SI VIS PACEM, PARA BELLUM
Carlo Alberto dalla Chiesa (Saluzzo, 27 settembre 1920 – Palermo, 3 settembre 1982) è stato un generale e prefetto italiano.
Figlio di un generale dei Carabinieri, Romano dalla Chiesa, originario di Parma, e di Maria Laura Bergonzi, originaria di Piacenza, entrò nell'Arma durante la seconda guerra mondiale e partecipò alla Resistenza. Dopo la guerra combatté il banditismo prima in Campania e successivamente in Sicilia; dopo vari periodi a Firenze, Como, Roma e Milano, tra il 1966 e il 1973 fu nuovamente in Sicilia dove, con il grado di colonnello, comandante della Legione Carabinieri di Palermo, indagò su Cosa nostra. Divenuto generale di brigata a Torino dal 1973 al 1977, fu protagonista della lotta contro le Brigate Rosse; su sua proposta venne creato il "Nucleo Speciale Antiterrorismo" attivo tra il 1974 e il 1976. Promosso generale di divisione, fu nominato nel 1978 coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali. Dal 1979 al 1981 comandò la Divisione Pastrengo a Milano, competente per tutto il nord Italia; tra il 1981 e il 1982 fu vicecomandante generale dell'Arma.
Nel 1982 venne nominato anche prefetto di Palermo con l'incarico di contrastare Cosa nostra così come aveva fatto nella lotta al terrorismo. Nel capoluogo siciliano fu ucciso pochi mesi dopo il suo insediamento, nella strage di via Carini in cui perirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo. Fu insignito di medaglia d'oro al valore civile alla memoria; la salma è attualmente tumulata nel Cimitero della Villetta, a Parma.
Inizia da qui il nostro racconto su Carlo Alberto Dalla Chiesa, “Il nostro generale, il generale di tutti gli italiani”. La bellissima e avvincente fiction di RAI-1 racconta l'ufficiale, l'uomo pubblico, quello dello Stato, ma anche il marito, il padre, l'uomo di famiglia.
La serie interpretata magistralmente dall’attore Sergio Castellitto, si intitola “Il nostro generale”, dove l’aggettivo “nostro” è riconducibile alla famiglia – a cui viene dato ampio spazio nella serie TV, ma può esserlo anche a quei giovani, coraggiosi carabinieri ai quali viene concesso lo stesso, se non più ampio, spazio, quei ragazzi che dalla Chiesa scelse uno per uno, dando vita il Nucleo Speciale Antiterrorismo (ora denominato R.O.S.), quando iniziò la sua lunga, dura battaglia senza esclusione di colpi contro le Brigate Rosse, coloro che per lungo tempo una certa stampa definiva “le cosiddette brigate rosse”.
Ma quel “nostro” può essere riferito anche agli italiani tutti, per i quali l’ostinata determinazione di un uomo che ha pagato con la vita per il coraggio di essersi schierato in prima linea contro diversi e occulti nemici dello Stato, ha significato la vittoria della democrazia sul progetto eversivo della violenza armata di matrice politica e non.
E’ storia italiana recente, quella diretta da Lucio Pellegrini e Andrea Jublin, con Sergio Castellitto nei panni di Carlo Alberto dalla Chiesa: una serie che, mentre omaggia con calore costante il protagonista, percorre un ponte drammaticamente capace di unire gli anni di piombo a quelli degli omicidi, della guerra e delle stragi mafiose. Inizia proprio da qui, Il nostro generale, dal tragico attentato del 3 settembre 1982 in via Carini, a Palermo, in cui dalla Chiesa morì insieme alla seconda moglie, Emanuela Setti Carraro, e all’agente della scorta Domenico Russo.
Tornando indietro di quasi un decennio, tornando al 1973 data in cui il generale venne trasferito da Palermo, dove già era impegnato nella lotta alla mafia, a Torino, dove le brigate rosse avevano iniziato le loro prime azioni criminali. Comprese subito, dalla Chiesa, la vastità del fenomeno e con metodi innovativi, ben compreso quello dell’infiltrazione, riuscì a sferrare i primi importanti colpi a un nemico tanto sfuggente e allora sconosciuto quanto determinato e organizzato. Lo fece, appunto, mettendo insieme una squadra di giovani altrettanto coraggiosi, e appartiene a uno di loro la voce narrante che accompagna il susseguirsi dei fatti, qui ricostruiti, oltreché con tanto, prezioso materiale di repertorio con una regia poco interessata all’esibizionismo, anche se con diversi momenti da coinvolgente poliziesco, e una sceneggiatura tanto densa di avvenimenti pubblici quanto capace di sostare tra le mura domestiche di Carlo Alberto dalla Chiesa, nei suoi momenti con la moglie Dora Fabbo, sobriamente e puntualmente al fianco del marito, non dietro, ma accanto, e per questo senza dubbio importante, e in quelli coi suoi tre figli, Rita, Nando e Simona. Potente, in questo senso, un dialogo tra Carlo Alberto e il figlio Nando, in cui il padre chiede al figlio di aiutarlo a capire da dove nasca l’odio dei giovani per le generazioni precedenti, quello che il generale incontra ogni giorno portando avanti il suo lavoro. Nando, in modo franco, maturo e intelligente, gli offre una sua analisi storica, mentre si avverte, in mezzo alle loro non banali parole, una toccante tensione affettiva, tutta la bellezza di un rapporto tra genitore e figlio reso struggente dalla ferita sociale tra padri e figli che in quel momento storico taglia il Paese. Una ferita che attraversa l’anima del protagonista senza ridimensionarne la statura umana e professionale, seppure Il nostro generale non scansi i passaggi delicati sulla P2. La serie cerca di ricostruire un ritratto di Carlo Alberto dalla Chiesa affettuoso nel quale viene chiaramente raccontata la sua vita dedita al sacrificio supremo per il bene dell’Italia tutta.
