lunedì 8 luglio 2019

L'attività del Gruppo CAPRONI nel settore navale (midget e mini-sommergibili insidiosi)


L'esemplare di S.S.B. conservato all'Imperial War Museum di Londra (foto dell'autore).


Giovanni Battista "Gianni" Caproni era originario di Arco nell'allora Impero austro-ungarico, dopo gli studi compiuti tra Monaco di Baviera e Liegi, ed un successivo soggiorno a Parigi, volle dedicarsi costruzione di aerei scegliendo di svolgere la sua attività in territorio italiano, in quanto la sua famiglia era di solide tradizioni irredentiste.
Il suo primo velivolo a motore compì il primo volo il 27 maggio 1910 a Cascina Malpensa, dove fondò con suo fratello Federico Caproni la Società d'Aviazione Fratelli Caproni. Il nome e l'assetto della società cambiarono più volte negli anni successivi.
Verso la fine del 1910, Gianni Caproni si trasferì a Vizzola Ticino avviando lì la produzione di serie a partire dal 1911.
Nel frattempo Caproni aveva infatti affiancato all'azienda aeronautica la Scuola di Aviazione Caproni ed iniziò ad affermarsi il prestigio della ditta a livello internazionale. In quegli anni infatti il Ca.11 conquistò il primato di velocità nazionale, ed il Ca.12 il primato mondiale. Proprio con il Ca.12 ci fu anche il primo servizio aereo per un passeggero pagante in Italia, il 22 aprile 1912 al Lido di Venezia.
Trovatasi in difficoltà economiche, e nell'estate 1913 l'azienda venne rilevata dal Regio Esercito e Giovanni Battista Caproni rimase come direttore tecnico dello stabilimento.
Il gruppo Caproni negli anni Trenta arrivò ad includere più di 20 società. L'attività di queste ditte era principalmente nel settore aeronautico, metalmeccanico (treni) e navale (midget e mini-sommergibili insidiosi): produzione dei velivoli Caproni, produzione su licenza (in particolare di velivoli Savoia-Marchetti) e sviluppo di progetti in maniera autonoma.
Il gruppo Caproni aveva aziende collegate anche all'estero: Stati Uniti, Belgio, Bulgaria e Perù.

Gianni Caproni ebbe una storia rilevante anche come costruttore navale, di imbarcazioni e di motori; nei primi Trenta rilevò la Isotta Fraschini che oltre alle auto produceva poderosi motori marini che vennero montati sui cosiddetti MAS (Motoscafo armato silurante o Motoscafo Antisommergibili) o le MTB motosiluranti, questi mezzi furono esportati in: Turchia, Giappone, Russia, Gran Bretagna e Svezia.
Oltre alla produzione di motori per uso marittimo, lo Stabilimento Aeroplani Caproni di Taliedo, mise a frutto la sua capacità industriale per sviluppare un tipo di motovedetta ed in seguito progettò e produsse i sommergibili tascabili Caproni CA e Caproni CB, con equipaggio di tre persone.
Verso la fine della seconda guerra mondiale la ditta iniziò a produrre il Siluro San Bartolomeo, versione modificata del cosiddetto SLC (Siluro a Lenta Corsa).

La classe CB 

Fu una serie di sommergibili tascabili progettati dalla Caproni e costruiti a partire dal 1940 soprattutto allo scopo di difesa dei porti e di lotta antisommergibile.
Costruiti in 22 esemplari, ben si comportarono durante la seconda guerra mondiale operando sia in basi nazionali che nelle basi sul Mar Nero; proprio quelli di stanza in quest'ultima base il 30 agosto 1944 furono requisiti dall'URSS nella cui marina rimasero in servizio fino al 1955. Nel Norditalia intanto l'RSI conferma l'ordine di 50 Caproni CB da utilizzare nell'alto Adriatico. La produzione industriale riuscì a fornire solo dieci battelli. Le perdite di questi mezzi fu elevata soprattutto per l'uso improprio del mezzo, nato per operazioni di commando in ambito costiero, si trovò ad operare come vero e proprio sommergibile.
Una delle unità alla fine del conflitto viene requisita nel porto di Pola dall'esercito iugoslavo e incluso nella propria marina con il nome di P901 Malisan. Questo battello verrà radiato nel 1950 ed è attualmente conservato presso il Museo delle Scienze e delle Tecniche di Zagabria.
Il Caproni CB22 fu catturato dagli Alleati a Trieste alla fine del conflitto, per qualche anno rimase abbandonato sulla banchina del porto, finché nel 1950 fu trasferito nel Museo della Guerra di Trieste, dove è tuttora esposto.

