mercoledì 12 febbraio 2025

Porzûs, nei pressi di Cividale del Friuli, 7 febbraio 1945: “Attacco alle malghe”, ovvero l’eccidio a cura di un gruppo di circa cento partigiani comunisti appartenenti ai battaglioni GAP "Ardito", "Giotto", "Amor" e "Tremenda" e capeggiati da Mario Toffanin "Giacca". L'ordine ai gappisti di trucidare altri partigiani della “OSOPPO” – secondo la ricostruzione processuale – fu dato dal vicesegretario della federazione del PCI di Udine – Alfio Tambosso “Ultra”. Da tempo è attivo l'iter procedurale per dichiarare le malghe di Porzûs monumento nazionale. Un dirigente dell'ANPI si è opposto all'iniziativa, così come alla proposta di intitolare alcune vie cittadine ai «martiri di Porzûs». La ricostruzione storica di Marcello Veneziani.








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LA STRAGE DI PORZUS

L'eccidio di Porzûs consistette nell'uccisione, fra il 7 e il 18 febbraio 1945, di diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) delle Brigate Osoppo, formazioni di orientamento cattolico e laico-socialista, da parte di un gruppo di partigiani – in prevalenza gappisti – appartenenti al Partito Comunista Italiano. L'evento, considerato uno dei più tragici e controversi della Resistenza italiana, fu ed è tuttora fonte di numerose polemiche in ordine ai mandanti dell'eccidio e alle sue motivazioni. Le vicende legate a Porzûs hanno travalicato il loro contesto locale fin dagli anni in cui si svolsero, entrando a far parte di una più ampia discussione storiografica, giornalistica e politica sulla natura e gli obiettivi immediati e prospettici del PCI in quegli anni, nonché sui suoi rapporti con i comunisti jugoslavi e con l'Unione Sovietica.





Contesto storico: i partigiani jugoslavi nella Slavia friulana

Nella storia della guerra di liberazione, la situazione nelle estreme propaggini nord-orientali dell'allora territorio italiano presenta delle caratteristiche del tutto peculiari. Abitata in parte da popolazioni slovene – ampiamente maggioritarie in varie zone – l'area comprende al proprio interno anche una regione denominata all'epoca "Slavia veneta" (oggi chiamata prevalentemente Slavia friulana, in sloveno Benečija) appartenuta per secoli alla Repubblica di Venezia e incorporata al Regno d'Italia fin dal 1866. Durante la seconda guerra mondiale, nell'aprile 1941 l'Italia partecipò all'invasione della Jugoslavia e si annetté parte del suo territorio. Le forze armate italiane per oltre due anni presero parte in modo attivo, insieme alla Wehrmacht e ai vari reparti collaborazionisti sloveni, croati, bosniaci e serbi, all'azione di controllo del territorio e di repressione contro ogni opposizione al dominio dell'Asse e degli Stati satelliti croato e serbo. Il 10 settembre 1943 – due giorni dopo l'annuncio dell'armistizio italiano e il conseguente sbandamento delle forze armate italiane – la Slavia veneta fu inclusa formalmente dai tedeschi nella Zona d'operazioni del Litorale adriatico (in tedesco Operationszone Adriatisches Küstenland – OZAK), territorio sul quale la sovranità della Repubblica Sociale Italiana (RSI) fu puramente nominale, divenendo teatro di un'intensa repressione antipartigiana coordinata dal locale capo delle SS Odilo Globočnik.
In tale contesto geografico operarono contemporaneamente tre tipologie di formazioni partigiane: gli sloveni del IX Korpus, fortemente organizzati e inseriti all'interno dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia (in sloveno: Narodnoosvobodilna vojska in partizanski odredi Jugoslavije – NOV in POJ, o NOVJ), alcune Brigate Garibaldi, fra le quali in particolare quelle inserite nella Divisione Garibaldi "Natisone", costituita prevalentemente da militanti comunisti, e le Brigate Osoppo-Friuli, con componenti d'ispirazione monarchica, azionista, socialista, laica e cattolica.
Tutte le terre a est del fiume Isonzo – e comunque ovunque vivesse una componente etnica slovena, compresa quindi la Slavia veneta – furono rivendicate fin dalla fine del 1941 dal Comitato Centrale del Partito Comunista di Slovenia (PCS), la forza egemone del Fronte di Liberazione Sloveno (Osvobodilna fronta - Of), che le dichiarò ufficialmente annesse nel settembre del 1943. All'interno di questi territori gli jugoslavi pretesero di avere il comando di tutte le operazioni militari sottoponendo al controllo del NOVJ le altre formazioni combattenti, in diretta connessione con quanto aveva stabilito, a seguito di precisa richiesta di Tito, il segretario del Comintern Georgi Dimitrov in una lettera del 3 agosto 1942: questi aveva disposto per tutta la Venezia Giulia la dipendenza delle strutture del PCI al PCS. L'obiettivo dei partigiani jugoslavi era triplice: liberare le zone occupate dagli eserciti dell'Asse, creare una serie di fatti compiuti per sostanziare le proprie rivendicazioni territoriali eliminando ancora nel corso delle operazioni belliche ogni opposizione – reale o potenziale – a tale disegno e procedere nel contempo a una rivoluzione sociale di tipo marxista.

La posizione del PCI

La prima presa di posizione del Partito Comunista d'Italia sulla questione dei confini orientali italiani si manifestò nel 1926, durante il terzo congresso di Lione. In quell'occasione il PCd'I riprese le direttive del quinto congresso del Comintern (Mosca 1924), che aveva elaborato la politica denominata di «rottura della Jugoslavia»: PCd'I e Partito Comunista di Jugoslavia dovevano cooperare per il distacco dei popoli dalla monarchia dei Karađorđević. L'approccio alla questione ruotò intorno alla parola d'ordine di Lenin sul diritto di autodecisione, eventualmente fino alla separazione dallo Stato maggioritario. Al quarto congresso del PCd'I, tenuto a Colonia nel 1931, si ribadì espressamente «il diritto delle minoranze nazionali a disporre di sé stesse fino alla separazione dallo Stato italiano».
A dicembre del 1933 fu elaborata da delegazioni riunitesi a Mosca una «Dichiarazione comune dei Partiti comunisti della Jugoslavia, dell'Italia e dell'Austria sul problema sloveno», con la quale i tre partiti dichiararono di essere «per l'autodecisione del popolo sloveno, senza alcuna riserva, e sino alla separazione degli Sloveni dagli Stati imperialistici che oggi li opprimono, e che sono l'Italia, la Jugoslavia e l'Austria», nel contempo affermando che «chi non lavora e non lotta per realizzare questa linea politica (...) non è un comunista, ma un opportunista contro il quale si deve combattere».
Nel 1935 il PCd'I si fece promotore di un'intesa con tutte le forze slovene, comuniste e no, in un «fronte popolare» antifascista. Ricevuta da alcuni «allarmati» comunisti triestini una richiesta di spiegazioni, l'anno successivo l'Unità clandestina pubblicò un articolo chiarificatore, nel quale confermò «l'invito ai nazionalisti sloveni e croati della Venezia Giulia (...), a lavorare assieme ai comunisti ed ai nazionalisti della ex-TIGR per la costituzione di un fronte popolare (...), come via per raggiungere la libertà politica e nazionale nella Venezia Giulia», ribadendo «il diritto delle minoranze oppresse all'autodecisione fino al distacco dallo Stato italiano», ritenendo questa presa di posizione «questione di principio per noi comunisti italiani».