La carriera militare, la Seconda Guerra Mondiale
Figlio dell'ufficiale dell'Arma Romano dalla Chiesa e di Maria Laura Bergonzi, scoppiata la seconda guerra mondiale entra nel 1941 nel Regio Esercito, dapprima frequentando la scuola allievi ufficiali di complemento di Spoleto, in seguito prestò servizio in Fanteria come sottotenente nel 120º Reggimento fanteria "Emilia" partecipando per dieci mesi all'occupazione del Montenegro, durante la quale ricevette due croci di guerra al valore combattendo contro l'esercito ed i partigiani jugoslavi.Nel 1942 transitò nei Reali Carabinieri (dove già prestava servizio il fratello Romolo), e come primo incarico venne mandato a comandare la tenenza di San Benedetto del Tronto, dove rimase fino alla proclamazione dell'armistizio dell'8 settembre 1943.
Il ruolo nella resistenza
Passò poi nel Gruppo Carabinieri di Ascoli Piceno; un giorno venne aggredito da un partigiano comunista. I partigiani della zona sospettavano che lui fosse responsabile del blocco dei rifornimenti di armi che gli alleati periodicamente inviavano via mare. Successivamente, a causa del suo rifiuto di collaborare nella caccia ai partigiani, venne preso di mira dai nazisti, ma riuscì a fuggire prima che le SS potessero catturarlo.
Dopo la fuga, operò poi nella resistenza italiana operando, fino al dicembre 1943, in clandestinità nelle Marche, unendosi alla "Brigata Patrioti Piceni" che operava nella zona di Colle San Marco, località di montagna, ove organizzò gruppi per fronteggiare i tedeschi. In seguito, divenne uno dei responsabili delle trasmissioni radio clandestine di informazioni per gli alleati, nascosto in un'abitazione privata presso la città di Martinsicuro, in Abruzzo.
Prima dell'armistizio, nel luglio del 1943, si era anche laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bari, città in cui il padre Romano era comandante della locale Legione Carabinieri. Nel dicembre dello stesso anno passò le linee nemiche raggiungendo le truppe alleate in una zona d'Italia già liberata del Regno del Sud. Venne poi inviato a Roma per seguire gli alleati nel loro ingresso nella capitale, dove nel luglio 1944 venne incaricato di garantire la sicurezza della sede della Presidenza del Consiglio dei ministri dell'Italia liberata. Sempre nel 1944 fu inviato a comandare una tenenza a Bari, dove riuscì a conseguire la seconda laurea, in scienze politiche, per la quale frequentò alcune lezioni tenute dall'allora docente Aldo Moro. Sempre a Bari conobbe Dora Fabbo figlia di un ufficiale dei carabinieri, la ragazza che nel 1946 diventerà sua moglie.
Dopo la guerra, per la sua partecipazione alla resistenza, gli venne attribuito il Distintivo di Volontario della Guerra di Liberazione, e guadagnò il passaggio in servizio permanente effettivo nell'Arma dei Carabinieri per merito di guerra.
Il banditismo in Campania e in Sicilia
Fu destinato poi in Campania, al Comando Compagnia di Casoria (Napoli), dove nel 1947 nacque la figlia Rita. Durante la permanenza a Casoria si distinse nelle operazioni di lotta al banditismo. Nel 1948 fu al comando di una Compagnia a Firenze. Dopo l'esperienza a Casoria fu inviato, nel 1949, in Sicilia, dove il suocero era comandante della Legione di Palermo, presso il Comando forze repressione banditismo, agli ordini del colonnello Ugo Luca, formazione interforze costituita per eliminare le bande di criminali indipendentisti nell'isola, come quella del bandito Salvatore Giuliano. Qui comandò prima il Gruppo Squadriglie di Corleone e poi svolse ruoli importanti e di grande delicatezza come quello di Capo di stato maggiore del Comando, meritando anche una medaglia d'argento al valor militare. In quel periodo indagò anche sulla scomparsa a Corleone, poi rivelatasi omicidio, del sindacalista socialista Placido Rizzotto, giungendo a indagare e incriminare l'allora emergente boss della mafia Luciano Liggio. Il posto di Rizzotto sarebbe stato preso dal politico comunista Pio La Torre che Dalla Chiesa conobbe in tale occasione e che in seguito fu anch'egli ucciso dalla mafia.
Nel novembre del 1949, a Firenze, nacque il suo secondo figlio Nando. Il 23 ottobre 1952, sempre a Firenze, nacque la terza figlia, Simona. Terminato nel luglio 1950 il periodo in Sicilia, venne trasferito prima a Firenze dove restò fino al 1952, successivamente a Como, dal 1955 a Milano e dal 1963 promosso tenente colonnello presso il comando della IV Brigata di Roma. Nel 1964 passò al nucleo di polizia giudiziaria presso la Corte d'appello di Milano, che poi comandò come gruppo di p.g..
Comandante della Legione carabinieri Sicilia
Dal 1966 al 1973 ritornò in Sicilia con il grado di colonnello, al comando della Legione carabinieri di Palermo.
Incominciò particolari indagini per contrastare Cosa nostra, che nel 1966 e 1967 sembrava aver abbassato i toni dello scontro che si era verificato nei primi anni sessanta. Intanto nel gennaio 1968 intervenne coi suoi reparti in soccorso delle popolazioni del Belice colpite dal terremoto, riportandone una medaglia di bronzo al valor civile per la personale partecipazione "in prima linea" alle operazioni, oltre che la cittadinanza onoraria di Gibellina e Montevago.
Nel 1969 riesplose in maniera evidente lo scontro interno tra le famiglie mafiose con la strage di Viale Lazio, nella quale perse la vita il boss Michele Cavataio. Nel 1970 il col. dalla Chiesa svolse indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, sposando fin dall'inizio la "pista droga", che ne spiegava il sequestro con una vendetta della mafia per gli articoli pubblicati contro il traffico di stupefacenti.