I "CB" della Regia Marina

Nel 1942 con i primi sei mini-sommergibili della classe CB operativi (CB.1, CB.2, CB.3, CB.4, CB.5 e CB.6) la Regia Marina predispone la Prima Squadriglia CB che avrebbe dovuto avere come base Taranto. Ma nel maggio 1942 i sei CB sono invece trasportati via treno a Jalta sul Mar Nero. Il loro scopo è di contrastare i rifornimenti russi verso la città di Sebastopoli, assediata dai tedeschi. I sommergibili, sotto il comando della 4ª Flottiglia MAS, evidenziano la loro capacità nella lotta antisom, affondando tra giugno ed agosto 1942 due sommergibili sovietici, lo "Šč-214" di 586 t., e lo "S-32" di 840 t.). Il battello CB.5, colpito nel porto di Jalta da un siluro lanciato da una motosilurante sovietica, sarà l'unico mini-sommergibile italiano perduto in quella prima estate di guerra nel Mar Nero.
Dopo la caduta di Sebastopoli, nell'agosto 1942, i cinque CB vennero trasferiti da Jalta a Costanza, dove esisteva una base navale più attrezzata.
Nel 1943 furono quindi assegnati alla Decima Flottiglia MAS. Questi cinque sommergibili dovevano rientrare in Italia ed unirsi alle unità della Seconda Squadriglia CB, "CB.7", "CB.8", "CB.9", "CB.10", "CB.11" e "CB.12") che difendevano il porto di Taranto. Rimangono, comunque, operativi nel Mar Nero e nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1943 il "CB.4" coglie l'ultimo successo di un sommergibile italiano nella seconda guerra mondiale, affondando il sommergibile sovietico "Šč-203" di 586 t.
Alla data dell'8 settembre i cinque CB nel Mar Nero sono requisiti dai Tedeschi, mentre i battelli della Seconda Squadriglia CB si consegnano agli alleati a Taranto, ad esclusione del "CB 7" che danneggiato, è bloccato nel porto di Pola.
Mentre per i cinque CB passati nelle forze co-belligeranti la strada si divide: alcune fonti dicono che per loro la guerra è terminata l'8 settembre 1943 (secondo queste non saranno mai impegnati dagli Alleati e nel 1948 verranno demoliti), altre testimoniano il loro utilizzo da parte della flotta britannica, e a loro si attribuisce l'affondamento di un U.Boot del tipo XXI in uscita da una base, ma le voci in merito sono discusse. Per i CB della Decima Flottiglia MAS la guerra durerà fino alla prima settimana del maggio 1945.



I battelli costieri CM

Piccoli battelli costieri a semplice scafo con doppi fondi interni progettati dai CRDA. Concepiti per l'impiego silurante antinave in vista di azioni "a massa", avrebbero dovuto essere realizzati velocemente e in serie per l'intervento in passaggi obbligati (Canale di Sicilia, ecc.) e per la difesa contro un'eventuale flotta d'invasione. Si trattava di mini-sommergibili il cui progetto, che risaliva al 1937, venne aggiornato e ripresentato alla Regia Marina nell'aprile del 1943 ottenendo l'immediata ordinazione di un prototipo definito "Costiero Monfalcone" ("CM"). Lo studio prevedeva anche l'installazione in coperta di una mitragliera binata da 13,2 su affusto "a scomparsa" che, però, non venne mai imbarcata; l'apparato motore di superficie si componeva di due unità motrici diesel da carro armato (il nuovo "P 40" che nel 1943 stava per entrare finalmente in produzione) opportunamente adattate. All'ordinazione del prototipo (CM 1), al quale ne era stato affiancato un altro identico da realizzare a cura della Caproni, seguì nel maggio 1943 quella di ulteriori due unità (CM 2 e CM 3) nell'ambito dell'originaria ipotesi di estendere a breve la commessa ad altre 15 (CM 4-19).
Varato quasi completamente allestito il 1 ° settembre 1943, il CM 1 si trasferì per le prove a Venezia dove, pochi giorni dopo, fu catturato dai tedeschi che, in un primo tempo, pensarono di utilizzarlo (U.IT 17), così come di proseguire la costruzione del CM 2 (U.IT 18). I due battelli, però, vennero poco dopo rimessi alla Marina Nazionale Repubblicana sotto le cui insegne il CM 1 entrò finalmente in servizio il 5 gennaio 1945 a Pola, senza tuttavia espletare attività operativa nei mesi successivi. Il gemello, varato nel febbraio 1944, fu poi danneggiato da un bombardamento aereo e, tirato in secco, non fu più completato; sezionato in tre pezzi, finì nel dopoguerra al Museo Henriquez di Trieste dove rimase una quindicina d'anni prima di essere demolito.
Anche se la mancanza d'impiego operativo non ha consentito di esprimere compiuti giudizi su questi battelli, si può ritenere che le loro prestazioni, pur risultando superiori a quelle dei ben più piccoli "CB", non avrebbero potuto non risentire delle pesanti limitazioni derivanti dalle loro sempre troppo modeste dimensioni.