Gli sviluppi nella fase finale della guerra

Lo sloveno Edvard Kardelj, uno dei più importanti collaboratori del dittatore comunista Tito, in una lettera del 9 settembre 1944 inviata alla direzione del PCI Alta Italia per il tramite di Vincenzo Bianco – prescelto personalmente da Togliatti come delegato del partito presso il Fronte di Liberazione Sloveno – scrisse che all'interno delle formazioni partigiane italiane occorreva «fare un repulisti di tutti gli elementi imperialisti e fascisti». Con riferimento alle zone di operazioni del IX Korpus, così proseguì: «Non possiamo lasciare su questi territori nemmeno un'unità nella quale lo spirito imperialistico italiano potrebbe essere camuffato da falsi democratici», auspicando il passaggio dell'intera regione alla nuova Jugoslavia: «Gli italiani saranno incomparabilmente più favoriti nei loro diritti e nelle condizioni di progresso di quel che sarebbero in un'Italia rappresentata da Sforza». Rispetto alla Osoppo, rilevò che fosse «sotto una forte influenza di diversi ufficiali badogliani e politicamente guidata dai seguaci del Partito d'Azione».
A seguito della lettera, Bianco intraprese, a nome del PCI, una serie di colloqui coi rappresentanti del comitato centrale del PCS Miha Marinko, Lidija Šentjurc e Anton Vratuša "Urban". Il 17 settembre inviò una lettera a Togliatti nella quale rivelò d'aver acconsentito alla cessione delle zone reclamate dagli sloveni: «Non potevo oppormi alle giuste rivendicazioni nazionali di un popolo, che da tre anni combatte eroicamente contro il nostro comune nemico e non potevo dividere – e non si può – la città di Trieste e altri centri dal loro naturale retroterra». Il 24 settembre egli spedì alle federazioni del PCI di Gorizia, Trieste e Udine, al commissario politico delle formazioni Garibaldi Friuli Mario Lizzero "Andrea" e al comitato centrale del PCS una lunga missiva – divenuta in seguito nota col nome di «riservatissima» – firmata «a nome del Comitato Centrale del PCI» che riproponeva fedelmente i postulati della lettera di Kardelj. Non solo i destini della Slavia veneta, ma quelli dell'intera Venezia Giulia e di Trieste erano chiaramente delineati: «Trieste, come tutti gli italiani veramente democratici antifascisti, avranno (sic) un migliore avvenire in un paese dove il popolo è padrone dei propri destini, che non in un'Italia occupata dai nostri alleati anglo-americani. (…) La vostra lingua e la vostra cultura italiana vi è garantita tanto dal NOVJ che dalle vostre forze armate incorporate in quelle di Tito, con appoggio della Unione Sovietica. Domani, quando la situazione dell'Italia sarà cambiata, quando il popolo nostro sarà anch'esso libero e padrone dei propri destini, il problema di Trieste e di voi tutti sarà risolto, nei modi e sull'esempio della Unione Sovietica».
Il 13 ottobre 1944, sulle pagine dell'organo ufficiale del PCI Alta Italia La nostra lotta, fu pubblicato un lungo articolo anonimo dal titolo «Saluto ai nostri amici e alleati jugoslavi», nel quale si annunciava che «le forze popolari del Maresciallo Tito, appoggiate dal vittorioso Esercito Sovietico» avrebbero iniziato delle «operazioni di grande respiro» anche nella «Venezia Giulia (…) e nei territori dell'Italia Nord-Orientale». Salutando «quest'eventualità come una grande fortuna per il nostro paese», il giornale comunista invitava ad «accogliere i soldati di Tito non solo come liberatori allo stesso modo in cui sono accolti nell'Italia liberata i soldati Anglo-Americani, ma come dei fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta (…) e che ci apportano (…) la libertà». I soldati di Tito erano quindi da considerare «come i creatori di nuovi rapporti di convivenza e di fratellanza, non solo fra i popoli jugoslavi ma fra tutti i popoli»: «non solo i territori slavi da essi liberati, ma anche quelli italiani non saranno sottoposti al regime di armistizio, ma considerati come territori liberi, con un proprio governo rappresentato dagli organismi del movimento di liberazione, nei quali (…) ogni popolo (…) troverà immediata e sicura espressione democratica». Grazie quindi all'opera congiunta dei partigiani italiani e jugoslavi «sarà tutto il popolo italiano che si sentirà legato a tutti i popoli jugoslavi e balcanici (…) [e] che si collegherà, attraverso i popoli balcanici, alla grande Unione Sovietica che è stata, e sempre sarà, faro di civiltà e di progresso per tutti i popoli (…)». «Il Partito Comunista Italiano» – concludeva quindi l'articolo – «impegna (…) tutti i comunisti (…) a combattere come i peggiori nemici della liberazione nazionale del nostro Paese e, quindi, come alleati dei tedeschi e dei fascisti quanti, con i soliti pretesti del "pericolo slavo" e del "pericolo comunista" lavorano a sabotare gli sforzi militari e politici dei nostri fratelli slavi (…)».
Il 17 ottobre 1944 Palmiro Togliatti ebbe un incontro personale a Roma con Kardelj e con altri dirigenti comunisti jugoslavi: secondo la minuta dell'incontro di mano dello stesso Kardelj, il leader comunista italiano «non mette in discussione che Trieste spetti alla Jugoslavia, tuttavia ci raccomanda di applicare una politica nazionale che soddisfi gli italiani». Due giorni dopo, Togliatti inviò un'ampia lettera a Bianco, suddivisa in sei punti e «concordata con gli jugoslavi», esprimente «l'opinione non soltanto mia ma anche della direzione del Partito, da me consultata». Considerando «un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito», al fine non solo di battere tedeschi e fascisti, ma anche di creare nell'area «un regime democratico e progressivo», Togliatti ordinò a tutte le divisioni garibaldine operanti nei territori reclamati dagli jugoslavi di entrare nel NOVJ, e scrisse di proprio pugno il testo dell'ordine del giorno che i garibaldini avrebbero dovuto adottare:
«I partigiani italiani riuniti il 7 novembre in occasione dell'anniversario della Grande Rivoluzione accettano entusiasticamente di dipendere operativamente dal IX Corpus sloveno, consapevoli che ciò potrà rafforzare la lotta contro i nazifascisti, accelerare la liberazione del Paese e instaurare anche in Italia, come già in Jugoslavia, il potere del popolo.»
Togliatti non fece riferimento esplicitamente alle Brigate Osoppo Friuli, ma dispose che «(…) i comunisti devono prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono in nome dell'imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due popoli».
In conseguenza di ciò, fin dagli ultimi mesi del 1944 la Divisione Garibaldi Natisone passò sotto il comando del IX Korpus, venendo inquadrata all'interno del NOVJ su tre Brigate: 156ª Brigata "Bruno Buozzi", 157ª Brigata "Guido Picelli" e 158ª Brigata "Antonio Gramsci". Il 15 gennaio 1945 i comandanti della Divisione si recarono per la prima volta al comando del IX Korpus: qui trovarono Vincenzo Bianco, che si presentò come portavoce del Comitato Centrale del PCI e comunicò che la Natisone sarebbe stata integrata completamente nell'esercito di Tito, rompendo ogni contatto con le organizzazioni italiane. Invece di rimanere a combattere nel territorio nazionale, la Divisione fu quindi trasferita dapprima nella parte orientale dell'allora provincia di Gorizia  – compattamente slovena  – e poi nella zona di Lubiana, ritornando in Italia solo alla fine del maggio 1945. I comandi della Osoppo invece rifiutarono, sostenendo di voler fare riferimento unicamente alle strutture direttive del Comitato di Liberazione Nazionale italiano. Questa situazione acuì una preesistente spaccatura all'interno delle forze partigiane italiane nella regione, che assunse sempre più le forme di un'aspra conflittualità ideologico-politica sui fini ultimi della lotta resistenziale e sulla sistemazione confinaria postbellica.
Tale acceso contrasto aveva conosciuto uno dei suoi momenti più importanti nell'agosto del 1944. A seguito del rastrellamento di Pielungo (frazione di Vito d'Asio dove aveva sede il comando della Osoppo) del 19 luglio con la conseguente liberazione di un gruppo di prigionieri tedeschi, il CLN udinese e il Comitato Regionale Veneto avevano deciso la destituzione dei comandanti osovani Candido Grassi "Verdi" e don Ascanio De Luca "Aurelio", accusati di comportamento imprudente e sostituiti col seguente organigramma: al comando l'azionista Lucio Manzin "Abba", suo vice il comunista Lino Zocchi "Ninci", già comandante della brigata Garibaldi Friuli; commissario politico il già citato comunista Mario Lizzero "Andrea"; vicecommissario l'azionista Carlo Commessatti "Spartaco". Le formazioni della Osoppo avevano reagito con molta decisione, destituendo a loro volta i comandanti designati e rimettendo al loro posto i precedenti.

