lunedì 10 febbraio 2020

“””La maggior parte delle vittime, considerate come "infoibate", vennero uccise o morirono di stenti o malattia nei campi di concentramento jugoslavi”””.


I massacri delle foibe (in sloveno pokoli fojbe, in croato masakri fojbe, in serbo: mасакри фоjбе masakri fojbe) sono stati degli eccidi ai danni di militari e civili, in larga prevalenza italiani autoctoni della Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia, avvenuti durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato secondo dopoguerra, da parte dei partigiani jugoslavi e dell'OZNA. 



Il nome deriva dai grandi inghiottitoi carsici, che nella Venezia Giulia sono chiamati "foibe", dove furono gettati molti dei corpi delle vittime.
Si chiamano foibe le cavità naturali, profonde anche centinaia di metri, che esistono nella regione del Carso. Lì, a partire dal crollo del regime fascista nel 1943, furono compiuti massacri contro la popolazione italiana ad opera dei partigiani (sostenitori) comunisti iugoslavi del maresciallo Tito, il rivoluzionario filo sovietico (ossia amico dell'Unione Sovietica) che, con la fine della Guerra mondiale, sarebbe diventato dittatore della Iugoslavia fino al 1980 (la Iugoslavia è la regione occidentale della penisola balcanica ed è esistita come stato indipendente fino al 2003).
Secondo quei partigiani tutti gli italiani erano fascisti o contrari al regime comunista perciò, senza andare per il sottile, tutti gli italiani non comunisti che vivevano in Istria e in Dalmazia (due zone del Friuli Venezia Giulia) furono trattati come “nemici del popolo”, torturati e poi gettati nelle fosse naturali chiamate foibe con una procedura terrificante che non vi raccontiamo. Non si sa con esattezza quanti italiani furono uccisi in modo così barbaro ma, secondo alcuni storici, forse anche 10mila persone se non di più. Vediamo l'origine di questa violenza cieca.




UNA STORIA TRAGICA

Durante la II Guerra mondiale, dopo l'armistizio di Cassibile (Siracusa) dell'8 settembre 1943, con il quale l'Italia cessò le ostilità verso gli eserciti Alleati, accadde che in Istria e Dalmazia il Governo italiano smise, di fatto, di esistere. Cominciò così una lunga serie di violenze contro la popolazione italiana residente in quei territori.
La ragione di queste violenze va cercata nel fatto che i partigiani iugoslavi di Tito vollero vendicarsi contro i fascisti (e contro gli italiani in genere). Infatti, dalla fine della I Guerra mondiale fino all'armistizio della II Guerra gli italiani avevano amministrato duramente quelle zone, abitate per metà da popolazioni slovene e croate, ossia di origine slava. A queste persone venne imposta un'italianizzazione forzata e con i metodi violenti dei fascisti: pestaggi e, durante la guerra, deportazioni nei campi di concentramento nazisti.
Come se non bastasse nel 1945, quando alla fine della Guerra mondiale Tito prese il potere in Iugoslavia le violenze contro gli italiani aumentarono. Il 1° maggio 1945 l'esercito iugoslavo occupò la città di Trieste per riprendersi i territori che, dopo la sconfitta dell'Impero austro-ungarico alla fine della I Guerra mondiale, le furono sottratti.
In appena due mesi gli italiani che vivevano in Istria, in Dalmazia e nella città di Fiume furono costretti ad abbandonare tutto e a fuggire in Italia. Chi non lo fece abbastanza in fretta venne ucciso dall'esercito di Tito e gettati nelle fosse delle foibe o deportati nei campi di concentramento in Slovenia e in Croazia. 



Si stima che, alla fine, gli esuli italiani furono almeno 250mila. 