La classe CC "Costiero Caproni”

La classe CC (sigla per "Costiero Caproni") era una classe di sommergibili tascabili della Regia Marina, progettata a partire dal 1943 dalla ditta Caproni come modello derivato dalla precedente classe CM; delle 37 unità inizialmente progettate solo tre furono effettivamente impostate, ma la loro costruzione fu interrotta dagli eventi dell'invasione tedesca dell'Italia nel settembre 1943 e poi definitivamente cancellata nel dicembre 1944.
I battelli della classe CC costituivano una versione migliorata e ingrandita dei precedenti classe CM, il prototipo di uno dei quali era stato commissionato alla ditta Caproni di Taliedo: la Caproni apportò alcune modifiche al progetto dei CM, portando alla costituzione di una nuova classe di imbarcazioni. I CC erano lunghi 33 metri (poco di più dei CM), larghi 2,89 metri e con un pescaggio di 2,77 metri; il dislocamento, superiore a quello dei CM, era di 99,5 tonnellate in superficie e di 117 tonnellate in immersione, mentre la profondità di collaudo raggiungibile dai battelli era di 80 metri. L'apparato motore basato su due motori diesel Fiat da 700 hp per la navigazione in superficie e due motori elettrici CRDA da 120 hp per la navigazione sott'acqua, leggermente più potente di quello installato sui CM, consentiva una velocità di 14 nodi in emersione e di 9 nodi in immersione; l'autonomia era di 1.200 miglia nautiche a 10 nodi in emersione e di 70 miglia nautiche a 4 nodi in immersione.
L'armamento verteva su tre tubi lanciasiluri da 450 mm (uno in più dei CM) montati a prua, ciascuno dotato di un unico siluro, e una mitragliera binata Breda Mod. 31 da 13,2 mm per la difesa antiaerea; l'equipaggio ammontava a due ufficiali e sei sottufficiali e marinai. Riconoscendo la validità delle modifiche apportate dalla Caproni al progetto dei CM, il 19 giugno 1943 il comando della Regia Marina commissionò alla ditta tre battelli della classe CC, il prototipo già assegnato (CC 1) e due ulteriori unità di preserie (CC 2 e CC 3), a cui far seguire la costruzione di ulteriori 34 unità. L'annuncio dell'armistizio dell'Italia l'8 settembre 1943 e la conseguente invasione della penisola da parte dei tedeschi portò alla sospensione del programma di realizzazione dei CC; la costruzione delle tre unità fu brevemente ripresa per conto della Marina Nazionale Repubblicana fino alla definitiva cancellazione del programma nel dicembre del 1944, quando i battelli erano in uno stadio di completamento compreso tra il 60 e il 38%. Il lago di Garda in quel periodo fu coinvolto in esperimenti che videro protagonista uno strano mezzo subacqueo che vide la luce grazie ad un geniale italiano, l’ingegnere Secondo Campini, progettista del primo aereo a reazione italiano secondo nel mondo dopo l’Heinkel 70 tedesco che lo battè sul tempo di pochi mesi, ossia il Campini-Caproni CC2 ed una attivissima ed altrettanto geniale ditta italiana e trentina, la Caproni che aveva già accumulato una notevole esperienza nel settore con altre realizzazioni similari. Ciò che contraddistingueva il progetto dell’Ing. Campini era il tipo di propulsione. Come egli stesso afferma in una sua relazione del 1942 faticosamente ritrovata dopo lunghe ricerche si trattava nientemeno che di un sommergibile privo di elica esterna che sfruttava il fluido acqua nella stessa maniera in cui la sua rivoluzionaria turbina sfruttava l’aria per fare volare il CC2.  Campini e il comandante De Bernardi redassero insieme il progetto, la Caproni si accollò la costruzione proponendola all’inizio alla Regia Marina che dopo un iniziale interesse abbandonò il progetto in quanto assillata da ben altri problemi, indi alla Marina Tedesca con cui stipulò un contratto di 50.000 marchi tedeschi dell’epoca per la costruzione di due prototipi: con una lunghezza di 11 metri e un diametro di un metro si presentava molto affusolato, con un armamento composto da due siluri trasportati esternamente. Il profilo che pubblichiamo in queste pagine è il primo in assoluto nel suo genere, ricostruito sulla base dei documenti originali ritrovati nel dopoguerra. In quei tragici momenti di guerra, appariva difficile, se non impossibile, impiantare una fabbrica completa di macchinari e operai nel forte sul lago, ed infatti seguendo l’esempio di quanto si stava già facendo in Germania con la dislocazione su altre