Le trattative tra X Mas e Osoppo

28 gennaio 1945: informativa da parte della prefettura di Udine della RSI sul rifiuto della Osoppo «di aggregarsi alla formazioni titine» e sulle presunte trattative fra SS tedesche, Decima Mas e Osoppo.
Nell'inverno 1944-45 il comando della Decima Mas cercò un abboccamento con alcuni esponenti della Osoppo, al fine di proporre agli osovani di organizzare una comune difesa del confine orientale italiano contro le formazioni partigiane jugoslave. Tutto si risolse in un nulla di fatto, ma la vicenda venne utilizzata sia dai gappisti per giustificare l'eccidio nell'immediatezza degli eventi, sia dalla stampa comunista nel dopoguerra per attaccare gli osovani. È anche da rilevare che nel dopoguerra la pubblicistica di destra ha più volte speculato sulla questione, dando per stipulato un accordo che invece non venne mai raggiunto. Di seguito si riportano le versioni dei protagonisti dei contatti e la motivazione della sentenza della Corte di Assise di Firenze che confermò che mai venne stretto alcun accordo fra Decima Mas e Osoppo.

La ricostruzione del fatto secondo le risultanze processuali

Dell'episodio specifico si parlò diffusamente sia nelle varie fasi del processo contro gli esecutori dell'eccidio sia nel corso del precedente processo a Borghese. Vennero chiamati a testimoniare sia i partecipanti sia gli organizzatori dell'incontro, mentre l'Unità - che aveva inviato al processo il comandante garibaldino Ferdinando Mautino, testimone per la difesa - titolò «"Cordiali" i rapporti fra fascisti e Osoppo». Le corti rilevarono che l'esito dell'incontro fu negativo, e che quindi non fu stretto alcun accordo fra Decima Mas e Osoppo. Infine, venne rilevata «l'assoluta ininfluenza del colloquio di Vittorio Veneto sull'azione di Porzûs»: l'incontro ebbe luogo - secondo le diverse testimonianze - il 30 o 31 gennaio o - alternativamente - il 15 febbraio 1945. Nel secondo caso esso sarebbe stato successivo all'eccidio, ma anche nel primo caso sarebbe stato posteriore agli ordini esecutivi per l'attacco alle malghe, che vennero inoltrati il 24 gennaio 1945. Le corti così conclusero: «Nessuna ombra può quindi rimanere non solo sulla persona di "Bolla", il quale rimase completamente estraneo all'incontro di Vittorio Veneto, ma neppure su "Verdi"», rilevando come lo stesso Candido Grassi "Verdi" successivamente entrò a far parte del Comando Unico di coordinamento fra garibaldini e osovani e Luigi Longo - dopo la liberazione - lo inserì in un suo libro fra i «quattro massimi esponenti della lotta di liberazione veneta, qualificandoli come gli "eroici partigiani veneti" che non avevano lasciato passare i tedeschi».

Le pressioni slovene e garibaldine sugli osovan

I comandanti jugoslavi non fecero mai mistero delle loro mire territoriali: secondo una testimonianza di Mario Lizzero, a maggio del 1944 nel corso di un incontro fra i vertici partigiani sloveni e italiani il comandante Franc Leskošek "Luka" - all'epoca membro del quartier generale del NOVJ - «presa una carta geografica e posto il dito su Tarvisio, lo fece scorrere lungo la Val Canale e Canal del Ferro fino al Tagliamento nei pressi di Venzone, incluse Gemona, Tarcento, Nimis, Attimis, Faedis, Cividale, Cormons: e scese lungo lo Judrio fino all'Isonzo, poi disse "Tokaj je naša želja" (Questa è terra nostra). Dunque gran parte della nostra regione non era più Italia: e non lo era né per i nemici contro cui combattevamo - nazisti, fascisti e cosacchi - né per i nostri alleati sloveni».
Nella seconda metà del 1944 si moltiplicarono le pressioni slovene sui comandi osovani, contestualmente a una serie di accuse – da parte sia slovena sia garibaldina – di intese della Osoppo con nazisti e fascisti con i quali sarebbero stati presi accordi in funzione anticomunista, di inserimento nelle proprie file di ex fascisti, di protezione di spie, furti di materiale e addirittura di collaborazione nell'omicidio di partigiani garibaldini.
A tali accuse il comando della Osoppo aveva replicato con una lunga serie di relazioni scritte, nelle quali s'illustrava il violento contrasto che contrapponeva i propri reparti ai garibaldini e agli sloveni del IX Korpus, e si denunciava una serie di incidenti a scapito degli osovani oltre alle forti pressioni che continuavano a esser esercitate per il passaggio della Osoppo alle dipendenze dei comandi sloveni, sia da parte di questi ultimi sia da parte del comando della Garibaldi Natisone, accompagnate da varie minacce. Nello stesso periodo diversi esponenti comunisti triestini di sentimenti filoitaliani, che avevano espresso dubbi sulla futura appartenenza della città alla Jugoslavia, furono arrestati dai tedeschi, si suppone in seguito a delazioni.
Un membro della missione britannica del SOE (Special Operations Executive), Michael Trent (al secolo Issack Michael Gyori, nativo ungherese e residente in Cecoslovacchia), che nello stesso periodo aveva tentato una mediazione fra la Osoppo e i comandi del IX Korpus, fu ucciso in circostanze non chiare.
Il 22 novembre 1944, quindici giorni dopo l'inserimento dei garibaldini nel IX Korpus sloveno, ebbe luogo l'ultimo incontro (della durata di cinque ore) fra i comandi della 1ª Divisione Garibaldi Natisone e della 1ª Brigata Osoppo – presente il comandante osovano Francesco De Gregori "Bolla" – nel corso della quale i garibaldini esercitarono la massima pressione possibile per convincere gli osovani a seguirli nella loro scelta. In particolare, Giovanni Padoan "Vanni" (commissario politico della Divisione Garibaldi Natisone) dichiarò che tutti i partigiani operanti nell'Italia nord-orientale dovevano porsi alle dipendenze degli jugoslavi e che, secondo una dichiarazione ufficiale del PCI, chi non avesse appoggiato gli jugoslavi sarebbe stato da considerare nemico del popolo italiano. Aggiunse che chi avesse preferito «appoggiare la politica democratica borghese dell'Inghilterra, anziché quella democratica popolare progressista della Jugoslavia di Tito», sarebbe stato considerato conservatore e reazionario e ritenuto di conseguenza responsabile di fronte al popolo: i garibaldini non avrebbero mai permesso l'instaurazione di un «regime democratico che facesse comodo all'Inghilterra» in Italia. Inoltre "Vanni" parlò delle vicende confinarie, affermando che l'intera Venezia Giulia era da considerarsi legittimamente appartenente alla Jugoslavia, le cui forze partigiane avrebbero proceduto in quel territorio alla mobilitazione generale: nel contempo, intimò agli osovani di non procedere ad alcun tipo di mobilitazione o di reclutamento, mettendo in dubbio la legittimità del CLN. Il colloquio ebbe un andamento burrascoso e si concluse con una rottura completa.
Il comando della Divisione Garibaldi Natisone assieme ad alcuni ufficiali sovietici a Zakriž (Slovenia) nel gennaio 1945. Il primo a sinistra è il commissario politico Giovanni Padoan "Vanni", al centro con la barba il comandante Mario Fantini "Sasso", il primo a destra è il capo di stato maggiore Albino Marvin "Virgilio". I primi due saranno imputati nel processo per l'eccidio
A dicembre gli sloveni esercitarono pressioni sulla Garibaldi Natisone perché agisse contro il comando osovano di Porzûs: lo si ricava da due lettere di risposta al superiore comando del IX Korpus inviate il 6 e 12 dicembre 1944 da Mario Fantini "Sasso" e Giovanni Padoan "Vanni", come comando della Divisione Garibaldi Natisone.








