Nel 2023 era una canzone di oltre mezzo secolo fa che diventò un mantra, anche ironico, per indicare il futuro più remoto. Adesso quel futuro è arrivato, da domani ci saremo dentro. Vaghi e profetici erano gli accenni al futuro in quella canzone scritta da Caterina Caselli (ma ne esisteva una versione precedente americana) e interpretata da Dalida: si vaticinava oscuramente che il sole sarebbe sceso su di noi, che il cuore sarebbe stato una macchina, che non avremmo visto più coi nostri occhi ma tramite immagini di altri mondi; e poi le braccia rese inutili, il lavoro abolito, il tempo sempre più veloce… Però poi, concludeva che i sentimenti sarebbero rimasti gli stessi, anche nei millenni a venire; le paure, gli affetti, l’attesa di Dio: “Le rose sono vive, la pioggia cade ancora, le cose belle sono antiche”.
I cuori, è vero, sono sempre più assistiti da macchine, gli occhi sono sempre più supportati da altri fornitori d’immagini, a partire dallo smartphone; la nostra vita si è allungata ma il tempo scorre più veloce; le braccia non sono ancora inutili e bene o male si lavora ancora, anche se i pensionati stanno sorpassando i lavoratori, reddito di cittadinanza a parte.
Quel futuro però cominciava a impensierire: era finita l’attesa euforica dell’avvenire, finite le grandi imprese lunari, i domani che cantano del ’68, il sol dell’avvenire a sinistra, il domani appartiene a noi a destra; si viveva con qualche apprensione lo scenario del futuro. Poi la crisi energetica del ’73 impose bruscamente uno stop all’accelerazione progressiva e ripropose i limiti dello sviluppo.
Insomma, agli inizi dell’età contemporanea il futuro era una promessa, ora è invece una minaccia. Per ragioni ambientali e sanitarie, per la guerra e le minacce nucleari, per la vecchiaia dell’occidente e la decadenza delle civiltà.
L’anno che è passato è stato davvero un anno strano, a cavallo di una pandemia e di una guerra che ha coinvolto il mondo come non era accaduto con le precedenti. Strano anche da noi, con il passaggio – imprevedibile agli inizi del ’22 – dal Super-Tecnocrate Drago Draghi a una donna, giovane per giunta, di destra perdipiù, integralmente “politica” e militante. E la cosa più strana è che questo passaggio agli antipodi, con questa rivoluzione copernicana, non è stato traumatico ma gentile, con una malcelata simpatia tra il SuperPremier che lasciava e la giovane erede al trono, unica all’opposizione del suo governo euro- tecno-ecumenico. Ma la successione è stata morbida anche per i mercati, per la borsa, per il sistema Italia; percepita più all’insegna della continuità che della rottura. Di questo c’è chi se ne compiace e chi no, ma è un dato di fatto. Col paradosso aggiuntivo che una Meloni scontenta d’indole, come lei aveva confessato, e leader del Partito degli Scontenti, oggi propina agli italiani iniezioni di fiducia e di ottimismo per l’avvenire. Fa bene, e non solo perché è un dovere di ufficio per chi governa. Ma anche perché non potendo realizzare rivoluzioni o riforme radicali, dovendo attenersi ai quattro muri portanti del potere – allineamento all’Europa, alla Nato, alla linea Draghi, alla religione antifascista – non può che trasferire le speranze e le attese sui cittadini stessi. Ovvero, la rivoluzione promessa riguarda noi più che il governo: mutate atteggiamento, diventate fiduciosi, siate operosi, intraprendenti, non abbiate paura del futuro. E’ il sovranismo faidate, autarchico, che si trasferisce dal potere ai cittadini, quasi evocando il motto kennediano: non chiedetevi cosa può fare il Paese per voi ma chiedetevi cosa potete fare voi per il Paese. D’accordo, raccogliamo la sfida, anche se qualche segnale forte dal governo sarebbe necessario, superate le immediate emergenze, dalle finanziaria in giù.
Però vorrei tornare all’attesa dell’avvenire e al cambio di atteggiamento. Partendo da un piccolo segno simbolico. Ieri, al mio paese natale (infatti a Natale sono sempre al mio paese, Bisceglie) ho visitato una piccola, grande mostra. In una minuscola e splendida chiesa antica in romanico pugliese, Santa Margherita, Luciana Belsito ha dedicato una rassegna fotografica alla maternità, dal titolo suggestivo e promettente: Mater. Dalla vita alla vita.
Immagini di madri e di bambini di tutto il mondo, scorci di vita ordinaria, vite indifese alla luce del sole, all’aperto, esposte alla miseria e all’intemperie ma distinte da sguardi fiduciosi, legami amorevoli, senza effusioni e ostentazioni, ma naturali, come l’acqua che sgorga e il sole che illumina il mondo. Provengono dalle zone più remote dall’occidente e dal suo modello di vita, dall’Asia, dall’Estremo Oriente, dal ventre profondo del Sud America. Birmania, Bhutan, Laos, Ecuador, Colombia. E’ la riscoperta della realtà a partire dal suo legame primigenio quello che lega una madre al suo bambino; origine della vita e del mondo. La natività, la natalità, la maternità, parole quasi proibite nel nostro lessico corrente e “corretto”.
E’ invece la vita vera è quella, e anche il più vertiginoso sguardo al futuro trova rassicurazione in quella promessa di vita che continua per via naturale, tramite il cuore, il sangue, il legame, il ciclo delle generazioni, la cura filiale e la premura materna. Nel piccolo regno del Bhutan, tra l’India e la Cina, dove trovano riparo molti tibetani ancora in fuga dalla dittatura comunista cinese, viene calcolato da anni il quoziente di felicità interna lorda: è il Fil, che sembra quasi evocare il legame filiale. Eppure è un paese tra i più poveri ma hanno sorrisi di infinita amicizia col mondo. Non vorrei fare la retorica del poveri ma felici, e nessuno auspica da noi il ritorno alla povertà: ma il Bhutan mostra l’indipendenza della felicità dai consumi, la netta divaricazione tra l’essere e il benessere (economico), tra la gioia di vivere e quella di possedere e desiderare. Che il 2023 abbia come programma il titolo di quella mostra: Mater. Dalla vita alla vita.
Marcello Veneziani, La Verità – 31 dicembre 2022
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