aree degli impianti produttivi per sottrarli ai continui bombardamenti alleati; si prese la decisione di trasferire i mezzi parzialmente completati al forte di Torbole, data anche la vicinanza degli stabilimenti della Caproni di Rovereto e alle fabbriche sotterranee che si occupavano della realizzazioni di motori e parti di velivoli a razzo e reazione. Era più semplice il reperimento dei preziosi materiali di costruzione dei propulsori e, all’occorrenza, il trasferimento di mano d’opera specializzata da un impianto all’altro. Responsabile della costruzione era l’ing. De Pizzini. Ingegnere meccanico, pilota collaudatore della Caproni abilitato al volo su decine di aerei diversi, sopravvissuto ad un abbattimento sopra Milano da parte dei caccia americani, collaboratore dopo la guerra con il geniale progettista aeronautico Kurt Tank e responsabile degli impianti industriali di Torbole oltre che persona in cui lo stesso Conte Caproni riponeva massima fiducia: era l’uomo ideale per sovrintendere alla costruzione dei nuovi mezzi subacquei. 
I sommergibili furono quindi approntati tra mille difficoltà per il reperimento dei materiali che comunque iniziavano a scarseggiare, e rivelando fin da subito stupefacenti capacità propulsive dei motori, anche se le prove furono interrotte da malfunzionamenti e rotture tipiche di tutti i prototipi rivoluzionari: Campini e De Bernardi avevano visto giusto! 
Forse questa volta la marina tedesca aveva qualcosa per ovviare al maggiore difetto dei suoi mezzi navali insidiosi, ossia proprio la velocità che nelle aspettative avrebbero consentito di attaccare a frotte le sempre più numerose flotte da sbarco alleate, lanciando i siluri e sfuggendo alla massima velocità ai loro aerei e siluranti. Tutto quindi procedeva per il meglio, ma la fine del conflitto e con essa l’incombente Decima divisione da Montagna americana si avvicinava sempre più. Ecco quindi l’ordine di distruggere i mezzi con l’esplosivo in mezzo al Lago dove il fondale superava i 200 metri, bruciare i documenti, fare sparire ogni traccia. Nulla doveva cadere in mano nemica! E così fu. Un giorno di fine aprile 1945, al calare della sera quando meno probabili erano le incursioni aeree dei micidiali “Thunderbolt” da attacco americani che dalla Toscana si spingevano sino al Brennero i mezzi furono quindi portati al largo, una barchetta si affiancò per prelevare i piloti, e una carica esplosiva distrusse i mezzi i cui rottami affondarono per sempre nelle profonde acque del lago. Sotto l’occhio vigile e ben poco amichevole di una squadra di SS, Pizzini e i suoi collaboratori bruciarono nel forte di Torbole tutti i documenti relativi ai mezzi: foto, relazioni, disegni! Nulla si salvò. 
Anni dopo un oscuro riferimento ad un ritrovamento di un mini sommergibile sul Garda nel diario storico della divisione americana fece supporre che almeno uno di questi rivoluzionari mezzi si fosse salvato, o che almeno ne esistesse qualche immagine. Si trattava invece, come accurate ricerche hanno recentemente permesso di appurare di uno dei Caproni “CB” che i tedeschi requisirono agli italiani con l’intenzione di trasportarli in Germania e che finirono a Garda, complice anche il diverso scartamento delle ferrovie e che lì rimasero sino alla fine della guerra, formalmente restituiti al Governo della Repubblica Sociale ma praticamente abbandonati nel caos dell’ultimo anno e mezzo di guerra. 
Il segreto era stato ben custodito se ancora a fine 1944 in un rapporto classificato “segretissimo” e recuperato fortunosamente presso gli archivi londinesi i servizi inglesi riferivano di sommergibili in costruzione sul Lago di Garda, ma ampiamente sottostimando le loro effettive capacità e le innovazioni tecnologiche introdotte. 
Anche il Giappone imperiale si interessò a questi mezzi: una delegazione militare arrivata in Europa in sommergibile per acquisire tecnologia bellica si recò nel massimo segreto a Torbole, vide, misurò e fotografò. Qualcosa si portò via, ma oggi negli archivi giapponesi non rimane traccia di quella visita. Tutto distrutto nella furia dei bombardamenti americani? 
Distrutto per non farlo cadere in mano al nemico che stava per sbarcare nel sol levante? Non lo sapremo mai. Ma, si obbietterà, se erano così rivoluzionari perché i vincitori della guerra non ne hanno adottato le soluzioni tecniche?