Attacco alle malghe: l’eccidio

Il 7 febbraio 1945 un gruppo di circa cento partigiani comunisti appartenenti ai battaglioni GAP "Ardito" (al comando di Urbino Sfiligoi "Bino"), "Giotto" (al comando di Lorenzo Deotto "Lilly"), "Amor" (al comando di Gustavo Bet "Gastone") e "Tremenda" (al comando di Giorgio Iulita – o Julita – "Jolly") e capeggiati da Mario Toffanin "Giacca" raggiunse il comando del Gruppo delle Brigate Est della Divisione partigiana Osoppo, situato nel Friuli orientale presso alcune malghe in località Topli Uorch, nel comune di Faedis (in seguito la zona divenne più nota con il toponimo di Porzûs, dal nome di una vicina frazione del comune di Attimis). L'ordine ai gappisti  – secondo la ricostruzione processuale  – era stato messo per iscritto dal vicesegretario della federazione del PCI di Udine – Alfio Tambosso "Ultra" – nei seguenti termini:
«Cari compagni, vi trasmetto, per l'esecuzione, l'ordine pervenuto dal Superiore Comando Generale. Preparate 100-150 uomini, completamente armati ed equipaggiati, con viveri a secco per 3-4 giorni, da porre alle dipendenze della divisione Garibaldi Natisone operante agli ordini del Maresciallo Tito. Vi raccomando la precisa esecuzione del presente ordine, che ha carattere di estrema importanza per il prossimo avvenire. Non appena gli uomini saranno pronti, mi avvertirete immediatamente. Provvedete ad eseguire rapidamente e cospirativamente. Gli uomini dovranno sapere solo quando saranno in viaggio. Quando verrò da voi, e cioè fra qualche giorno, spiegherò meglio ogni cosa. Ricordate che ne va del buon nome GAP e che è cosa di massima importanza. L'armata Rossa gloriosa avanza e ormai i tempi stringono. Fraternamente. Ultra 24.1.1945»
Sempre secondo quanto emerso durante il processo, tale ordine fu in seguito impartito a "Giacca" nel corso di una riunione tenutasi nella località di Orsaria (Premariacco) il 28 gennaio 1945, in cui erano presenti, a parte lo stesso "Giacca", anche i citati "Ultra" e "Jolly", Ostelio Modesti "Franco", Valerio Stella "Ferruccio" e Aldo Plaino "Valerio", a casa di Armando Basso "Gobbo".
Il senso generale della riunione di Orsaria venne ricordato in un memoriale stilato da Aldo Plaino "Valerio" il 12 dicembre 1946, secondo il quale:
«Ero presente anch'io il giorno che venne dato a Giacca l'ordine di agire contro la "Osoppo". Franco ordinò in questo modo: "Vai, fa' e fai bene". Erano presenti Franco, Ferruccio (Stella), Marco (Juri), Giacca e io. La riunione in cui vennero dati gli ordini surriferiti venne tenuta circa gli ultimi di gennaio o i primi di febbraio 1945 in Orsaria di Premagnacco (sic), in casa del Gobbo, responsabile del CLN di Orsaria di allora.»
Il 1º febbraio 1970 Toffanin rilasciò la seguente dichiarazione autografa a Marco Cesselli, ricercatore dell'Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, che in seguito la riportò in un suo libro:
«Il 28.1.1945, a Orsaria, eravamo presenti io  – Ultra (Tambosso)  – Franco (Modesti)  – Zoly (Jolly, Julita)  – Ferruccio (Stella)  – Valerio (Plaino)  – Gobbo (Basso) in casa di Gobbo. Ultra e Modesti danno ordine di andare a Porzûs per liquidare il Gruppo Bolla. Contemporaneamente Ultra scrive a mano ordine per liquidare gli Osovani. Ordine è stato consegnato a Jolly che lo ha conservato. Poi si è parlato per le carceri di Udine, da svolgere da Valerio e Mancino. Sotto il mio Comando abbiamo fucilato sei Osovani. Siamo ritornati alla base e tre giorni dopo venne Franco (Modesti). Abbiamo avuto una riunione e si è parlato degli Osovani rimasti. Anche Franco era d'accordo di farli fuori. Presente era il comando GAP: i Com. Giacca, Marco (Iuri) e Valerio. Giacca  – Toffanin Mario.»
In seguito alcuni dei gappisti che parteciparono all'azione di Topli Uorch testimoniarono di non aver compreso il motivo della missione fino agli istanti precedenti l'eccidio.
La 1ª Brigata Osoppo ospitava Elda Turchetti, una giovane donna che Radio Londra aveva indicato come spia. In seguito a tale denuncia, la stessa Turchetti si era presentata spontaneamente a un partigiano gappista suo conoscente di nome Attilio Tracogna "Paura": questi l'aveva condotta da Adriano Cernotto "Ciclone" (gerarchicamente dipendente proprio da Toffanin), che non sapendo quali decisioni prendere l'aveva riconsegnata a "Paura", il quale la portò quindi all'osovano Agostino Benetti "Gustavo", dipendente dal responsabile dell'Ufficio Informazioni della Osoppo Leonardo Bonitti "Tullio". La Turchetti venne in seguito affidata all'osovano Ivo Feruglio "Marinaio", che il 13 dicembre 1944 la portò a Topli Uorch. Lì fu assolta in istruttoria al termine di un processo partigiano conclusosi il 1º febbraio 1945. Dal ruolino della Osoppo tenuto da "Bolla" risulta che la donna era stata arruolata a tutti gli effetti nella 1ª Brigata Osoppo, col nome di "Livia". La protezione data a Elda Turchetti fu in seguito indicata – nelle varie e spesso contraddittorie ricostruzioni di Toffanin – come il motivo scatenante dell'azione dei partigiani garibaldini.
Successivamente all'eccidio, Toffanin accusò inoltre la Osoppo di aver contrastato la politica di collaborazione con i partigiani jugoslavi, di non aver redistribuito agli altri gruppi partigiani parte delle armi fornite alla stessa Osoppo dagli angloamericani e di aver collaborato con elementi della Xª Flottiglia MAS e del Reggimento alpini "Tagliamento", appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana. Secondo le direttive del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà del Nord Italia, emanate nell'ottobre 1944, ogni forma di collaborazione con i soldati della RSI e con le forze germaniche era da considerare come tradimento da punire con la condanna a morte, ma dalle ricostruzioni del dopoguerra risultò che era sempre stata la Xª MAS a cercare degli accordi con la Osoppo per opporsi alle mire jugoslave sui territori orientali italiani, ottenendone però ogni volta un rifiuto.
La ricostruzione dettagliata dello svolgimento dell'operazione gappista fu fornita nel corso dei processi e poi ripresa e approfondita in alcune pubblicazioni. La colonna raggiunse l'abitato di Porzûs e poi si divise in gruppi, che raggiunsero le malghe di Topli Uorch in momenti diversi. Per superare i posti di guardia osovani senza creare scompiglio, i gappisti affermarono d'essere in parte dei partigiani sbandati a seguito di un rastrellamento, in parte civili fuggiti da un treno che li portava in Germania, attaccato dall'aviazione alleata. Un gruppo di gappisti si spacciò per osovano.
Il messaggero del gruppo agli ordini di Toffanin fu Fortunato Pagnutti "Dinamite", un partigiano del quale sia i garibaldini sia gli osovani si fidavano, avendo già svolto incarico di staffetta fra i due reparti. Un osovano di guardia fu mandato a Topli Uorch a informare Francesco De Gregori "Bolla", comandante del Gruppo delle Brigate Est della Divisione partigiana Osoppo, il quale inviò sul luogo il delegato politico azionista della VI Brigata Osoppo "Friuli" Gastone Valente "Enea", di passaggio alle malghe. Questi ordinò di separare i presunti osovani dai garibaldini, volendo inviare i secondi al vicino reparto garibaldino di Canebola (una frazione di Faedis). Tuttavia, insospettitosi, fece recapitare a "Bolla" un messaggio del seguente tenore:
«Si tratta di un'accozzaglia di gente che mi ha fatto una pessima impressione. Alcuni dicono di essere garibaldini, altri sloveni, altri osovani, altri ancora degli evasi dai treni, in fine qualcuno di aver disertato dalle file dell'esercito repubblicano. Hanno bisogno di assistenza e di riposo. Francamente non so che pesci pigliare. Vi prego di venire qui uno di voi.»
Durante l'operazione si palesò "Giacca", che fece arrestare tutti gli osovani presenti e attese l'arrivo di "Bolla", che si trovava alla malga comando a una certa distanza. Al suo arrivo "Bolla" fu immediatamente arrestato e subito dopo "Giacca" fece rastrellare la zona, catturando un altro gruppo di osovani in una malga vicina.
Nel contempo un reparto al comando di Vittorio Juri "Marco" si occupò di raccogliere tutto il materiale presente a Topli Uorch: in tale frangente fu ucciso – essendo stato ritenuto un osovano – il giovane partigiano garibaldino Giovanni Comin "Tigre" (ribattezzato in seguito "Gruaro" dagli osovani). Questi era fuggito da un treno che lo stava conducendo in un lager tedesco ed era stato indirizzato a Topli Uorch dal parroco di Vergnacco (una frazione di Reana del Rojale), poiché si trattava della base partigiana più vicina. Comin si stava avvicinando alle malghe dalla parte opposta alla strada percorsa dai gappisti, assieme al portavivande e staffetta della Osoppo Giovanni Cussig "Afro", che fu rapinato dell'orologio da polso da un gappista, ma presto rilasciato dietro assicurazione – data dall'osovano Gaetano Valente "Cassino" – che non si trattava di un partigiano.