Al massacro delle foibe seguì l'esodo giuliano dalmata, ovvero l'emigrazione più o meno forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia, del Quarnaro e dalla Dalmazia, territori del Regno d'Italia prima occupati dall'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito e successivamente annessi dalla Jugoslavia. Emigrazione dovuta a varie ragioni: dall'oppressione esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell'identità nazionale, al rigetto dei mutamenti nell'egemonia nazionale e sociale nell'area, nonché alla vicinanza dell'Italia, che costituì un fattore oggettivo di attrazione per popolazioni perseguitate ed impaurite nonostante il governo italiano si fosse a più riprese adoperato per fermare o quantomeno contenere, l'esodo. Si stima che i giuliani, i quarnerini e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250 000 e le 350 000 persone tra il 1945 e il 1956.
Per estensione i termini "foibe" e il neologismo "infoibare" sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono in massima parte perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi. Anche se, secondo gli storici Pupo e Spazzali, l'utilizzo simbolico di questo termine, «può divenire fonte di equivoci qualora si affronti il nodo della quantificazione delle vittime», in quanto la differenza tra il numero relativamente ridotto dei corpi materialmente gettati nelle foibe, e quello più alto degli uccisi nei campi di prigionia, dovrebbe portare a parlare di "deportati" e "uccisi" per indicare tutte le vittime della repressione. Si stima che le vittime in Venezia Giulia, nel Quarnaro e nella Dalmazia siano state, sempre secondo gli storici Pupo e Spazzali, tra le 3 000 e le 5 000, comprese le salme recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi, mentre alcune fonti fanno salire questo numero fino a 11 000. In generale però cifre superiori alle 5 000 si raggiungono soltanto conteggiando anche i caduti che si ebbero da parte italiana nella lotta antipartigiana.



Inquadramento storico

Generalità

Gli eccidi delle foibe e il successivo esodo costituiscono l'epilogo di una secolare lotta per il predominio sull'Adriatico orientale, che fu conteso da popolazioni italiane e slave (prevalentemente croate e slovene, ma anche serbe). Tale lotta si inserisce all'interno di un fenomeno più ampio (un caso analogo è quello dell'espulsione dei tedeschi dopo la seconda guerra mondiale) che fu legato all'affermarsi degli stati nazionali in territori etnicamente misti e dove, secondo alcuni storici, l'identità e l'etnia degli individui e delle popolazioni erano più processi costruiti politicamente che dati immutabili e naturali.
Alcuni storici hanno interpretato questi atti, quasi tutti verificatisi nell'Istria meridionale (oggi croata), come una sorta di jacquerie, quindi di rivolta spontanea delle popolazioni rurali, in parte slave, vendetta per i crimini di guerra subiti durante il periodo fascista; altri, invece, hanno interpretato il fenomeno come un inizio di pulizia etnica nei confronti della popolazione italiana.
In ogni caso queste azioni furono un preludio all'azione svolta in seguito dall'armata jugoslava.
Alcuni storici (come il francese Michel Roux) asserirono che vi era una similitudine tra il comportamento contro gli italiani nella Venezia Giulia ed a Zara e quello promosso da Vaso Čubrilović (che divenne ministro di Tito dopo il 1945) contro gli Albanesi della Jugoslavia.
Nonostante la ricerca scientifica abbia, fin dagli anni novanta del XX secolo, sufficientemente chiarito gli avvenimenti, la conoscenza dei fatti nella pubblica opinione permane distorta e oggetto di confuse polemiche politiche, che ingigantiscono o sminuiscono i fatti a seconda della convenienza ideologica.



La composizione etnica della Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia

Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente (476 d.C.) le popolazioni romanizzate dell'Istria e della Dalmazia rimasero in balìa di alcune tribù bellicose, principalmente Avari e Slavi. I primi insediamenti di popolazioni slave, giunte a seguito degli Avari, risalgono al IX secolo (sia in Istria che in Dalmazia).
Alla fine del VIII secolo l'Istria interna e i dintorni, furono conquistate infatti da Carlo Magno: poiché tali terre erano scarsamente popolate, in quanto impervie, i Franchi e successivamente le autorità del Sacro Romano Impero vi consentirono l'insediamento degli slavi. Ulteriori insediamenti di slavi si verificarono in epoche successive; per quanto riguarda l'Istria, ad esempio, in seguito alle pestilenze del XV e XVI secolo.
Le comunità ladine che popolavano l'area di Postumia, Idria e dell'alto Isonzo sono scomparse dal Rinascimento, assimilate dalle popolazioni slave. Del resto intorno all'anno 1000 tutta la valle dell'Isonzo, fino alle sue sorgenti nelle Alpi Giulie, era popolata in maggioranza da popoli ladini.
La Repubblica di Venezia, tra il IX e il XVIII secolo, estese il suo dominio (suddiviso in tre aree amministrative: il Dogado, i Domini di Terraferma e lo Stato da Mar) soprattutto sulle cittadine costiere dell'Istria, nelle isole del Quarnaro e sulle coste della Dalmazia, che erano abitate da popolazioni romanizzate fin dai tempi più antichi.
Fino al XIX secolo gli abitanti di queste terre non conoscevano l'identificazione nazionale, visto che si definivano genericamente "istriani" e "dalmati", di cultura "romanza" oppure "slava", senza il benché minimo accenno a concetti patriottici oppure nazionalistici, che erano sconosciuti.
Vi era una differenza di carattere linguistico-culturale tra città e costa (prevalentemente romanzo-italiche) e le campagne dell'entroterra (in parte slave o slavizzate). Le classi dominanti (aristocrazia e borghesia) erano dovunque di lingua e cultura italiana, anche qualora di origine slava. Nella Venezia Giulia, oltre che l'italiano, si parla anche la lingua veneta, la lingua friulana, la lingua istriota e la lingua istrorumena, mentre in Dalmazia era comune la lingua dalmatica, che si estinse nel 1898, con la morte dell'ultimo parlatore, Tuone Udaina.