Il Siluro San Bartolomeo (S.S.B.)

Il Siluro San Bartolomeo era un sommergibile tascabile da attacco sviluppato dalla Marina Militare Italiana durante la seconda guerra mondiale. Durante l'utilizzo del "Siluro a Lenta Corsa" si erano notate lacune nella progettazione che hanno messo in evidenza la necessità di realizzare una versione aggiornata del mezzo di attacco subacqueo. Il progetto venne redatto da il Maggiore del Genio Navale Mario Masciulli dal Capitano G.N. Travaglino e l'ingegner Guido Cattaneo su specifica richiesta del raggruppamento italiano di incursori subacquei.
Gli unici S.S.B. effettivamente impiegati, due risultano siano rimasti alla Spezia ed uno inviato in Adriatico a Venezia, dove venne ritrovato alla fine della guerra. I due S.S.B. della Spezia vennero assegnati al “Gruppo Operativo della Castagna”, una vecchia batteria posta sul lato occidentale della rada – della Decima Mas, agli ordini del T.V. Augusto Jacobacci (pilota dei S.S.B.), già designato per l'azione contro Gibilterra pianificata per il 2 ottobre 1943. Il Siluro San Bartolomeo era la versione migliorata del "Siluro a Lenta Corsa". Il progetto venne redatto da il Maggiore del Genio Navale Mario Maciulli dal Capitano G.N. Travaglino e l'ingegner Guido Cattaneo su specifica richiesta del raggruppamento italiano di incursori subacquei.
Gli unici S.S.B. effettivamente impiegati furono due rimasti a La Spezia ed uno inviato in Adriatico a Venezia, dove venne ritrovato alla fine della guerra. I due S.S.B. della Spezia vennero assegnati al “Gruppo Operativo della Castagna” una vecchia batteria posta sul lato occidentale della rada – della Decima Mas. agli ordini del T.V. Augusto Jacobacci (pilota dei S.S.B.), che alla fine del 1944 tentarono l’attacco a Livorno, non riuscito per avaria ad un cuscinetto dell’elica del mezzo avvicinatore MTL 476.
L'impiego degli "S.L.C.", sia nelle prove e negli allenamenti sia nelle missioni eseguite, aveva evidenziato tali limitazioni, in parte d'origine del mezzo (per esempio il fatto che il secondo operatore viaggiava completamente in immersione durante l'azione), da considerare necessario procedere ad una completa rielaborazione del progetto originario.
Gli studi tecnici relativi vennero affidati al Maggiore del Genio Navale Mario Maciulli, con la collaborazione del Capitano G.N. Travaglino (anche sull'Olterra come responsabile dell'officina segreta) e con la consulenza dell'Ingegner Guido Cattaneo della C.A.B.I. di Milano, su specifiche fornite dal Comando della Xa Flottiglia MAS.
Avvalendosi anche della collaborazione della Direzione Armi Subacquee dell'Arsenale della Spezia, la realizzazione del prototipo venne curata dall'Officina Siluri di San Bartolomeo. 
Da qui la denominazione ufficiale del nuovo tipo di semovente: Siluro San Bartolomeo (S.S.B.)
Gli unici S.S.B. effettivamente impiegati furono solo quelli di costruzione "San Bartolomeo" di cui due risulta siano rimasti al La Spezia ed uno inviato in Adriatico a Venezia, dove venne ritrovato alla fine della guerra. I due S.S.B. della Spezia vennero assegnati al "Gruppo Operativo della Castagna" una vecchia batteria posta sul lato occidentale della rada – della Xa Mas. Agli ordini del T.V. Augusto Jacobacci (pilota dei S.S.B.), già designato per l'azione contro Gibilterra pianificata per il 2 ottobre 1943.