In tutt'altra direzione si mossero le indagini della Polizia, sotto la direzione del commissario Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo, anch'egli in seguito ucciso dalla mafia mentre cominciava a intuire le connessioni tra mafia e alta finanza.
Nel 1971 si trovò a indagare sull'omicidio del procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione. Sempre nello stesso anno partecipò alle indagini del caso del mostro di Marsala Michele Vinci, che aveva rapito e ucciso tre bambine a Marsala, indagini che furono coordinate dall'allora procuratore di Marsala, Cesare Terranova.
Sempre dalla fine degli anni '60, dalla Chiesa iniziò anche una proficua collaborazione con la Commissione parlamentare antimafia, cui presentò numerosi rapporti e schede di mafiosi e venne citato in audizione numerose volte dai suoi membri per illustrare lo stato delle inchieste antimafia. Il risultato delle indagini sulle cosche mafiose fu il famoso "Rapporto dei 114" del giugno 1971 (Albanese Giuseppe + 113), redatto congiuntamente da Polizia e Carabinieri il quale denunciava centinaia di mafiosi per associazione a delinquere, tra cui numerosi boss del calibro di Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calderone, Gerlando Alberti e Gaetano Fidanzati; le indagini che sfociarono nel rapporto vennero condotte da dalla Chiesa in prima persona e dal suo stretto collaboratore, il capitano Giuseppe Russo, e furono possibili grazie alla collaborazione degli uomini del commissario Boris Giuliano. L'innovazione voluta da dalla Chiesa fu quella di non mandare i boss arrestati al confino nelle periferie delle grandi città del Nord Italia; pretese invece che le destinazioni fossero le isole di Linosa, Asinara e Lampedusa.
La Guerra alle Brigate Rosse
Nell'ottobre 1973 divenne comandante della 1ª Brigata Carabinieri (con sede a Torino), con competenza sulle legioni Carabinieri di Torino, di Alessandria e di Genova che comprendevano le aree del Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria, e promosso al grado di generale di brigata.
Si trovò a contrastare il crescente numero di episodi di violenza portati avanti dalle Brigate Rosse e il loro progressivo radicarsi negli ambienti operai. Per fare ciò, utilizzò i metodi che già aveva sperimentato in Sicilia contro le organizzazioni mafiose, infiltrando alcuni uomini all'interno dei gruppi terroristici, al fine di conoscere perfettamente i loro schemi di potere interno.
Nell'aprile del 1974 le Brigate Rosse rapirono il giudice genovese Mario Sossi; in cambio della sua liberazione le BR volevano ottenere la liberazione di otto detenuti della Banda 22 ottobre.
Nel maggio dello stesso anno, il generale dalla Chiesa, insieme al procuratore generale di Torino, Carlo Reviglio Della Veneria, mise fine a un tentativo di fuga dal carcere di Alessandria di tre detenuti che contavano al loro interno un militante di Lotta Continua, Cesare Concu, e un ex rapinatore, Everando Levrero, unico sopravvissuto. Il gruppo aveva preso degli ostaggi, assistenti e operatori sociali, ma il magistrato e il generale ordinarono un intervento armato che si concluse con l'uccisione di due detenuti, di due agenti di custodia, del medico del carcere, di un insegnante e di un'assistente sociale.
Dopo avere selezionato dieci ufficiali dell'arma, dalla Chiesa creò nel maggio del 1974 una struttura antiterrorismo, denominata Nucleo Speciale Antiterrorismo, con base a Torino, che avrebbe dovuto limitarsi ad indagare sul sequestro Sossi ma allargò il suo raggio d'azione.
Nel settembre del 1974 il Nucleo riuscì a catturare a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco e fondatori delle Brigate Rosse, grazie anche alla determinante collaborazione di Silvano Girotto, detto "frate mitra", dirigendo le indagini dall'attuale Comando Provinciale Carabinieri di Torino, edificio unito alla Scuola allievi Carabinieri "Cernaia". Il regista dell'operazione fu il cap. Gustavo Pignero, giunto ai vertici del SISMI. Nell'ottobre dello stesso anno durante una perquisizione a Robbiano - frazione di Mediglia - vennero ritrovati alcuni dossier interni alle BR.
Nel febbraio del 1975 Curcio riuscì a evadere dal carcere di Casale Monferrato, grazie a un intervento di un nucleo delle BR, capeggiato dalla stessa moglie del brigatista, Margherita "Mara" Cagol.
Sempre nel 1975, i Carabinieri intervennero per la liberazione di Vittorio Vallarino Gancia, rapito dalle BR a scopo di estorsione; dopo un violento e drammatico scontro a fuoco con l'impiego di armi automatiche e bombe a mano, l'ostaggio venne liberato incolume, ma nel corso dell'azione morirono l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso e il capo del nucleo brigatista Margherita Cagol, e furono gravemente feriti altri due carabinieri, tra cui il tenente Umberto Rocca che perse un braccio e un occhio. Nonostante i successi conseguiti nella lotta al terrorismo nel 1976 il Nucleo Antiterrorismo di dalla Chiesa venne sciolto, a seguito delle critiche formulate da più parti ai metodi utilizzati nell'infiltrazione degli agenti tra i brigatisti e sulla tempistica dell'arresto di Curcio e Franceschini.
Rimase al comando della brigata CC di Torino fino al marzo 1977, e a maggio dalla Chiesa fu nominato coordinatore del Servizio di sicurezza della Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena con l'incarico specifico di selezionare gli istituti di pena da destinare a carceri di massima sicurezza e di dirigerne la sorveglianza; così in luglio, facendo largo uso di uomini e mezzi (come elicotteri), alcune centinaia di terroristi di destra e di sinistra di elevata pericolosità furono trasferiti nelle prime carceri speciali allestite da dalla Chiesa. In dicembre fu promosso al grado di generale di divisione. Nel febbraio del 1978 dalla Chiesa perse la moglie Dora, stroncata in casa a Torino da un infarto. Per il generale fu un duro colpo, che lo lasciò per qualche tempo nella disperazione e lo indusse successivamente a dedicarsi completamente alla lotta contro i brigatisti.