Gli opposti nazionalismi

Fino all'Ottocento, in Venezia Giulia, nel Quarnaro e in Dalmazia, le popolazioni di lingua romanza e slava convissero pacificamente. Con la Primavera dei popoli del 1848-49, anche nell'Adriatico orientale, il sentimento di appartenenza nazionale cessò di essere una prerogativa delle classi elevate e cominciò, gradualmente, a estendersi alla masse. Fu solo a partire da tale anno che il termine "italiano" (ad esempio) cessò, anche in queste terre, di essere una mera espressione di appartenenza geografica o culturale e cominciò ad implicare l'appartenenza a una "nazione" italiana. Analogo processo subirono gli altri gruppi nazionali: si vennero pertanto a definire i moderni gruppi nazionali: italiani, sloveni, croati e serbi.
Tra il 1848 e il 1918 l'Impero Austroungarico - in particolar modo dopo la perdita del Veneto a seguito della Terza guerra d'Indipendenza (1866) - favorì l'affermarsi dell'etnia slava per contrastare l'irredentismo (vero o presunto) della popolazione italiana. Nel corso della riunione del consiglio dei ministri del 12 novembre 1866 l'imperatore Francesco Giuseppe delineò compiutamente in tal senso un piano di ampio respiro.



Questi furono gli effetti di tale editto tra il 1866 ed il 1918:
  • espulsioni di massa (oltre 35.000 espulsi dalla sola Venezia Giulia nei soli primi anni del Novecento, fra cui moltissimi provenienti da Trieste. Spiccarono i decreti Hohenlohe, dal nome del governatore di Trieste, appunto principe di Hohenlohe). Molti altri Italiani, sudditi asburgici, furono invece ridotti all'espatrio volontario;
  • deportazione in campi di concentramento (un numero oscillate fra 100.000 e 200.000, a seconda delle stime, di deportati durante la prima guerra mondiale, in particolare dal Trentino Alto Adige e dall'Istria. Famigerati divennero i nomi di lager come Katzenau, Wagna, Tapiosuli, Gollersdorf, Mitterndorf, Mistelbach, Pottendorf, Braunau Am Inn, Beutschbrod, Traunstein, Gmund, Liebnitz);
  • impiego di squadracce di nazionalisti slavi nell'esercizio massivo della violenza contro gli Italiani (con innumerevoli di atti di violenza, attentati, aggressioni, omicidi ecc. Queste azioni incontrarono spesso la sostanziale tolleranza delle autorità o comunque non furono represse con efficacia);
  • repressione poliziesca;
  • immigrazione di slavi e tedeschi nei territori italiani favorita dalle autorità imperiali, per favorire la progressiva "sommersione" degli autoctoni Italiani;
  • germanizzazione e slavizzazione scolastica e culturale (chiusura delle scuole italiane, cancellazione della toponomastica ed onomastiche italiane, proibizione della cultura italiana in ogni sua forma: fu molto grave in particolare la questione scolastica in Dalmazia);
  • privazione o limitazione dei diritti politici (le elezioni in Dalmazia videro pesantissimi brogli a favore dei nazionalisti slavi; comuni retti da Italiani furono sciolti dalle autorità austriache ecc.);
  • limitazione dei diritti civili (scioglimento d'associazioni politiche, culturali, sindacali, persone arrestate o condannate per futili motivi ecc.), formalmente motivato di solito dal pretesto della lotta all'irredentismo;
  • cancellazione degli antichi enclavi italiani in territori "nevralgici", ad esempio vedasi i pogrom anti-italiano di Innsbruck di inizio 1900 contro negozianti e studenti di lingua italiana (Fatti di Innsbruck).