Il mini sottomarino d’assalto SA

Durante il 2° conflitto mondiale, sotto tutti i mari del mondo, i motori dei sommergibili, al pari dei loro equipaggi, dovevano fare periodiche e furtive emersioni per “respirare“ prima di ritornare nelle oscure e sicure profondità. Vero “tallone di Achille“, questa necessità esponeva il battello alla scoperta e alla caccia da parte delle unità nemiche che spesso si concludeva tragicamente.
La Marina Germanica, alla ricerca dell’invulnerabilità per le nuove unità subacquee, aveva adottato una invenzione già sperimentata dalla Regia Marina: lo snorkel che a quota periscopica permetteva di “respirare“. Inoltre, stava mettendo in linea gli “elektroboot” e sperimentava il vero “sottomarino“ propulso dalla turbina Walther che era indipendente dall’atmosfera: il vero “motore unico“.
Costretti ad emergere per “respirare“, 783 battelli tedeschi e 128 italiani furono colpiti ed affondati con 43.000 marinai sommergibilisti.
Nella notte tra l’8 ed il 9 settembre del ’43, nelle acque del golfo di Salerno, il primo vero piccolo sottomarino italiano, che non aveva bisogno di “respirare“, si apprestava a combattere la sua prima ed unica battaglia. In realtà tutto erta iniziato quasi dieci anni prima.
Negli anni ’30 il Maggiore del Genio Navale “Pericle Ferretti” risolse il problema con un dispositivo che permetteva la navigazione a quota periscopica con i motori a combustione interna tipo Diesel, mentre per la navigazione completamente subacquea era sempre necessario il motore elettrico con le pesanti batterie ricaricabili dallo stesso Diesel. Il dispositivo “ML“ fu istallato sperimentalmente nel 1934 su alcuni battelli tipo “Sirena“ in costruzione al cantiere CRDA di Monfalcone. Ma l’incremento di soli 1.7 nodi ottenuto in immersione con il diesel e il dispositivo ML, rispetto al motore elettrico, ne giustificò l’abbandono e l’accantonamento.
Per inciso, dopo l’8 settembre la Kriegsmarine adottò il dispositivo ML sui suoi sommergibili, chiamandolo snorkel. Il dispositivo di Ferretti era stato trovato abbandonato nei magazzini del cantiere di Monfalcone. Il vero obiettivo delle ricerche di Ferretti era l’eliminazione del motore elettrico e della sua batteria, sostituendoli con un motore termico “unico“ ed indipendente dalla aspirazione atmosferica. Secondariamente, lo studio e la determinazione di una forma idrodinamica per un vero battello sottomarino e non sommergibile, capace di sviluppare forti velocità subacquee.
La soluzione era un motore che come comburente potesse usare i suoi stessi gas di scarico purificati ed additivati con ossigeno… cioè un motore a ciclo chiuso. Ferretti mise a punto un motore aeronautico a quattro tempi Isotta Fraschini “Asso“ da 350 CV alimentato ad alcool al 97% e ossigeno conservato allo stato liquido in bombole ad alta pressione.
L’alcool solubile in acqua salata depurava i gas di scarico raffreddati dai residui di combustione e li faceva ritornare nel ciclo.
Le prove a terra nel 1936 dimostrarono l’impossibilità di raggiungere ulteriori grandi potenze con questo sistema che ne riduceva l’utilizzazione a battelli di piccole dimensioni e quindi di limitato valore strategico.
Da questa limitazione nacque l’idea del piccolo sottomarino d’assalto SA, progettato dall’Ammiraglio “Eugenio Minisini” al quale si doveva anche il lanciasiluri ad impulso laterale installato sui Mas. Sottomarino già realizzato da Caproni ma con scarse doti di velocità e stabilità di lancio. 
Il battello di Minisini fu impostato in due esemplari, SA 1 e SA 2, nel 1941 in gran segreto, presso il silurificio di Baia, abbandonando l’idea architettonica del classico sommergibile ed era progettato come un sottomarino.
I due esemplari erano battelli fusiformi di 13 tonnellate cadauno, con linee estremamente idrodinamiche, equipaggio di tre uomini e motore a ciclo chiuso Isotta Fraschini, che azionava un’elica prodiera trattiva, alla velocità subacquea di 15 nodi, la più alta mai registrata sotto acqua.
I due SA erano armati con due siluri in gabbie per lancio poppiero. Il piccolo battello era dotato di uno scafo resistente di forma cilindrica con terminali conici molto raccordati. Non avendo contro-canne nelle quali alloggiare le casse di compenso ed assetto, il volume era calcolato per avere una riserva di galleggiamento di soli 300 Kg.
La navigazione in immersione alla quota massima di 25 metri era assicurata dinamicamente dai timoni di profondità che avevano una incidenza fissa di 5 gradi alla velocità di 15 nodi. Le variazioni di quota potevano essere ottenute solo dinamicamente variando la velocità ed agendo sui timoni orizzontali oltre i 5 gradi fissi. La riserva di galleggiamento poteva essere incrementata in emergenza sganciando la chiglia esterna in piombo, in tal caso essa saliva a 1800 Kg. Era previsto anche un dispositivo di compensazione che immetteva acqua di mare al peso corrispondente del carburante consumato.
Le bussole erano due:
  • magnetica, che era sistemata nella pinna del periscopio, lontano dalla massa dello scafo e letta mediante un ripetitore
  • giroscopica, montata in camera di manovra.