Oltre a Comin furono subito uccisi De Gregori, Valente "Enea" e la Turchetti.

Aldo Bricco "Centina", futuro comandante designato della formazione a Topli Uorch per il passaggio delle consegne con De Gregori e insieme a lui giunto in vista di "Giacca" e i suoi, riuscì rocambolescamente a fuggire: colpito violentemente al volto da un gappista, ritenne che le malghe fossero sotto l'attacco di un gruppo di fascisti camuffati da partigiani e quindi si aprì a forza un varco fra i gappisti, lanciandosi poi di corsa dal costone del monte innevato. Ferito da sei colpi di arma da fuoco fu ritenuto morto, ma riuscì a trascinarsi fino al vicino paese di Robedischis, dove si fece medicare da alcuni partigiani sloveni a cui raccontò d'esser stato ferito in un agguato fascista. Il giorno successivo fu arrestato dagli sloveni, ma venne liberato da un emissario osovano grazie a un salvacondotto. In seguito riuscì di nascosto a raggiungere le file osovane mentre i partigiani del IX Korpus intraprendevano una vana caccia all'uomo per riprenderlo.

Le uccisioni successive

Tredici altri partigiani, a seguito di processi sommari, furono imprigionati e fucilati nei giorni successivi nelle località limitrofe di Bosco Romagno, Ronchi di Spessa, Restocina e Rocca Bernarda (Prepotto): tra questi Guido Pasolini "Ermes", fratello di Pier Paolo, giunto a Topli Uorch il 6 febbraio assieme a un gruppetto di osovani capitanato da "Centina". Condotto assieme a "Cariddi", "Guidone" e "Toni" presso il luogo della sua esecuzione, Pasolini riuscì inizialmente a fuggire mentre scavava la sua propria fossa. Ferito da una fucilata, raggiunse il paese di Sant'Andrat dello Judrio e quindi la località di Quattroventi dove si fece medicare dal locale farmacista, proseguì a piedi per Dolegnano (San Giovanni al Natisone), rifugiandosi in una casa ove viveva Libera Piani, un'anziana donna che gli offrì del caffellatte e una grappa. La donna chiese assistenza medica all'ostetrica locale, figlia del locale responsabile del CLN nonché intendente del battaglione gappista "Ardito". In pochi minuti Pasolini fu quindi nuovamente arrestato dal partigiano Mario Tulissi, che lo riportò ai citati gappisti "Bino" e "Lilly". Trascinato una seconda volta sul luogo dell'esecuzione, Guido Pasolini fu ucciso con un colpo di pistola.
Furono risparmiati due osovani che passarono nei GAP, Leo Patussi "Tin" e Gaetano Valente "Cassino". Questi ultimi, assieme a Bricco, dopo la guerra furono tra i principali accusatori di Toffanin e compagni nei vari processi che si svolsero fra Udine, Venezia, Brescia, Lucca e Firenze. Altri tre osovani – Aroldo Bollina "Gianni", Antonio di Memmo "Pescara" e un terzo del quale si conosce solo il nome di battaglia, "Leo" – giunti alle malghe assieme a "Ermes" con il gruppo di "Centina" il giorno prima dell'attacco, si salvarono fuggendo per tempo avendo percepito il pericolo. Allo stesso modo si salvarono Giulio Emerati, Virgilio Cois, Giuseppe Turco, Giovanni ed Enrico Smerrecar, che per portare armi o viveri stavano risalendo verso le malghe e furono fermati dai gappisti ma rilasciati non essendo ritenuti osovani: con Emerati era il giovane studente in medicina Franco Celledoni "Atteone", che invece fu catturato e in seguito ucciso.