La politica di collaborazione con i serbi locali, inaugurata dallo zaratino Ghiglianovich e dal raguseo Giovanni Avoscani, permise poi agli italiani la conquista dell'amministrazione comunale di Ragusa nel 1899. Nel 1909 la lingua italiana venne vietata però in tutti gli edifici pubblici e gli italiani furono estromessi dalle amministrazioni comunali[31]. Queste ingerenze, insieme ad altre azioni di favoreggiamento al gruppo etnico slavo ritenuto dall'impero più fedele alla corona, esasperarono la situazione andando ad alimentare le correnti più estremiste e rivoluzionarie.
In conseguenza della politica del Partito del Popolo, che conquistò gradualmente il potere, in Dalmazia si verificò una costante diminuzione della popolazione italiana, in un contesto di repressione che assunse anche tratti violenti. Nel 1845 i censimenti austriaci (peraltro approssimativi) registravano quasi il 20% di Italiani in Dalmazia, mentre nel 1910 erano ridotti a circa il 2,7%. Tutto ciò spinse sempre più gli autonomisti a identificare se stessi come italiani, fino ad approdare all'irredentismo.
Dopo la nascita del Regno d'Italia, il sorgere dell'irredentismo italiano portò il governo asburgico, tanto in Dalmazia, quanto in Venezia Giulia, a favorire il nascente nazionalismo di sloveni e croati, nazionalità ritenute più leali e affidabili rispetto agli italiani. Si intendeva così bilanciare non solo il potere delle ben organizzate comunità urbane italiane.



L'irredentismo italiano in Istria e in Dalmazia

L'irredentismo italiano in Istria fu un movimento esistente tra gli istriani di etnia italiana che nell'Ottocento e Novecento promuoveva l'unione dell'Istria al Regno d'Italia. Nella prima metà dell'Ottocento l'Istria era infatti parte dei territori austroungarici, ed il nascente nazionalismo italiano iniziò a manifestarsi, specialmente a Capodistria:
Nel 1861, in occasione della proclamazione del Regno d'Italia, e nel 1866, dopo la terza guerra d'indipendenza, l'Istria non fu annessa all'Italia per svariate ragioni, a causa delle quali molti istriani si organizzarono al fine di ottenere questa unione, abbracciando l'irredentismo italiano. Del resto gli irredentisti volevano l'annessione dell'Istria all'Italia perché la ritenevano terra irredenta in quanto culturalmente parte del retaggio identitario italiano e geograficamente inclusa nei confini naturali dell'Italia fisica. Il più noto fra gli irredentisti istriani fu Nazario Sauro, tenente di vascello della Regia Marina nel primo conflitto mondiale giustiziato dall'Austria-Ungheria: solo nel 1918 l'Istria fu "redenta" (ossia unita alla madre patria). Ad un patriota capodistriano, il generale Vittorio Italico Zupelli, già distintosi nella Guerra italo-turca (1911-1912), fu addirittura affidato il "Ministero della guerra" italiano durante il primo conflitto mondiale.
Analogo movimento fu l'irredentismo italiano in Dalmazia. I primi avvenimenti che coinvolsero i dalmati italiani nel Risorgimento furono i moti rivoluzionari del 1848, durante i quali essi presero parte alla costituzione della Repubblica di San Marco a Venezia. Gli esponenti dalmati più famosi che intervennero furono Niccolò Tommaseo e Federico Seismit-Doda.
Dopo tale fase storica in Dalmazia nacquero due movimenti a carattere nazionalista, quello italiano e quello slavo. Il movimento italiano trovò come guida Antonio Bajamonti, che dal 1860 al 1880 fu podestà di Spalato per il partito autonomista filoitaliano che rappresentava la maggioranza italiana nella città.
Le istanze politiche dei dalmati italiani erano promosse dal Partito Autonomista, fondato nel 1878 e scioltosi nel 1919: membro di spicco ne fu Antonio Bajamonti. Il partito, che originariamente ebbe il favore anche di parte della popolazione slava, sostituì progressivamente ad un programma autonomista per la regione un progetto irredentista per la stessa, considerati l'ostilità dell'autorità austriaca e i dissidi con l'elemento slavo. Il 26 aprile 1909, con provvedimenti legislativi entrati in vigore il 1º gennaio 1912, la lingua italiana perse il proprio status di lingua ufficiale della regione in favore del solo croato (precedentemente entrambe le lingue erano riconosciute): l'italiano non poté più essere usato a livello pubblico e amministrativo, sicché i dalmati italiani furono estromessi dalle amministrazioni comunali.
Allo scoppio della prima guerra mondiale molti dalmati italiani si arruolarono nel Regio Esercito per combattere a fianco dell'Italia: tra questi famoso fu Francesco Rismondo; altri, come Natale Krekich e Ercolano Salvi vennero internati in Austria. Tra gli irredenti oltreconfine che si arruolarono nel Regio Esercito, ci fu anche Antonio Bergamas, volontario di Gradisca d'Isonzo, comune friulano annesso al Regno d'Italia solo dopo la guerra, morto in combattimento senza che il suo corpo fosse stato mai ritrovato. Sua madre, Maria Bergamas, a guerra conclusa scelse la salma di un soldato italiano morto nella prima guerra mondiale, la cui identità resta sconosciuta, a cui fu in seguito data solenne sepoltura all'Altare della Patria al Vittoriano. La sua tomba divenne il sacello del Milite Ignoto, che, ancora oggi, rappresenta tutti i caduti e i dispersi in guerra italiani.