Il 9 agosto 1978 fu infatti nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali per diretta determinazione governativa. Era una sorta di Nucleo operativo speciale, alle dirette dipendenze del ministro dell'Interno Virginio Rognoni, creato con particolare riferimento alla lotta alle Brigate Rosse e alla ricerca degli assassini del leader democristiano Aldo Moro, rapito e ucciso pochi mesi prima.
La concessione di poteri speciali a dalla Chiesa fu veduta da taluni come pericolosa o impropria (le sinistre estreme la catalogarono come "atto di repressione"). Ricevuto l'incarico dalla Chiesa decise di stringere il cerchio intorno ai vertici delle Brigate Rosse. In una perquisizione successiva a due arresti (Lauro Azzolini e Nadia Mantovani) in via Montenevoso a Milano, vennero ritrovate alcune carte riguardanti Aldo Moro, tra le quali un presunto memoriale dello stesso leader democristiano.
Nel dicembre 1979 venne trasferito nuovamente a Milano, promosso al comando della Divisione interregionale Pastrengo.
Particolarmente importanti furono i successi contro le Brigate Rosse, ottenuti a seguito dell'arresto di Rocco Micaletto e di Patrizio Peci nel febbraio 1980, che con le sue rivelazioni contribuì alla iniziale sconfitta delle BR, come l'irruzione di via Fracchia, con cui fu inflitto un duro colpo alla colonna genovese che si ricostituì presto con l'arrivo di nuovi aderenti soprattutto giovani, ma anche inesperti.
Il Generale restò al comando della divisione Pastrengo sino al dicembre 1981.
Vicecomandante dell’Arma
Il 16 dicembre 1981 infatti dalla Chiesa venne nominato Vicecomandante generale dell'Arma, carica che aveva già rivestito il padre. Si trattava della massima carica raggiungibile per un ufficiale generale dei Carabinieri, giacché all'epoca il Comandante generale dell'Arma non poteva essere un Carabiniere (all'epoca i Carabinieri erano ancora la prima Arma dell'Esercito, con la particolarità che i suoi ufficiali generali non uscivano dall'Arma per confluire nello Stato maggiore così come i generali dell'Esercito, con la sola eccezione del Comandante, non potevano entrare nel Comando Generale dell'Arma). Il comandante generale, così come per la Guardia di Finanza, non poteva essere un carabiniere, ma un generale di corpo d'armata dell'Esercito come la legge prevedeva per evitare che i due Corpi militari che hanno poteri di polizia godessero di una eccessiva autonomia. All'epoca il Comandante Generale era Lorenzo Valditara. Rimase in tale incarico fino al 5 aprile 1982.
Prefetto di Palermo e il matrimonio con Emanuela Setti Carraro
Nominato il 6 aprile 1982 dal Consiglio dei ministri prefetto di Palermo, posto contemporaneamente in congedo dall'Arma, il 30 aprile s'insediò in città, il giorno dell'omicidio di Pio La Torre, che era stato tra coloro che avevano sostenuto la sua nomina a prefetto. Il tentativo del governo Spadolini I era quello di ottenere contro Cosa nostra gli stessi brillanti risultati ottenuti contro le Brigate Rosse. Dalla Chiesa inizialmente si dimostrò perplesso su tale nomina, ma poi venne convinto dal ministro Virginio Rognoni, che gli promise poteri fuori dall'ordinario per contrastare la guerra tra le cosche che insanguinava l'isola.
Il 5 aprile 1982, giorno in cui fu collocato in ausiliaria con il grado di generale di corpo d'armata, egli tenne il discorso di commiato dall'Arma presso il Comando Generale, il cui testo integrale è stato pubblicato nel 2018.
Il 10 luglio nella cappella del castello di Ivano-Fracena, in provincia di Trento, sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro.
A Palermo lamentò più volte il mancato rispetto degli impegni assunti dal governo e la carenza di sostegno da parte dello Stato.
Esprimendo la sua disapprovazione per il fatto che i promessi "poteri speciali" tardavano ad arrivare (e in realtà lo Stato non glieli concesse mai: sarebbero arrivati solo al suo successore), disse amaramente: “””Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì, se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi, non possiamo delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti.“””
Nel luglio del 1982 dalla Chiesa dispose che fosse trasmesso alla Procura di Palermo il cosiddetto rapporto dei 162. Tale rapporto, steso congiuntamente da polizia e carabinieri, ricostruiva l'organigramma delle famiglie mafiose palermitane attraverso scrupolose indagini e riscontri.
Nell'agosto del 1982 il generale rilasciò un'intervista a Giorgio Bocca, in cui dichiarò ancora una volta la carenza di sostegno e di mezzi, necessari per la lotta alla mafia, che nei suoi piani doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese alla criminalità la massiccia presenza di forze di polizia.
Tali dichiarazioni provocarono il risentimento dei Cavalieri del Lavoro catanesi Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro (i proprietari delle quattro maggiori imprese edili catanesi, alle quali si riferiva Dalla Chiesa), e l'inizio di una polemica in forma ufficiale da parte dell'allora presidente della Regione siciliana Mario D'Acquisto, che invitò pubblicamente Dalla Chiesa a specificare il contenuto delle sue dichiarazioni e ad astenersi da tali giudizi qualora tali circostanze non fossero state provate.
A fine agosto, con una telefonata anonima fatta ai carabinieri di Palermo probabilmente dal boss Filippo Marchese, venne annunciato per la prima volta l'attentato al generale, dichiarando che, dopo gli ultimi omicidi di mafia: “””L’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa”””.
L’APPUNTAMENTO CON LA MORTE
Alle ore 21:15 del 3 settembre 1982, ventiquattro giorni prima del suo sessantaduesimo compleanno, la A112 sulla quale viaggiava il prefetto, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata in via Isidoro Carini a Palermo da una BMW, dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47, che uccisero il prefetto e la moglie.
