltà e silenzio. 
Con gioia e con spontaneità; come una volta. Come facevano i martiri d’un tempo. Come hanno fatto e fanno i veri patrioti. Come Pasqualino, se è lecito qui nominarlo, come i Caduti del 26 giugno della nostra martoriata città, come i “V.U.” del ’40 –’45.


* * *

Ora, il tempo passa. Cambiano le stagioni, Cambiano gli anni. Cambiano i millenni. Cambiano gli uomini. Cambiano le mode. Mutano le idee. Crollano le ideologie e i muri. Mutano i costumi. Ma la «Patria» resta. Non la si può ignorare. Tanto vero, che torna a far parlare di sé:
Scrive, infatti, il Righetto (Avvenire, marzo 2001): “Dopo un ostracismo durato lunghi decenni, - fino a pochi anni fa, chi faceva uso della parola “patria” passava facilmente, a dir poco, per “passatista”, “retrogrado”, se non addirittura, per “fascista” oppure per “studentello di scuola media” non ancora smaliziato, non ancora aperto al “credo” corrente – qualcuno timidamente ne riparla, ne riscopre l’antico valore…”

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Di “patria”, infatti, parlano, scrivono un po’ tutti, oggi, non per moda, ma probabilmente per un istintivo spirituale bisogno di sapere, di capire, di approfondire il nostro passato, da quello più lontano a quello più recente.
Senza infingimenti, senza nascondimenti, senza coloriture o coperture politiche, senza più il velo delle passioni. Con il cuore in mano. Secondo verità e giustizia.


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“Dopo un ostracismo durato lunghi decenni”, - ha annotato il Righetto (AVVENIRE, marzo 2001) -. Finalmente non passa più per fascista, retrogrado o ignorante chi fa uso per caso della parola “patria”…
…In nome di certo antifascismo, intere “fette di patria” non hanno avuto diritto di parola, sono state aristocraticamente ignorate, spesso delegittimate, talora censurate. 
Solo il lavoro di alcuni storici, in primis Renzo De Felice, ha contribuito ad incrinare non la Resistenza (esperienza fondamentale che consentì all’Italia l’approdo alla democrazia), ma quel mito che le fu costruito d’intorno da parte della “vulgata storiografica dominante”.  E quando parliamo di intere “fette di patria” ci riferiamo anche ad ampi settori del corpo elettorale…ed ai credenti che concretamente operarono per evitare ulteriori fratture”.

* * *

Di “patria” si occupa, spesso e volentieri, oggi, anche l’attuale Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi. E, a sentire chi ben lo conosce, lui lo fa con animo sincero, perché Egli nella patria crede veramente, perché vuole rendere più unita la grande famiglia ch’egli si trova a guidare e rappresentare, perché, guardando al futuro europeo della patria italiana e volendo che gli italiani diventino veramente e concretamente cittadini europei  a tutti gli effetti, desidera che essi riscoprano, senza false apparenze, il valore ed il significato della bella parola “patria”.
La fece una prima volta, per opporsi fermamente alla nota tesi dell’editorialista del “CORRIERE DELLA SERA” Galli della Loggia, che sosteneva, senza alcun vero fondamento “che la “patria” era morta all’indomani dell’8 settembre ’43 e che di essa non esisteva più alcuna traccia.  La “patria”, sostiene il Presidente della Repubblica, e con ragione, è sempre esistita e sempre esisterà nell’animo di tutti noi.
Lo ha fatto, di recente, altre due volte:
Nella prima, per sostenere che i volontari che avevano combattuto per la Repubblica di Salò “erano sicuramente animati da amor di patria”;
Nella seconda, per auspicare che in ogni casa sia tenuto ed esposto alla finestra il tricolore in occasione di storiche ricorrenze o di significativi eventi della vita nazionale; che si onorino sempre e dovunque i simboli della “patria”; che se ne canti con vero sentimento e senza falso pudore l’inno nazionale come espressione dell’unità e della storia della nostra “casa o patria” comune.

* * *

E, quando diciamo “cosa, casa, patria comune”, intendiamo dire, ripetendo cose già dette in questa sede, in questo stesso medaglione, “cosa, casa, patria” posseduta, avuta, abitata, appartenuta, comune ai nostri padri [dal latino “communis”, che compie il suo incarico (munis e munus) insieme con (cum) altri], che è pertinente a più persone o cose: insomma che si appartiene a tutti. A tutti gli Italiani, proprio a tutti: del nord o del sud; guelfi o ghibellini; fascisti o antifascisti; democratici o antidemocratici; monarchici o repubblicani; civili o militari.  Epperciò:
Sia a “quei militari”, maggioritari che, colti di sorpresa, storditi dalla rapidità degli eventi posteriori all’8 settembre, non essendo appunto indottrinati dalle nuove ideologie o non volendo, come allora si desiderava e si pretendeva, “mutare schieramento” quasi che essi fossero semplici “banderuole al vento”, fedeli al giuramento solennemente prestato ed al senso dell’onore, per fedeltà scelsero di continuare a combattere “in ispirito” la stessa guerra iniziata nel 1940. Combattendo la quale, essi “non avevano creduto di servire”, come erroneamente qualcuno afferma, oggi, ma “avevano di fatto servito” la patria; nella buona come nella cattiva sorte; da vincitori o da vinti;
Sia a quegli altri, minoritari che, “per fede” o per altro, scelsero di proseguirla, invece, o a fianco dei partigiani contro i nazifascisti o a fianco dei “repubblichini” contro gli alleati anglo-americani.