Altri osovani uccisi

Un evento considerato «il prologo dei tragici fatti di Porzûs» ebbe luogo il 16 gennaio 1945, quando altri tre osovani – Antonio Turlon "Make", Annunziato Rizzo "Rinato" e Mario Gaudino "Vandalo" – furono sequestrati a Taipana (UD) da una pattuglia del IX Korpus sloveno di stanza a Platischis: dopo le infruttuose richieste di rilascio da parte di "Bolla", furono fucilati il 12 aprile 1945 nella località di Borij di Rucchin di Drenchia: i nomi di battaglia di tutti e tre compaiono nella lapide in memoria dei trucidati murata a Topli Uorch, mentre i nomi dei soli Turlon e Rizzo appaiono nel cippo Ai Martiri della Osoppo di Bosco Romagno (Cividale). Tra i partigiani sfuggiti all'eccidio figura Erasmo Sparacino "Flavio", che però fu catturato in seguito dai tedeschi e fucilato a Cividale il 12 febbraio 1945: il suo nome appare comunque in entrambi i memoriali di cui sopra.

Le prime notizie dell'eccidio e le reazioni

Nei giorni immediatamente seguenti all'eccidio, scoperto da alcuni abitanti del luogo, le notizie si accavallarono confuse: la direzione della federazione del PCI di Udine fece circolare la voce secondo la quale l'attacco fosse opera di forze tedesche o fasciste. Qualche giorno dopo la Gioventù Antifascista Italiana e Slovena, un'organizzazione politica che propugnava l'annessione della zona alla Jugoslavia, organizzò a Circhina una conferenza cui parteciparono alcuni garibaldini della Natisone, nel corso della quale fu annunciata la soppressione del comando osovano senza peraltro specificare a opera di chi: vi furono applausi e grida di entusiasmo, giacché fra i garibaldini era opinione diffusa che gli osovani fossero dei reazionari in combutta con i fascisti.

I mandanti e le motivazioni dell’eccidio

Nel corso dei decenni, oltre alle risultanze processuali secondo le quali i mandanti dell'eccidio sarebbero stati alcuni dei capi del PCI friulano, al fine di «porre alcune parti del nostro Stato sotto la sovranità della Jugoslavia», varie ipotesi (talora radicalmente divergenti tra loro e che propongono letture totalmente antitetiche degli eventi) sono state avanzate sui mandanti dell'eccidio e sulle sue motivazioni, spesso in corrispondenza con la scoperta di nuovi documenti o con l'apertura di nuovi filoni giudiziari. Alcuni fra gli stessi protagonisti dei fatti, col passare del tempo, hanno modificato anche in maniera notevole le proprie precedenti dichiarazioni, rendendo il quadro ancor più difficile da interpretare.
L'ipotesi che nella storiografia italiana ha via via preso più vigore, anche sulla scorta delle risultanze processuali e dell'apertura di una serie di archivi prima inaccessibili, attribuisce la motivazione dell'eccidio alla determinazione dei partigiani jugoslavi di mettere in atto un'«epurazione preventiva», contro i propri oppositori, reali o potenziali, all'interno dei territori reclamati dalla Jugoslavia di Tito: l'Istria, il Goriziano, la Slavia veneta e la striscia costiera che da Trieste va fino a Monfalcone. Fra gli autori che hanno in vario modo contribuito a questa ricostruzione dei fatti o l'hanno fatta propria almeno in senso generale, sono da ricordare Elena Aga Rossi, Alberto Buvoli, Marina Cattaruzza, Sergio Gervasutti, Tommaso Piffer, Raoul Pupo e altri. Buvoli in particolare, sulla scorta del fatto che Toffanin fu «sempre e solo iscritto al PC croato, jugoslavo, e aveva già fatto parte della Brigata dalmata in Jugoslavia» e del fatto che «gli sloveni cercavano di infiltrare nella Resistenza italiana persone fidate che servissero i loro interessi», ha messo in rilievo come «in questo contesto la figura di Giacca sia sempre stata equivoca».
La tesi secondo la quale l'eccidio di Porzûs sia imputabile agli sloveni trovò alcune indirette conferme documentali: oltre alle già ricordate lettere di risposta del comando della Natisone alle richieste del superiore comando del IX Korpus affinché agisse contro il comando osovano di Porzûs, l'attacco era già temuto da un rapporto al Foreign Office pervenuto pochi giorni prima della strage. In tale rapporto un ufficiale di collegamento britannico al seguito dei partigiani sloveni operanti nell'Italia nord-orientale aveva reso noto che l'unità cui era aggregato aveva catturato alcuni partigiani della Osoppo e che, alle sue rimostranze, il comandante sloveno aveva risposto di avere agito in base a ordini superiori. L'autore del rapporto aveva espresso quindi l'opinione che gli sloveni avevano l'intenzione di attaccare il comando generale delle brigate Osoppo. Anche "Bolla", nel suo rapporto del 17 gennaio 1945 che denunciò il rapimento di "Make", "Rinato" e "Vandalo" da parte del IX Korpus, affermò che «certamente, nei prossimi giorni tali atti di inqualificabile violenza (…) si ripeterà (sic) a danno dei nostri piccoli distaccamenti di Prossenicco e Canebola, fino a quando si ripeterà, come logica conclusione di una linea di condotta che ormai appare fin troppo chiara, contro questo Comando stesso».
L'ex commissario politico della Divisione Garibaldi Natisone Giovanni Padoan "Vanni", condannato sia in appello sia in Cassazione, fin dagli anni sessanta intraprese un percorso di revisione delle interpretazioni allora in voga nel PCI riconoscendo la sostanziale fondatezza del verdetto di Lucca e rimarcando in modo sempre più deciso la responsabilità nella strage dei vertici del partito in Friuli e del IX Korpus sloveno.
Il 23 agosto 2001, durante un tentativo di riconciliazione fra garibaldini e osovani che vide il suo abbraccio alle malghe di Topli Uorch col sacerdote ed ex partigiano osovano don Redento Bello "Candido", "Vanni" lesse una dichiarazione con la quale si assunse la «responsabilità oggettiva» e indicò espressamente mandanti ed esecutori:
«L'eccidio di Porzus e del Bosco Romagno, dove furono trucidati 20 partigiani osovani, è stato un crimine di guerra che esclude ogni giustificazione. E la corte d'assise di Lucca ha fatto giustizia condannando gli autori di tale misfatto. Benché il mandante di tale eccidio sia stato il Comando sloveno del IX Korpus, gli esecutori, però, erano gappisti dipendenti anche militarmente dalla Federazione del PCI di Udine, i cui dirigenti si resero complici del barbaro misfatto e siccome i GAP erano formazioni garibaldine, quale dirigente comunista d'allora e ultimo membro vivente del Comando Raggruppamento divisioni "Garibaldi-Friuli", assumo la responsabilità oggettiva a nome mio personale e di tutti coloro che concordano con questa posizione. E chiedo formalmente scusa e perdono agli eredi delle vittime del barbaro eccidio. Come affermò a suo tempo lo storico Marco Cesselli, questa dichiarazione l'avrebbe dovuta fare il Comando Raggruppamento divisioni "Garibaldi-Friuli" quando era in corso il processo di Lucca. Purtroppo, la situazione politica da guerra fredda non lo rese possibile.»
Le responsabilità politiche e materiali dell'eccidio di Porzûs sono ancora al centro di un acceso dibattito politico e storiografico, intersecatosi fino agli anni cinquanta con i processi ai quali furono sottoposti esecutori e presunti mandanti della strage. Gli eventi legati a Porzûs hanno acquisito un valore paradigmatico: per gli uni del tentativo di delegittimare la Resistenza proiettando sull'intero movimento partigiano un episodio ritenuto marginale, per gli altri della natura totalitaria e antidemocratica del Partito Comunista Italiano e del carattere sostanzialmente antinazionale della sua politica.
Durante il processo, il PCI organizzò una campagna di stampa per ribadire le accuse di connivenza con fascisti e nazisti dei reparti della Osoppo, ritenendo che in Italia fosse sostanzialmente tornata al potere una destra direttamente connessa col regime fascista, della quale la Democrazia Cristiana era il cardine, che tramite il processo per l'eccidio voleva mettere sotto accusa il PCI e l'intero movimento resistenziale. Della chiusura della vicenda giudiziaria per intervenuta amnistia nel 1959 non fu data notizia, e per circa quindici anni sulla vicenda cadde il silenzio.
Nel 1964 il già citato Roberto Battaglia, nella sua Storia della Resistenza italiana, fece proprie le conclusioni della sentenza di primo grado emessa nel 1952 dalla corte d'assise di Lucca, la quale attribuisce la responsabilità dell'eccidio all'anticomunismo di "Bolla", che si sarebbe scontrato con «l'animosa intolleranza di fanatici avversari». Tale tesi, che indica gli osovani come corresponsabili dell'eccidio, nei decenni successivi venne ripresa, in tutto o in parte, da altri autori come Giorgio Bocca o Giampaolo Gallo. Un altro gruppo di autori concentrò la propria attenzione sulle responsabilità degli osovani in relazione ai loro contatti con la Decima Mas, che avrebbe quindi, se non giustificato, quanto meno reso comprensibile la reazione di Toffanin e i suoi: su tale aspetto insistettero per esempio Pierluigi Pallante e Pier Arrigo Carnier.
Nel 1975 venne pubblicato il primo studio specifico sull'eccidio, Porzûs, due volti della Resistenza di Marco Cesselli. L'autore, ricercatore dell'Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, a seguito di un notevole lavoro di rielaborazione delle fonti e a una serie di interviste ai protagonisti dell'evento, espresse delle notevoli aperture verso una revisione della precedente interpretazione dell'eccidio e mise in luce le responsabilità politiche dei massimi dirigenti del PCI friulano. 