Nello stesso momento l'auto con a bordo l'autista e agente di scorta, Domenico Russo, che seguiva la vettura del Prefetto, veniva affiancata da una motocicletta, dalla quale partì un'altra micidiale raffica, che ferì gravemente Russo, il quale morì dopo dodici giorni all'ospedale di Palermo.
I funerali e la reazione dell'opinione pubblica
L'assassinio Dalla Chiesa dopo l'assassinio Moro è certamente il delitto più grave della storia della Repubblica. Le carte di una sentenza giudiziaria sono di solito raggelanti. Le carte sulla vita del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa rappresentano invece la certificazione drammatica e autorevole di verità finora negate, nascoste o manipolate.
Il giorno dei funerali, che si tennero il 4 settembre nella chiesa palermitana di San Domenico, una grande folla protestò contro le presenze politiche, accusandole di avere lasciato solo il generale. Vi furono attimi di tensione tra la folla e le autorità, sottoposte a lanci di monetine e insulti al limite dell'aggressione fisica. Solo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini venne risparmiato dalla contestazione.
La figlia Rita pretese che fossero immediatamente tolte di mezzo le corone di fiori inviate dalla Regione Siciliana (era presidente Mario D'Acquisto, che aveva duramente polemizzato con il prefetto) e volle che sul feretro del padre fossero deposti il tricolore, la sciabola, il berretto della sua divisa da Generale con le relative insegne e la sciarpa azzurra da ufficiale che hanno sempre fatto parte della sua vita (vedi intervista Rita Dalla Chiesa - La Vita in diretta).
Dell'omelia del cardinale Pappalardo, fecero il giro dei telegiornali le seguenti parole (citazione di un passo di Tito Livio), che furono liberatorie per la folla, mentre causarono imbarazzo tra le autorità (il figlio Nando le definì "una frustata per tutti”):
"""Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici... e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo”””.
LE CONDANNE
Per i tre omicidi sono stati condannati all'ergastolo come mandanti i vertici di Cosa nostra, ossia i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta nel 1992 decise di rompere il silenzio dopo dieci anni e raccontò anche che nel 1979 i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti gli avevano riferito che Giulio Andreotti avrebbe chiesto a Cosa Nostra di uccidere il generale Dalla Chiesa "perché conosceva segreti connessi al caso Moro e suscettibile di infastidire seriamente Andreotti. Forse gli stessi segreti che erano noti a Mino Pecorelli, il giornalista assassinato quello stesso anno. …Secondo quanto ho dedotto dalle mie conversazioni con Bontate, l'omicidio Pecorelli era stato un delitto "fatto" da Cosa Nostra, e più precisamente da lui stesso e da Badalamenti, su richiesta dei cugini Salvo, "richiesti" a loro volta dall'onorevole Andreotti. Due anni dopo, nel 1982, Badalamenti mi ripeté in termini assolutamente identici la versione di Bontate. Pecorelli era stato assassinato perché stava appurando "cose politiche" segretissime collegate al caso Moro. Giulio Andreotti era estremamente preoccupato che potessero trapelare questi segreti di cui era a conoscenza anche il generale Dalla Chiesa. "Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui", commentò Badalamenti, "non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio nei suoi confronti". In effetti, Dalla Chiesa non aveva avuto tempo di minacciare seriamente Cosa Nostra".
Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell'attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia, entrambi all'ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci a 14 anni di reclusione ciascuno.
Il 4 aprile 2017 Il Fatto Quotidiano riporta la rivelazione del collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino secondo cui l'ex eurodeputato DC Francesco Cosentino, vicino all'onorevole Giulio Andreotti, sarebbe il mandante dell'omicidio del prefetto dalla Chiesa. Tale notizia risale all'audizione in commissione antimafia del Procuratore Generale di Palermo Roberto Scarpinato.
Nel 2018 il collaboratore di giustizia Simone Canale, affiliato alla cosca Alvaro di Sinopoli, rivela che il boss Nicola Alvaro, originario di San Procopio, detto “u zoppu”, appartenente alla famiglia degli Alvaro, detti "codalonga", era presente all'agguato contro il generale dalla Chiesa, confermando le precedenti accuse contestategli nel 1982 e decadute perché il testimone contro il boss Alvaro era stato ritenuto inattendibile.
I Depistaggi
I magistrati che a Pavia hanno condotto la seconda inchiesta (1994-2004) sulla morte di Enrico Mattei e a Palermo la terza sul caso De Mauro hanno accertato che la "pista droga", privilegiata a Palermo dai carabinieri del col. Dalla Chiesa, costituiva il perno di un depistaggio volto a impedire che l'uccisione del giornalista fosse collegata a quella di Enrico Mattei. Nel marzo-aprile 1970 Mauro De Mauro aveva accettato di supportare il presidente dell'Ente minerario siciliano Graziano Verzotto in una campagna mediatica contro i dirigenti dell'Eni che si opponevano alla costruzione del metanodotto Algeria-Sicilia e il 21 luglio successivo aveva ricevuto dal regista napoletano Francesco Rosi l'incarico di stendere una bozza di sceneggiatura sull'ultimo viaggio di Mattei in Sicilia in preparazione del film Il caso Mattei, uscito nelle sale cinematografiche nel successivo 1972. Nel corso delle sue inchieste giornalistiche il redattore de L'Ora di Palermo aveva acquisito notizie sui retroscena della morte del manager pubblico che dovevano rimanere segrete. Viceversa la questura palermitana aveva subito configurato responsabilità a carico dell'avv. Vito Guarrasi e dell'ex sen. Graziano Verzotto, ma ai primi del novembre 1970 le sue indagini furono bloccate dai vertici nazionali della polizia di stato e dei servizi segreti, su direttive di politici romani.