L’efficacia e il rendimento delle eliche trattive erano state ampiamente dimostrate nelle prove in vasca e in mare su modelli in scala degli SA. Le eliche anteriori dimostrarono inoltre che il battello era:
  • molto stabile nel mantenimento della quota subacquea
  • molto manovriero
  • immune dagli scompensi di assetto e velocità durante le fasi di lancio.

Il lancio prodiero di due siluri del peso di una tonnellata, per reazione, avrebbe rallentato sensibilmente la velocità di un battello di tredici tonnellate facendolo anche emergere in assetto pericoloso. Il vantaggio dell’alta velocità era però castigato dalla scarsa potenza ottenibile dall’apparato motore e incompatibile con l’esigenza strategica che voleva per i battelli di elevato dislocamento, autonomia e capacità offensiva, limitandone l’impiego al campo tattico. Era stato studiato il suo lancio a breve distanza dall’obiettivo mediante un “vettore“ che in questo caso poteva essere un cacciatorpediniere di squadra della classe “soldati“ dotato di uno scivolo di lancio poppiero. Il lancio avrebbe dovuto avvenire alla velocità di 30 nodi mediante la trazione di un’ancora galleggiante del tipo a paracadute solidale all’invasatura del battello mediante un cavo.
Il sottomarino SA entrava in acqua di poppa e con il motore già in moto e si immergeva svincolandosi dall’invasatura che poteva eventualmente essere recuperata ed era quindi una specie di siluro pilotato di grande autonomia.
Le prove a mare svolte in gran segreto nel tratto di mare tra Procida e le isole Pontine diedero buoni risultati, anche se limitati alla resistenza fisica e psicologica dell’equipaggio e dalla scarsa velocità del mezzo “vettore“, un vecchio pontone posamine litoraneo, eufemisticamente classificato “Galleggiante Inseguimento Siluri GIS 7”, che con i suoi Diesel Tosi raggiungeva a mala pena gli 8 nodi e rendeva critica la fase di lancio.
Il vero ostacolo all’impiego immediato di questo mezzo rivoluzionario era la complessità e delicatezza dell’apparato motore, oltre alla sua conduzione. Esso richiedeva continue e meticolose messe a punto, con modifiche e sopratutto conoscenze tecniche da parte del motorista. Nel 1942, presso l’Istituto dei Motori di Roma, si sperimentò al banco con successo un nuovo motore, mentre in un reparto isolato e segreto del Silurificio di Baia, si impostò il sottomarino “SA3”. Il motore questa volta era un Diesel, probabilmente un OM a due tempi, i cui gas di scarico usati per diluire l’ossigeno liquido, venivano direttamente espulsi in mare, mentre il loro residui, arricchiti di ossigeno, venivano direttamente iniettati nei cilindri.
Il Ferretti mise a punto una miscela comburente, in un primo tempo a base di ossigeno allo stato liquido, oltre al gasolio e successivamente diluendolo nell’elio che è un gas neutro.
E’ di quel periodo l’interesse del Comandante della X MAS “Capitano di Fregata “Junio Valerio Borghese” per questo mezzo ormai classificato come mezzo d’assalto, sollecitando l’amico Principe Cinori Conti, presidente della Società Lardarello unica produttrice di questo gas, per incrementarne la produzione e l’accantonamento.
Questa ricerca portò al risultato eccezionale di sviluppare 40 Cv per litro di cilindrata, con un peso di tre Kg per CV, valori assolutamente positivi per un motore a circuito chiuso del tipo Diesel.
Il sottomarino SA 3 era accreditato di una velocità subacquea di oltre 20 nodi raggiunti su base misurata e presentava alcune varianti rispetto ai precedenti SA 1 e SA 2.  Esso fu realizzato, in un reparto isolato, modificando il progetto SA 2 con una differenza sulla parte poppiera dello scafo non resistente, che era del tipo a “castoro“, con il timone di profondità incorporato in essa e sormontata da una coppia di timoni direzionali. Inoltre i tubi lanciasiluri da 450 mm erano sempre due, con lancio verso poppa, ma all’interno dello scafo non resistente.
La stabilità longitudinale in immersione era assicurata da un servomotore idraulico Riva Calzoni, asservito ad un piatto idrostatico del tipo montato sui siluri. La realizzazione del sottomarino SA 3, oltre che dalle restrizioni di segretezza e dalle continue modifiche, (Ferretti si proponeva di poter raggiungere i 25 nodi con un motore esotermico a turbina) fu ostacolata nella primavera del 43 dalla situazione bellica contingente.