Grande Guerra e annessione all'Italia

Nel 1915 l'Italia entrò nella Grande Guerra a fianco della Triplice Intesa in base ai termini del Patto di Londra, che le assicuravano il possesso dell'intera Venezia Giulia e della Dalmazia settentrionale, incluse molte isole. La città di Fiume, invece, veniva espressamente assegnata quale principale sbocco marittimo di un eventuale futuro stato croato o del Regno d'Ungheria, nel caso in cui la Croazia avesse continuato ad essere un banato dello stato magiaro o della Duplice Monarchia.
Al termine della guerra, il Regio Esercito occupò militarmente tutta la Venezia Giulia e la Dalmazia, secondo i termini dell'armistizio, inclusi i territori assegnatigli dal trattato di Londra. Ciò provocò le reazioni opposte delle diverse etnie, con gli italiani che acclamarono alla "redenzione" delle loro terre e gli slavi che guardavano con ostilità e preoccupazione i nuovi arrivati. La contrapposizione nazionale subì un nuovo e forte inasprimento.
Successivamente, la definizione dei confini fra l'Italia e il nuovo stato jugoslavo fu oggetto di una lunga e aspra contesa diplomatica, che trasformò il contrasto nazionale in una contrapposizione fra Stati sovrani, che coinvolse vasti strati dell'opinione pubblica esasperandone ulteriormente i sentimenti.
Forti tensioni suscitò in particolare la questione di Fiume, che fu rivendicata dall'Italia sulla base dello stesso principio di autodeterminazione che aveva fatto assegnare al regno jugoslavo le terre dalmate, già promesse all'Italia.
La questione dei confini fu infine risolta con i trattati di Saint Germain e di Rapallo. L'Italia ottenne solo parte di ciò che le era stato promesso dal patto segreto di Londra. In base al principio di nazionalità, sostenuto dalla dottrina Wilson, le fu negata la Dalmazia (dove ottenne solo la città di Zara e alcune isole). Per via del mancato rispetto del Patto di Londra, l'epilogo della prima guerra mondiale venne definito "vittoria mutilata".
Col trattato di Rapallo Fiume venne eretta a stato libero, per poi essere annessa all'Italia in seguito al trattato di Roma (1924). In base al trattato di Rapallo 356 000 sudditi dell'Impero austro-ungarico di lingua italiana ottennero la cittadinanza italiana, mentre circa 15 000 di essi rimasero in territori assegnati al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Contemporaneamente si ritrovarono entro i confini del Regno d'Italia 490 000 slavi (di cui circa 170 000 Croati e circa 320 000 Sloveni).



Il biennio rosso e il "fascismo di confine"

Nel biennio 1919-20 l'Europa fu investita da ondate di scioperi e agitazioni di operai che rivendicavano migliori condizioni di lavoro, il cosiddetto biennio rosso. Spesso le fabbriche furono occupate e gestite sul modello dei Soviet, sorti dalla Rivoluzione russa. Contemporaneamente scoppiarono conflitti e scontri di carattere etnico in quei territori soggetti a opposte rivendicazioni nazionali. Nella Stiria meridionale, ad esempio, vi fu l'eccidio di Marburgo, causato da milizie slovene. Conflitti armati scoppiarono in varie regioni dell'Europa orientale, per le definizione dei confini.
Anche l'Italia fu investita da un'ondata di tensioni sociali, con proteste, scioperi e agitazioni, che coinvolsero anche Trieste e la Venezia Giulia, oltre che la vicina Dalmazia (in gran parte sotto occupazione militare italiana). Tali problematiche si sommarono alle preesistenti tensioni nazionali e al diffondersi dell'idea di "vittoria mutilata" e divennero un fertile terreno per l'affermazione del nascente fascismo, che si proponeva come tutore dell'italianità e del mantenimento dell'ordine nazionale della Venezia Giulia, talvolta con il tacito appoggio delle autorità. I contrasti etnici tra italiani e slavi nell'immediato dopoguerra provocarono, fra gli altri, gli incidenti di Spalato, culminati nell'uccisione (il 12 luglio 1920) di due militari della Regia Marina, il comandante della Regia Nave Puglia Tommaso Gulli e il motorista Aldo Rossi. I fascisti, il giorno dopo la morte dei due militari, organizzarono una manifestazione anti-jugoslava a Trieste.
Altri eventi degni di nota furono l'uccisione di un italiano da parte di un cittadino sloveno e l'incendio, da parte dei fascisti, del Narodni dom ("Casa nazionale slovena") di Trieste. Tale incidente assunse a posteriori un forte significato simbolico, venendo ricordato dagli slavi come l'inizio dell'oppressione italiana.