Un secondo depistaggio dei carabinieri di Palermo si rese necessario nell'estate del 1971 dopo l'arresto dei boss mafiosi Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone e la brutta figura rimediata da Graziano Verzotto davanti alla commissione parlamentare antimafia (26 marzo 1971). Ed ecco il 13 settembre 1971 il col. Dalla Chiesa e il suo braccio destro cap. Giuseppe Russo inscenare un farsesco interrogatorio dell'ex senatore di origini padovane per «potenziare la pista mafiosa», rivelatasi inconsistente. Classificato dai giudici del tempo come «anomalo» e una «ingerenza nell'istruttoria in corso», esso è stato considerato da una sentenza del 2011 una «vera e propria sceneggiata, orchestrata tanto per costruire un atto processualmente spendibile» a favore di Verzotto.
Interferenze nell'inchiesta Feltrinelli
Fu sempre un esposto presentato dal gen. Dalla Chiesa alla magistratura torinese a metà marzo 1975 a indurre il giudice Ciro De Vincenzo a spogliarsi dell'inchiesta sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli cui attendeva da tre anni. Alla fine il magistrato milanese venne prosciolto dall'accusa di connivenza con le brigate rosse, ma intanto l'indagine passò di mano in una fase cruciale, per cui i colleghi di De Vincenzo mancarono l'occasione di identificare il misterioso "Gunther", un collaboratore dell'editore sospettato di aver provocato il fatale scoppio di Segrate, col terrorista nero Berardino Andreola. Considerato un confidente dei carabinieri, costui si era consegnato volontariamente al col. Giuseppe Russo il giorno successivo (2 febbraio 1975) al fallito sequestro dell'ex sen. Graziano Verzotto a Siracusa. Subito dopo furono un interrogatorio-farsa (5 marzo 1975) e un rapporto giudiziario (5 aprile 1975) di due ufficiali dei carabinieri, già collaboratori del gen. Dalla Chiesa, a liquidare il fascista romano come mitomane, ponendo le premesse del suo proscioglimento in sede giudiziaria.
Contemporaneamente una ricostruzione addomesticata del fallito sabotaggio del traliccio di Segrate, registrata da Andreola su un'audiocassetta e ritrovata nell'ottobre del 1974 dai carabinieri del gen. Dalla Chiesa nel covo brigatista di Robbiano di Mediglia, riuscì a convincere i magistrati milanesi del carattere volontario della presenza dell'editore milanese sotto il traliccio di Segrate e, quindi, dell'accidentalità del ferale scoppio. Al contrario, i «carabinieri del Nucleo speciale» del gen. Dalla Chiesa non seppero fornire notizie utili al giudice torinese Giancarlo Caselli, che li aveva incaricati di indagare su Andreola, un fascista già volontario della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini che si spacciava per discepolo di Feltrinelli. Eppure costui era ben noto al suo fidato ex collaboratore col. Russo che, pur informato in anticipo dei progetti criminali del terrorista nero, non aveva mosso un dito per prevenire l'agguato siracusano al sen. Verzotto del 1 febbraio 1975.
La guerra asimmetrica al terrorismo
È noto che i suoi successi investigativi il gen. Dalla Chiesa li conseguì unicamente contro il terrorismo di sinistra nelle vesti dapprima di responsabile del "Nucleo speciale antiterrorismo", operante a Torino fra il maggio 1974 e il luglio 1975, e poi – a partire dall'agosto 1978 – di «Coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo», alle dirette dipendenze del ministro degli Interni Virgilio Rognoni. Coadiuvato da un ristretto numero di ufficiali qualificati e sganciati dalle strutture territoriali dell'Arma, i suoi uomini avevano saputo adottare tecniche investigative innovative, a partire dall'infiltrazione delle organizzazioni terroristiche. In compenso non si è mai capito perché, in piena "strategia della tensione" e in tempi di conclamati "opposti estremismi", il gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa non abbia ottenuto risultati altrettanto brillanti nei confronti dell'eversione di estrema destra. E nemmeno perché il suo reparto operativo sia stato sciolto a metà 1975 quando aveva messo all'angolo le brigate rosse, che così ebbero modo di riprendersi e di portare il loro attacco al cuore dello Stato col sequestro e l'uccisione dell'on. Aldo Moro. Stupisce infine che l'apposito Comitato di crisi, costituito dal ministro degli Interni Francesco Cossiga nel marzo del 1978, non si sia avvalso della sua esperienza e delle sue competenze per scoprire il carcere del popolo in cui le brigate rosse tenevano rinchiuso il loro illustre prigioniero. Il grave lutto familiare che l'aveva colpito (la morte dell'amata consorte Dora Fabbo) non spiega in alcun modo la mancata valorizzazione dei suoi uomini, tutti provvisti di grandi capacità operative. Di qui il sospetto che tale organismo, infarcito di esponenti della loggia P2 di Licio Gelli, non fosse particolarmente interessato alla liberazione dell'on. Moro, un politico che sembrava ormai rassegnato all'ingresso dei comunisti di Berlinguer nella stanza dei bottoni. Tale interpretazione risulta avvalorata dagli strepitosi risultati riportati dal gen. Dalla Chiesa contro le brigate rosse dopo il suo richiamo in servizio tramite l'utilizzo di infiltrati e di pentiti, come da lui riconosciuto nelle sue relazioni semestrali.
Altre perplessità le ha infine suscitate l'intromissione del gen. Dalla Chiesa nell'inchiesta palermitana sull'uccisione di due giovani carabinieri ad Alcamo Marina (26 gennaio 1976). Quella volta furono confessioni strappate con la tortura da carabinieri del col. Russo a far condannare all'ergastolo persone risultate innocenti dopo oltre vent'anni di ingiusta detenzione. Il loro proscioglimento fa dell'eccidio di Alcamo Marina un caso giudiziario tuttora irrisolto, su cui aleggia l'ombra di una provocazione politica fallita per impreviste complicazioni.