Tuttavia per il resto del decennio e per quasi tutti gli anni ottanta la storia di Porzûs non suscitò quasi alcun interesse da parte degli storici accademici.

La questione tornò prepotentemente all'attenzione dell'opinione pubblica negli anni 1990, intersecandosi con altre polemiche quali quelle sul cosiddetto triangolo della morte o quelle su Gladio, un'organizzazione anticomunista di tipo stay-behind legata alla NATO, a cui aderì un numero imprecisato di ex partigiani della Osoppo. La polemica raggiunse l'acme quando il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel corso di una visita in Friuli nel febbraio del 1992, incontrò pubblicamente un gruppo di appartenenti a Gladio, accusando i partigiani comunisti di aver combattuto anche per l'instaurazione di una dittatura contro gli interessi nazionali dell’Italia.
Il 29 maggio 2012 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha visitato il comune di Faedis, dove ha scoperto una targa in memoria dei trucidati. Nel suo discorso, Napolitano ha definito l'eccidio «tra le più pesanti ombre che siano gravate sulla gloriosa epopea della Resistenza» individuandone le radici in un «torbido groviglio [di] feroci ideologismi di una parte, con calcoli e pretese di dominio di una potenza straniera a danno dell'Italia, in una zona martoriata come quella del confine orientale del nostro Paese». Nonostante l'auspicio di Napolitano affinché siano «sanate le più dolorose ferite del passato», i contrasti fra ANPI e APO (Associazione Partigiani Osoppo) non risultano completamente superati.
Da tempo è attivo l'iter procedurale per dichiarare le malghe di Porzûs monumento nazionale. Un dirigente dell'ANPI si è opposto all'iniziativa, così come alla proposta di intitolare alcune vie cittadine ai «martiri di Porzûs».


La tesi dello storico e filosofo Marcello Veneziani: “LE DUE RESISTENZE”