L'italianizzazione fascista

La situazione degli slavi peggiorò con la presa del potere da parte del Partito Nazionale Fascista, nel 1922, quando fu gradualmente introdotta in tutta Italia una politica di assimilazione delle minoranze etniche e nazionali:
gran parte degli impieghi pubblici furono assegnati agli appartenenti al gruppo etnico italiano, che nell'ultimo periodo di dominazione asburgica ne era stato completamente estromesso a vantaggio degli Slavi e dei Tedeschi;
con l'introduzione della Legge n. 2185 del 1 ottobre 1923 (Riforma scolastica Gentile), fu abolito nelle scuole l'insegnamento delle lingue croata e slovena. Nell'arco di cinque anni tutti gli insegnanti croati delle oltre 160 scuole con lingua d'insegnamento croata e tutti gli insegnanti sloveni delle oltre 320 scuole con lingua d'insegnamento slovena furono sostituiti con insegnanti italiani, che imposero agli alunni l'uso esclusivo della lingua italiana;
con il Regio Decreto n. 800 del 29 marzo 1923 furono imposti d'ufficio nomi italiani a tutte le centinaia di località dei territori assegnati all'Italia con il Trattato di Rapallo, anche laddove precedentemente prive di denominazione in lingua italiana, in quanto abitate quasi esclusivamente da croati o sloveni;
in base al Regio Decreto n. 494 del 7 aprile 1926 le autorità italiane italianizzarono i cognomi a decine di migliaia di croati e sloveni. Inoltre, con una legge del 1928 i parroci e gli uffici anagrafici ricevettero il divieto di iscrivere nomi stranieri nei registri delle nascite.
Simili politiche di assimilazione forzata erano all'epoca assai comuni in Europa, venendo applicate, fra gli altri, anche da paesi come la Francia o il Regno Unito, oltre che dalla stessa Jugoslavia soprattutto nei confronti delle proprie minoranze italiane, tedesche, ungheresi e albanesi. Si potrebbe inoltre ricordare la situazione degli ungheresi di Transilvania, dei bulgari di Macedonia, o degli ucraini di Polonia.
La politica di "bonifica etnica" avviata dal fascismo fu tuttavia particolarmente pesante, in quanto l'intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, venne affiancata e coadiuvata dalle misure repressive tipiche di un regime totalitario.
L'azione del governo fascista annullò l'autonomia culturale e linguistica di cui le popolazioni slave avevano goduto durante la dominazione asburgica e esasperò i sentimenti di avversione nei confronti dell'Italia. Le società segrete irredentiste slave, preesistenti allo scoppio della Grande Guerra, si fusero in gruppi più grandi a carattere eversivo, come la Borba e il TIGR, che si resero responsabili di numerosi attacchi a militari, civili e infrastrutture italiane. Alcuni elementi di queste società segrete furono catturati dalla polizia italiana e condannati a morte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato per le uccisioni di cui si erano resi responsabili (1 terrorista condannato e fucilato a Pola nel 1929, con 4 complici condannati a 25 anni di carcere ciascuno; 4 terroristi condannati e giustiziati a Trieste, con 12 complici condannati a pene detentive per complessivi 147 anni e 6 mesi - cosiddetto "1° processo di Trieste" - nel 1930; 9 terroristi condannati a morte per terrorismo e spionaggio in periodo bellico di cui 5 giustiziati, con 51 complici condannati, complessivamente, a 666 anni e 6 mesi di carcere - cosiddetto "2° processo di Trieste" - nel 1941, a guerra iniziata).