LA LOTTA ALLA MAFIA
Consapevole che lo «Stato» gli aveva affidato il coordinamento della lotta contro Cosa Nostra più per perpetuare «la tranquillità della sua esistenza», che per «combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa», il gen. dalla Chiesa si era premunito con la richiesta di poteri adeguati e un approccio decisamente realistico alla sfida intrapresa. Così nell'intervista rilasciata il 10 agosto 1982 precisò al giornalista di Repubblica Giorgio Bocca che il suo obiettivo era quello «di contenere» e non certo «di vincere, di debellare» la mafia, presentata come un «fenomeno interno allo Stato, di cui condiziona il pulsare della vita quotidiana come le scelte strategiche». E pochi giorni prima di essere ucciso confermò ai familiari la disponibilità «a fare qualche sconto» ai democristiani «legati alla mafia», purché gli fosse consentito di «togliere il marcio» accumulatosi nei rapporti fra Cosa Nostra e politica nel corso dei decenni.
Anziché manifestazione di cinismo, simili propositi si prestano ad essere interpretati come prova di realismo, perché nascevano dalla consapevolezza che un'azione di contrasto frontale a Cosa Nostra era destinata all'insuccesso senza l'appoggio convinto e solidale di tutte le forze politiche e di tutte le Istituzioni. Alla prova dei fatti la sua disponibilità a non delegittimare il maggior partito di governo con la riesumazione di vecchi scheletri custoditi negli armadi dei diversi Palazzi del potere non bastò a superare la diffidenza della corrente andreottiana, da lui qualificata come «la famiglia politica più inquinata» dell'isola. Di qui il sospetto che all'agguato mafioso di via Carini non sia rimasta estranea una volontà politica ancora legata al voto di scambio e alla logica della convivenza non conflittuale con Cosa Nostra. Non per niente Tommaso Buscetta ritardò fino al 1994 le sue rivelazioni in tema di rapporti fra politici e uomini d'onore, avendo in precedenza constatato la mancanza di «una seria volontà dello Stato di combattere il fenomeno mafioso» e la permanenza nella «vita politica attiva» dei «personaggi mafiosi di cui» avrebbe dovuto «parlare».
L’ARAMA SEGRETA
Allo stesso approccio realistico dev'essere ricondotta l'adombrata disponibilità del gen. Dalla Chiesa ad usare delicati dossier in suo possesso vuoi come arma di pressione nei confronti di una certa classe politica restia a prendere le distanze dalla mafia, vuoi come polizza di assicurazione sulla propria vita. Confermata da familiari e da altre fonti, l'ipotesi ha acquistato ulteriore credito dalla sparizione, all'indomani della sua uccisione, dei documenti conservati nella sua cassaforte e nella sua borsa personale. Difficile, però, credere che essi coincidessero con alcune delle carte da lui ritrovate nel covo brigatista milanese di via Monte Nevoso e non consegnate ai magistrati, visto che neppure il secondo memoriale Moro, reso pubblico nel 1990, conteneva «novità inedite… rispetto a quello del 1978». Al possesso di materiale di diverso genere fanno pensare i suoi numerosi incontri con Mino Pecorelli, un giornalista in grado di pubblicare notizie riservate perché notoriamente ammanigliato coi servizi segreti. In effetti su OP (Osservatorio Politico) del 18 ottobre 1978 il principe del giornalismo scandalistico italiano aveva scritto che dalla Chiesa («il generale Amen») era riuscito a individuare la prigione nella quale le brigate rosse tenevano prigioniero Aldo Moro e ne aveva informato il ministro dell'Interno, ma Cossiga non sarebbe intervenuto perché «costretto a non intervenire». Con la soppressione di Moro il generale era diventato un pericoloso testimone, per cui Pecorelli sentenziò che di lì a poco sarebbe stato il suo turno. Lo stesso Pecorelli venne ucciso pochi giorni dopo aver dichiarato di voler pubblicare integralmente su OP un dossier sulle responsabilità politiche del sequestro Moro.
A ben riflettere, di notizie imbarazzanti per la classe politica di governo il gen. Dalla Chiesa doveva averne acquisite molte nel corso del suo quarantennale servizio, a partire dai retroscena del delitto Mattei – probabile oggetto di un suo interessamento la sera stessa della sciagura aerea di Bascapé (27 ottobre 1962) - per finire con quelli De Mauro, Feltrinelli, Moro, ecc. Risulta pertanto plausibile che abbia confidato su informazioni riservate di questo genere, per vincere le ostilità di certi settori dell'Arma e del mondo politico ed ottenere, in rapida successione, il coordinamento della lotta alle brigate rosse (1978) e alla mafia (1982), il comando della divisione "Pastrengo" (1979) e il vice comando dell'Arma (1981), massima carica a cui potesse allora aspirare un generale dei carabinieri.
UN UOMO VERO
Anche i comportamenti del gen. Dalla Chiesa poco compatibili col galateo giuridico o costituzionale appaiono in sintonia con la funzione di stabilizzazione politica in chiave conservatrice svolta dall'Arma dei carabinieri nei primi decenni del dopoguerra, oltre che con le sue personali estrazione sociale e formazione culturale. Il figlio Nando gli ha attribuito una visione paternalistica della democrazia, definendolo in Delitto imperfetto un «uomo del Novecento con profonde radici nel secolo precedente», vale a dire nell'Ottocento. Il senso delle gerarchie e l'innata deferenza nei confronti della legge e dell'ordine costituito fecero di lui un leale servitore dello Stato anche negli anni più bui della Guerra Fredda, quando componenti non marginali delle istituzioni strizzarono l'occhio all'eversione di destra. Lo stesso figlio Nando lo riteneva «capace anche di spregiudicati compromessi, ma sempre nel vincolo di quello che egli riteneva fosse il superiore interesse dello Stato». Emblematica in questo senso la battuta attribuitagli da Elda Barbieri, vedova De Mauro: «Signora, non insista su questa tesi, perché, se così fosse, ci troveremmo dinanzi ad un delitto di Stato e io non vado contro lo Stato». Di qui la decisione dei giudici di una Corte d'Assise di Palermo di elevarlo, nella sentenza emessa il 10 giugno 2011, a «prototipo» dei «tanti, troppi servitori fedeli dello Stato, custodi della rispettabilità e dell'onore delle istituzioni», per i quali era «intollerabile anche la sola idea che all'interno» delle stesse «avesse potuto germinare un complotto» della «natura e portata» messe in luce dalla loro inchiesta sulla scomparsa del giornalista.