Il 7 febbraio di ottant’anni fa fu battezzato nel sangue lo scisma della Resistenza. Nacquero allora, dopo una tensione covata nei mesi precedenti, le due resistenze: quella cattolica, liberale, azionista che guardava a Occidente e quella comunista che guardava all’Unione Sovietica e alla Yugoslavia di Tito. L’una voleva ripristinare la democrazia liberale, l’altra voleva instaurare tramite una rivoluzione, una dittatura comunista.
L’evento sanguinoso che sancì quella frattura avvenne a Porzus, dove diciotto partigiani “bianchi” della Brigata Osoppo furono trucidati dai partigiani rossi italo-yugoslavi. Tra le vittime il comandante Francesco De Gregori, nome di battaglia Bolla, zio del cantautore a cui fu dato il suo nome in suo onore e in sua memoria. E Guido Pasolini, fratello di PierPaolo. Una vicenda che si intreccia al capitolo tragico delle foibe e che è sempre stata rimossa o mal digerita. Quando un regista di sinistra, Renzo Martinelli, figlio di un partigiano, portò sugli schermi Porzus, il suo film fu avversato nelle sale e sui giornali, fu poi riproposto in edicola con Panorama, senza molta fortuna. Allora, raccontò lo stesso Martinelli, il regista perse contratti e commesse per la realizzazione di spot pubblicitari perché fu considerato imperdonabile il suo film-verità su una pagina infame della guerra partigiana.
Ora, finalmente, si parla di Porzus senza veli di omertà e senza imbarazzi. L’occasione è un libro onesto e coraggioso di Tommaso Piffer, Sangue sulla Resistenza (Mondadori); Piffer in realtà si occupa da anni di quella strage, a cui accennò tanti anni fa anche il presidente della repubblica venuto dal comunismo, Giorgio Napolitano, rompendo un lungo silenzio a sinistra. Ma il libro di Piffer è stato accolto stavolta in grande stile sulla stampa se si considerano le pagine che ha dedicato prima Paolo Mieli sul Corriere della Sera e poi Simonetta Fiori su la Repubblica. Meglio tardi che mai.
L’accusa rivolta dai comunisti ai partigiani bianchi era la classica: quei partigiani lavoravano per la reazione, erano in sostanza sotto sotto “fascisti”, dunque traditori, distinguevano tra nazisti e fascisti, non erano abbastanza spietati ed erano ancora deplorevolmente “patrioti”. A nulla valeva la considerazione elementare che anche loro rischiavano la vita per combattere i nazisti e i loro alleati. In realtà non si perdonava loro il rifiuto di essere accorpati e sottomessi all’esercito di liberazione titino, e alle mire annessionistiche degli sloveni; volevano restare italiani, europei. I partigiani rossi italiani, agli ordini di Tito e dei suoi partigiani, guidati da Mario Toffanin, detto Giacca, compirono quel massacro nella prospettiva di unire la Venezia Giulia alla patria socialista. Sulla scia delle ricerche di Piffer e di altri autori citati, Mieli si spinge a evidenziare le responsabilità del Pci e la falsificazione compiuta sui fatti, al punto da attribuire in un documento del Pci udinese al comandante De Gregori al momento della sua fucilazione, il grido “Viva il fascismo internazionale”. Non solo trucidato ma anche diffamato post mortem. Il fratello minore di De Gregori, Luciano, si era invece arruolato a Salò con la Repubblica sociale. Anche Guido Pasolini, nome di battaglia Ermes, osava articolare il suo giudizio sul fascismo, non lo riteneva il male assoluto, salvava alcuni aspetti ma combatteva la sciagurata alleanza in guerra con la Germani; riteneva che si dovesse combattere con il tricolore e non con la stella rossa e pagò con la vita la sua libertà e il suo amor patrio.
Nei documenti e nelle circolari comuniste del tempo si parlava del resto di adoperare “la tattica della foibe”, con evidente riferimento al metodo criminale con cui furono trattati gli italiani d’Istria e della Dalmazia. C’era una complicità attiva e consapevole con i partigiani titini e con i loro massacri che arrivava fino a Mosca e a Palmiro Togliatti.
La strage di Porzus non fu la sola a scavare il fossato tra le due resistenze. Giampaolo Pansa ricordava ad esempio Giovanni Rossi, un bracciante agricolo di Sassuolo che creò una banda di partigiani, detta appunto Banda del Bracciante. Era contrario a mettersi sotto la bandiera comunista, aggregarsi alle Brigate Garibaldi e accettare di sottomettersi a un commissario politico comunista. Forse, commentò Pansa, “non gli andava di sparare nella schiena a civili fascisti o a piccoli esponenti della Repubblica sociale. Non era fatta di questi delitti la sua idea di guerra partigiana”. Il 28 febbraio 1944 due partigiani comunisti arrivarono di notte sui monti dove lui era rifugiato. “E ammazzarono a rivoltellate il Bracciante mentre dormiva su un saccone di paglia. Il comandante riposava da solo in una stalla. E nessuno si accorse di nulla…». In questo caso non era in gioco l’annessione slovena della Venezia Giulia ma il Triangolo rosso della Padania e i suoi eccidi che perdurarono anche dopo la guerra.
Ci furono anche, secondo la versione comunista, episodi inversi. Per esempio quello di Salvo Castenetto e di alcuni partigiani delle brigate Garibaldi in Friuli uccisi da partigiani della brigata Osoppo: ma le fonti sono piuttosto incerte e controverse.
Resta, invece, il tema di fondo: ci furono due Resistenze. Una combatteva contro il nazismo e il fascismo di Salò, per liberare l’Italia e ripristinare la democrazia; l’altra combatteva una dittatura per fondarne un’altra, o meglio per dar vita a una rivoluzione e poi instaurare un regime comunista, allineato a Mosca e a Belgrado.
L’egemonia delle bandiere rosse sulla Resistenza portò a cancellare o a reputare minore, meno significativa, l’altra Resistenza. Renzo De Felice ricordava ad esempio Alfredo Pizzoni, tra i capi della Resistenza ancor oggi il meno noto, ignorato a lungo dalla storiografia, nonostante abbia guidato durante tutto il periodo della lotta di liberazione il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), l’organo supremo del movimento partigiano nell’Italia settentrionale. E denunciava la “mentalità autoritaria che annulla ogni diversità, che non si preoccupa di rispettare le vicende della storia”. Poi venne la retorica del Cln e nel nome dell’unità antifascista quelle divergenze sostanziali vennero rimosse o sopite. 

Così l’Italia restò a Occidente ma l’antifascismo militante restò nelle mani delle bandiere rosse.

Ma questa onesta revisione storica su basi accertate e questa libertà di giudizio sono ancora possibili nel tempo in cui basse operazioni commerciali con alti patrocini istituzionali tendono a fare di quell’epoca una notte in cui tutte le vacche sono nere?

Marcello Veneziani, La Verità – 7 febbraio 2025








Ripensare la guerra, e il suo posto
nella cultura politica europea contemporanea,
è il solo modo per non trovarsi di nuovo davanti
a un disegno spezzato
senza nessuna strategia
per poterlo ricostruire su basi più solide e più universali.
Se c’è una cosa che gli ultimi eventi ci stanno insegnando
è che non bisogna arrendersi mai,
che la difesa della propria libertà
ha un costo
ma è il presupposto per perseguire ogni sogno,
ogni speranza, ogni scopo,
che le cose per cui vale la pena di vivere
sono le stesse per cui vale la pena di morire.
Si può scegliere di vivere da servi su questa terra, ma un popolo esiste in quanto libero, 
in quanto capace di autodeterminarsi,
vive finché è capace di lottare per la propria libertà: 
altrimenti cessa di esistere come popolo.
Qualcuno è convinto che coloro che seguono questo blog sono dei semplici guerrafondai! 
Nulla di più errato. 
Quelli che, come noi, conoscono le immense potenzialità distruttive dei moderni armamenti 
sono i primi assertori della "PACE". 
Quelli come noi mettono in campo le più avanzate competenze e conoscenze 
per assicurare il massimo della protezione dei cittadini e dei territori: 
SEMPRE!
….Gli attuali eventi storici ci devono insegnare che, se vuoi vivere in pace, 
devi essere sempre pronto a difendere la tua Libertà….
La difesa è per noi rilevante
poiché essa è la precondizione per la libertà e il benessere sociale.
Dopo alcuni decenni di “pace”,
alcuni si sono abituati a darla per scontata:
una sorta di dono divino e non, 
un bene pagato a carissimo prezzo dopo innumerevoli devastanti conflitti.…
…Vorrei preservare la mia identità,
difendere la mia cultura,
conservare le mie tradizioni.
L’importante non è che accanto a me
ci sia un tripudio di fari,
ma che io faccia la mia parte,
donando quello che ho ricevuto dai miei AVI,
fiamma modesta ma utile a trasmettere speranza
ai popoli che difendono la propria Patria!
Violenza e terrorismo sono il risultato
della mancanza di giustizia tra i popoli.
Per cui l'uomo di pace
si impegna a combattere tutto ciò 
che crea disuguaglianze, divisioni e ingiustizie.
Signore, apri i nostri cuori
affinché siano spezzate le catene
della violenza e dell’odio,
e finalmente il male sia vinto dal bene…
Come i giusti dell’Apocalisse scruto i cieli e sfido l’Altissimo: 
fino a quando, Signore? Quando farai giustizia?
Dischiudi i sette sigilli che impediscono di penetrare il Libro della Vita 
e manda un Angelo a rivelare i progetti eterni, 
a introdurci nella tua pazienza, a istruirci col saggio Qoelet:
“””Vanità delle vanità: tutto è vanità”””.
Tutto…tranne l’amare.

(Fonti: https://svppbellum.blogspot.com/, Web, Google, Blog di Marcello Veneziani, Wikipedia, You Tube)































 

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