L'invasione della Jugoslavia

Nell'aprile del 1941 l'Italia partecipò all'attacco dell'Asse contro la Jugoslavia, la quale, dopo la resa dell'esercito, avvenuta il giorno 17, e l'inizio della politica di occupazione, fu smembrata e parte dei suoi territori furono annessi agli stati invasori.
A seguito del trattato di Roma l'Italia annesse parte della Slovenia, parte della Banovina di Croazia nord-occidentale (che venne accorpata alla Provincia di Fiume), parte della Dalmazia e le Bocche di Cattaro (che andarono a costituire il Governatorato di Dalmazia), divenendo militarmente responsabile della zona che comprendeva la fascia costiera, e il relativo entroterra, della ex-Jugoslavia.
In Slovenia fu costituita la Provincia di Lubiana, dove, a fini politici e in contrapposizione con i tedeschi, si progettò, senza successo, di instaurare un'amministrazione rispettosa delle peculiarità locali. Nella Provincia di Fiume e nel Governatorato di Dalmazia fu invece instaurata fin dall'inizio una politica di italianizzazione forzata, che incontrò una decisa resistenza da parte della popolazione a maggioranza croata.
La Croazia fu dichiarata indipendente con il nome di Stato Indipendente di Croazia, il cui governo fu affidato al partito ultranazionalista degli ustascia, con a capo Ante Pavelić.
La resa dell'esercito jugoslavo non fermò i combattimenti e in tutto il paese crebbe un'intensa attività di resistenza che proseguì fino al termine della guerra e che vide da un lato la contrapposizione tra eserciti invasori e collaborazionisti e dall'altro la lotta fra le diverse fazioni etniche e politiche.
Durante tutta la durata del conflitto vennero perpetrati, da tutte le parti in causa, numerosi crimini di guerra. Nel corso della guerra in particolare si ebbero circa mezzo milione di serbi vittime di violenze da parte degli estremisti croati e 100.000 croati vittime delle violenze serbe.
Nella Provincia di Lubiana, fallito il tentativo di instaurare un regime di occupazione morbido, emerse presto un movimento resistenziale: la conseguente repressione italiana fu dura e in molti casi furono commessi crimini di guerra con devastazioni di villaggi e ritorsioni contro la popolazione civile. Le sanguinose rappresaglie attuate dal Regio Esercito italiano, per reprimere le azioni di guerriglia partigiana, aumentarono il risentimento della popolazione slava nei confronti degli italiani.
A scopo repressivo, numerosi civili sloveni furono deportati nei campi di concentramento di Arbe e di Gonars.
Nei territori annessi, accorpati alla Provincia di Fiume e al Governatorato della Dalmazia, fu avviata una politica di italianizzazione forzata del territorio e della popolazione. In tutto il Quarnero e la Dalmazia, sia italiana che croata, si innescò dalla fine del 1941 una crudele guerriglia, contrastata da una repressione che raggiunse livelli di massacro dopo l'estate del 1942.
Il 12 luglio 1942, nel villaggio di Podhum, per rappresaglia furono fucilati da reparti militari italiani, su ordine del Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, tutti gli uomini del villaggio di età compresa tra i 16 e i 64 anni. Sul monumento che oggi sorge nei pressi del villaggio sono indicati i nomi delle 91 vittime dell'eccidio. Il resto della popolazione fu deportata nei campi di internamento italiani e le abitazioni furono incendiate.
Nello Stato Indipendente di Croazia, il regime ustascia scatenò una feroce pulizia etnica nei confronti dei serbi, nonché di zingari ed ebrei, simboleggiata dall'istituzione del campo di concentramento di Jasenovac, e contro il regime e gli occupanti presero le armi i partigiani di Tito, plurietnici e comunisti, e i cetnici, nazionalisti monarchici a prevalenza serba, i quali perpetrarono a loro volta crimini contro la popolazione civile croata che appoggiava il regime ustascia e si combatterono reciprocamente. A causa dell'annessione della Dalmazia costiera al Regno d'Italia, cominciarono inoltre a crescere le tensioni tra il regime ustascia e le forze d'occupazione italiane; venne perciò a formarsi, a partire dal 1942, un'alleanza tattica tra le forze italiane e i vari gruppi cetnici: gli italiani incorporarono i cetnici nella Milizia volontaria anticomunista (MVAC) per combattere la resistenza titoista.
Dopo la guerra la Jugoslavia chiese di giudicare i presunti responsabili di questi massacri (come il generale Mario Roatta), ma l'Italia negò la loro estradizione grazie ad alcune amnistie.