* * *


“Gli uni e gli altri, diversi e divisi, sì, nel comportamento e nelle scelte individuali – annota nel suo saggio C. VALLAURI - ma simili e concordi nella comune volontà di riscatto e nella ribellione morale”. “Le virtù individuali, in quei delicati frangenti del dopo l’8 settembre furono alla base – come osserva F. Perfetti - del desiderio di recuperare o far riacquistare all’Italia la sovranità e l’indipendenza perdute con l’armistizio, per cui l’8 settembre non significò affatto la “morte della patria”, anzi, in molti casi, fu la “riscoperta della Patria”.
E, giacché ci siamo, per farvi meglio capire quale rispetto, quanta venerazione si avesse nel passato per quella che abbiamo detto essere la “casa comune” di tutti trovo utile e profittevole richiamare alla memoria, leggervi, una bella pagina di storia dell’ultima Grande Guerra, troppo precipitosamente tolta di mezzo, archiviata, cancellata dal Libro della Storia, a torto ritenuta “scomoda o disdicevole”, raccontare un significativo gesto, individuale e collettivo, di cui attrice e protagonista fu la gioventù studiosa d’Italia.

* * *

Quando, ad ostilità appena iniziate, tra la fine del ’40 e il principio del ’41, si cominciò a capire in quale brutta avventura si era incautamente cacciato il nostro Paese e con quali e quanti nemici esso avesse a che fare, gli universitari d’Italia, che per legge erano dispensati dal servizio militare sino al 26° anno di età, non intendendo lasciare ulteriormente solo il loro Paese in una lotta immane, lunga e feroce, liberamente, spontaneamente, rinunziarono al beneficio di cui godevano e, arruolati che furono nell’esercito combattente, spesero da allora in poi ogni loro energia in difesa della “casa comune” ovverosia di un nobile “ideale di vita”, quello stesso che aveva animato gli eroi di “Curtatone e Montanara”, qual che fosse il colore del manto da lei - “la Patria” – indossato.
Fu “in quello spirito” che centinaia, migliaia di studenti, chiusi i libri e resi deserti gli atenei diventarono, dalla sera al mattino, “volontari universitari” o “v.u., come più brevemente e più vezzosamente essi si facevano riconoscere, mostrando le due lettere abbreviate ricucite sul risvolto delle maniche della giacca militare.
Fu così che distretti militari, caserme reggimentali, treni, traghetti, vie e piazze di paesi e di città, si riempirono di brio e di vitalità nuova, di “goliardia” gioiosa ed amorevole.
Fu così che i campi di battaglia d’Europa e d’Africa s’irrorarono, a più riprese, se non del sangue, almeno di un nobile sentire e soffrire.
Infatuazione, spavalderia, servile acquiescenza? No.
Direi piuttosto consapevolezza, coerenza, sentimento, atto dovuto!

* * *

C’erano, ricordo, tra essi, e non potevano mancare, tanti, tutti i compagni d’infanzia: i Michele Saliani, i Minguccio Novielli, i Minguccio Lobalsamo, i Cosimino Losurdo, i Giuseppino Adamo (di Luigi), i Franchino Novielli, i Dettino Mondelli, i Franchino Perna, i fratelli Tassielli, Vito Rocco Stangarone ecc. ecc.
C’erano tanti compagni di liceo e di università, di Bari e provincia: i Giovanni Immediato, i Fiore, i Pappalettera, i Franco Ricciardi (sposo felicissimo di Lina Maldari e padre amatissimo dell’avv. Vincenzo Ricciardi del Foro barese, di Enza, Mimmo, Gigi) – (Ah, come mi manchi, caro ed indimenticabile compagno di scuola, inseparabile amico, così provato e segnato dal gelo di Russia!) Ed altri ancora.
C’ero anch’io: fresco laureato, geniere reggimentale, “penna nera” della “JULIA”, intendente d’Armata.
Come ben dimostrano le foto della pagina qui accanto.




Intanto, mentre l’“ammalata” – la “Patria” – se ne sta ancora sotto osservazione e il nuovo bollettino medico tarda a venir fuori, l’opinione pubblica si domanda:
Resipiscenza? Ripensamento?  Fine della “quarantena”?
“Timeo ne non” mi vien fatto di rispondere con l’antico saggio latino e, sapete perché?
Perché “non abbiamo il senso unitario e condiviso del concetto di patria” come ha, di recente, acutamente osservato l’ex presidente della Repubblica on. Francesco Cossiga, che ha anche aggiunto: “E’ un male che ci portiamo dentro dal Risorgimento per diversi motivi: per la rottura fra cattolici e laici; per l’Unità fatta attraverso la diplomazia e le armi (cioè senza la partecipazione diretta del popolo); per la manipolazione della Storia della conquista del sud.  Giolitti si era messo su una strada costruttiva, ma poi è venuta la guerra (1ª Guerra Mondiale) che ha ulteriormente diviso gli Italiani fra neutralisti e interventisti; è venuto il Fascismo che ha diviso gli Italiani fra buoni e cattivi; è arrivata la “morte della Patria” con l’8 settembre. In seguito c’è stata l’ulteriore manipolazione storica che ci ha messo fra i vincitori della guerra. Non è vero, siamo fra gli sconfitti”.
Perché…il corpo sociale della nostra Comunità… non ha smaltito del tutto le numerose tossine accumulate in tanti anni di “delegittimazione” della nostra pur bella e antica parola e di “rimozione” o “sconfessione” del Passato che la incarna.

(Fonti delle notizie: Web, Google, Wikipedia, Prof. Giovanni Vernì, You Tube)