Il misterioso danneggiamento di un incrociatore americano nel Golfo di Salerno, avvenuto nella notte tra l’8 ed il 9 settembre del ’43, più volte attribuito a bombe teleguidate tedesche, ad aerosiluranti o al sommergibile italiano “Vellela“, successivamente affondato presso “Punta Licosa”, potrebbe essere in realtà attribuito al piccolo SA 3 che, non ancora consegnato ufficialmente alla Regia Marina, ma in collaudo di accettazione con equipaggio militare, partì il tardo pomeriggio dell’8 settembre da Baia per l’ultimo collaudo operativo e non rientrò alla base.
Il piccolo battello, alle 19,30 lasciò la darsena del silurificio a bordo del GIS7, accuratamente coperto con reti mimetiche. Lo stabilimento era ormai chiuso, ma a bordo, come d’altronde in tutta l’Italia, nessuno sapeva ancora della proclamazione dell’armistizio.
La ricerca tecnico/storica, in collaborazione con Enrico Cernuschi, ha prodotto un’enormità di informazioni che, dopo più di cinquanta anni, declassificate dalla Marina Americana, si stanno rivelando di grande valore storico.
Le eliche trattive controrotanti sono frutto del lavoro di ricerca italiano e la liberalizzazione dei documenti dell’OSS statunitense, hanno evidenziato che in quel periodo vi furono rapporti tra mafia e camorra italo americana ed i servizi segreti della US Navy. Rapporti tesi a svelare le tecnologie molto avanzate delle nuove armi subacquee allo studio e sperimentate presso il Silurificio Italiano di Pozzuoli – Baia, per conto della Regia Marina, tra cui il nuovo tipo di piccolo sottomarino siglato SA.
Si sapeva che la “felice“ ubicazione del Centro sperimentale del Silurificio era nell’aerea di Napoli e specificamente a Baia e si sapeva inoltre che l’ambiente, dal punto di vista della sicurezza, era un “colabrodo“.
Allo stato dell’arte del 1943, era un vero capolavoro dell’avanzatissima tecnologia subacquea italiana! 
Primo vero sottomarino con capacità di navigazione occulta ed illimitata, dotato del suo motore a circuito chiuso che, solo nei successivi anni duemila, verrà realizzato dalla tecnologia germanica con i battelli tipo U 212, ora in dotazione alla Marina Militare Italiana. 
Le due foto del SA 3 sono l’unica testimonianza dell’esistenza di questo battello del quale si ignorava persino che fosse stato costruito.
Le due uniche e preziose fotografie e quella successiva delle eliche trattive contro-rotanti sono state gentilmente conservate dal figlio dell’ingegnere Roberto Avati, che all’epoca lavorava presso il silurificio di Baia. 
Inoltre, le eliche di diametro apparente superiore ai 533 mm, potrebbero essere i propulsori “trattivi” sperimentali dei sottomarini SA, poiché non sono protette dal “castello” di supporto dei timoni e mancano nell’ogiva dello scarico dei gas. Probabilmente la propulsione era elettrica. Sono state ritrovate due foto del sottomarino SA 3 su carrello di trasporto in uscita dal silurificio di Baia, quale unico elemento dell’esistenza di questo straordinario ed avveniristico battello. Tutti i documenti e le relazioni tecniche dell’US Navy, datate dopo l’armistizio dell’8 settembre, parlano di due primi battelli sperimentali SA1 e SA2; quest’ultimo rapidamente recuperato in mare nella darsena innanzi al silurificio, dopo l’ingresso a Baia degli americani e da essi rapidamente inviato in America. Nessuna documentazione parla o fa cenno dell’esistenza di un terzo battello SA3 che aveva una configurazione molto più avanzata, specialmente nella parte poppiera dove sotto il timone orizzontale di profondità erano presenti le bocche di due tubi lanciasiluri. Altre fotografie, relazioni di prove di navigazione, dei collaudi motori e progetti del piccolo SA3, tutto materiale classificato segretissimo, fu distrutto presso gli uffici tecnici della Marina a Roma nei giorni immediatamente precedenti l’8 settembre. 

Che fine ha fatto il sommergibile SA3?
  • Giace abbandonato e vivisezionato in qualche capannone di un arsenale della Marina Militare Italiana chiuso a chiave?
  • Il suo motore è stato fatto “sparire“ dopo i collaudi in uno stabilimento di Zingonia?
  • La sua carcassa arrugginita giace in un fondale della baia di Pozzuoli, a poca distanza dal luogo dove era stato facilmente recuperato il sottomarino SA 2?

Chissà.

(Web, Google, Facebook, Wikipedia, Enrico Cernuschi, Altomareblu, You Tube)



























































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