Un acuto sentimento dell'onore e della legalità potrebbero, in compenso, spiegare le posizioni politicamente scomode assunte da un certo momento in avanti. Nella citata deposizione davanti ai giudici milanesi (12 maggio 1981), Carlo Alberto dalla Chiesa attribuì lo scioglimento del suo reparto torinese antiterrorismo al fatto che esso «aveva ormai assunto per molti versi la fisionomia più ampia di un nucleo contro il terrorismo in genere», dopo che egli stesso aveva disposto che «un ufficiale e sei, sette sottufficiali si dedicassero esclusivamente a penetrare l'ambiente di estrema destra». Secondo il figlio Nando il padre avrebbe anche dato, sia pure «a titolo esclusivamente personale», un «contributo alle indagini per la strage di Bologna» del 2 agosto 1980, che avevano incontrato «ostacoli e vischiosità in alcuni livelli regionali dell'Arma». Avrebbe poi assunto il coordinamento della lotta alla mafia per un alto senso del dovere, cioè per poter «continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli». Negli anni di servizio trascorsi in Sicilia tra il 1949 e il 1973 aveva avuto modo di conoscere a fondo la pervasività di Cosa Nostra e dei suoi legami con la politica. Nel 1982 l'evoluzione del partito comunista e la riduzione della sua presa sulla società civile devono averlo convinto del venir meno anche di quest'ultimo alibi politico. Pagò con la vita la sua generosità e l'affezione alla divisa restituendo, a giudizio del figlio Nando, «credibilità e prestigio a istituzioni militari» – in primis l'Arma dei Carabinieri – «che nella coscienza dei più si erano ridotte a laboratorio di complotti o a inesauribile alimento della satira popolare». Diversi ambienti politici non lo assecondarono affatto nell'opera di moralizzazione della vita pubblica, ma un decennio più tardi finirono tutti travolti dall'implosione della Prima Repubblica sotto il peso di Tangentopoli.
ONORIFICENZE PIU’ IMPORTANTI:
- Avanzamento per meriti di servizio: Ufficiale subalterno capace ed ardito, già combattente nell'Arma di Fanteria, rimasto al comando di una Tenenza, isolata, durante l'occupazione tedesca, con costante e perseverante azione di propaganda organizzava di propria iniziativa nel territorio giurisdizionale un'efficiente resistenza fra civili e militari, recuperando uomini, armi, munizioni e naviglio e provvedendo alla costituzione ed armamento di nuclei che sapientemente indirizzava e fiancheggiava nella loro azione di rivolta con decisione ed alto sprezzo del pericolo. Individuato da elementi nazisti e fascisti, malgrado fosse minacciato di morte, non desisteva dal suo patriottico atteggiamento, rimaneva al suo posto di comando e, superando conflitti a fuoco con l'avversario, organizzava, fra l'altro, via mare, numerose partenze di partigiani condannati a rappresaglie, di profughi e di prigionieri inglesi, finché saputo che si stava concretando la sua violenta soppressione, preferiva unirsi alle bande armate da lui costituite che capeggiava con ardimento e vasta capacità organizzativa. Alto esempio di sicura fede e di preclare virtù militari.
- Ferito in servizio.
- Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare d’Italia: Ufficiale Generale dell'Arma dei Carabinieri, già postosi in particolare evidenza per le molteplici benemerenze acquisite nella lotta per la resistenza e contro la delinquenza organizzata, in un arco di nove anni ed in più incarichi – ad alcuno dei quali chiamato direttamente dalla fiducia del Governo – ideava, organizzava e conduceva, con eccezionale capacità, straordinario ardimento, altissimo valore e supremo sprezzo del pericolo una serie ininterrotta di operazioni contro la criminalità eversiva. Le sue eccelse doti di comandante, la genialità delle concezioni operative, l'infaticabile tenacia, in momenti particolarmente travagliati della vita del Paese e di grave pericolo per le istituzioni, concorrevano in modo rilevante alla disarticolazione delle più agguerrite ed efferate organizzazioni terroristiche, meritandogli l'unanime riconoscimento della collettività nazionale. Cadeva a Palermo, proditoriamente ucciso, immolando la sua esemplare vita di Ufficiale e di fedele servitore dello Stato. Territorio Nazionale 1º ottobre 1973 – 5 maggio 1982.
- Medaglia d’oro al valor civile: Già strenuo combattente, quale altissimo Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, della criminalità organizzata, assumeva anche l'incarico, come Prefetto della Repubblica, di respingere la sfida lanciata allo Stato Democratico dalle organizzazioni mafiose, costituenti una gravissima minaccia per il Paese. Barbaramente trucidato in un vile e proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sublimava con il proprio sacrificio una vita dedicata, con eccelso senso del dovere, al servizio delle Istituzioni, vittima dell'odio implacabile e della violenza di quanti voleva combattere. Palermo, 3 settembre 1982.
….Gli attuali eventi storici ci devono insegnare che, se vuoi vivere in pace,
devi essere sempre pronto a difendere la tua Libertà….
La difesa è per noi rilevante
poiché essa è la precondizione per la libertà e il benessere sociale.
Dopo alcuni decenni di “pace”,
alcuni si sono abituati a dare la pace per scontata:
una sorta di dono divino
e non, un bene pagato a carissimo prezzo dopo innumerevoli devastanti conflitti.…
(Fonti: https://svppbellum.blogspot.com/, Web, Google, Cittànuova, Wikipedia, You Tube)