Gli eccidi contro la popolazione italiana

1943: armistizio e prime esecuzioni

L'8 settembre 1943, con l'armistizio tra Italia e Alleati, si verificò il collasso del Regio Esercito.
Fin dal 9 settembre le truppe tedesche assunsero il controllo di Trieste e successivamente di Pola e di Fiume, lasciando momentaneamente sguarnito il resto della Venezia Giulia. I partigiani occuparono quindi buona parte della regione, mantenendo le proprie posizioni per circa un mese. Il 13 settembre 1943, a Pisino venne proclamata unilateralmente l'annessione dell'Istria alla Croazia, da parte del Consiglio di liberazione popolare per l'Istria. Il 29 settembre 1943 venne istituito il Comitato esecutivo provvisorio di liberazione dell'Istria.
Improvvisati tribunali, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione, emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s'intendeva creare. A Rovigno il Comitato rivoluzionario compilò una lista contenente i nomi dei fascisti, nella quale tuttavia apparivano anche persone estranee al partito e che non ricoprivano cariche nello Stato italiano. Vennero tutti arrestati e condotti a Pisino. In tale località furono condannati e giustiziati assieme ad altre persone di etnia italiana e croata.
La maggioranza dei condannati fu gettata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita. Secondo le stime più attendibili, le vittime del 1943 nella Venezia Giulia si aggirano sulle 600-700 persone.
Alcune delle uccisioni sono rimaste impresse nella memoria comune dei cittadini per la loro efferatezza: tra queste vi sono quelle di Norma Cossetto (cui è stata riconosciuta la medaglia d'oro al valor civile), di don Angelo Tarticchio e delle tre sorelle Radecchi.

I ritrovamenti dell'autunno 1943

Le prime ispezioni delle foibe istriane, che furono disposte immediatamente dopo il ripiegamento dei partigiani conseguente alla successiva invasione nazista, consentirono il rinvenimento di centinaia di corpi.
Il compito di ispezionare le foibe fu affidato al maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich di Pola, che condusse le indagini da ottobre a dicembre del 1943 in Istria, in particolare nella Foiba di Vines.
La propaganda fascista diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione. Fu allora che il termine "foibe" cominciò ad essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo (anche quando compiuti in maniera diversa). Paradossalmente, l'enfasi data ai ritrovamenti da parte della Repubblica di Salò alimentò da un lato il clima di terrore che favorì il successivo esodo, dall'altro la reazione negazionista con cui le sinistre respinsero per molto tempo la fondatezza di un crimine denunciato per la prima volta dal nemico fascista.

L'armistizio in Dalmazia

Il 10 settembre, mentre Zara veniva presidiata dai tedeschi, a Spalato e in altri centri dalmati entravano i partigiani jugoslavi. Vi rimasero sino al 26 settembre, sostenendo una battaglia difensiva per impedire la presa della città da parte dei tedeschi. Mentre si svolgevano quei 16 giorni di lotta, fra Spalato e Traù i partigiani soppressero 134 italiani, compresi agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, guardie carcerarie e alcuni civili.
La Dalmazia fu occupata militarmente dalla 7. SS-Gebirgsdivision "Prinz Eugen" tedesca. Gli italiani, con la 77ª Divisione fanteria "Bergamo" di stanza a Spalato e precedentemente impegnata per anni proprio nella lotta antipartigiana, in quel frangente appoggiarono in massima parte i partigiani e combatterono in condizioni psicologiche e materiali molto difficili contro le truppe germaniche, fra le quali la sopra citata Divisione "Prinz Eugen", nonostante l'atteggiamento aggressivo e poco collaborativo dei partigiani titini. Dopo la capitolazione ordinata dal comandante, generale Becuzzi, molti ufficiali italiani furono passati per le armi da parte di elementi delle truppe germaniche, in quello che è noto come il massacro di Treglia. La Dalmazia fu annessa allo Stato Indipendente di Croazia. Tuttavia Zara, restò - seppur sotto il controllo tedesco - sotto la sovranità della RSI, fino alla occupazione jugoslava dell'ottobre 1944.

L'occupazione tedesca della Venezia Giulia e l'Ozak

A seguito dell'armistizio di Cassibile i tedeschi lanciarono l'Operazione Nubifragio, con l'obiettivo di assumere il controllo della Venezia Giulia, della provincia di Lubiana e dell'Istria.
L'offensiva ebbe inizio nella notte del 2 ottobre 1943 e portò all'annientamento della resistenza opposta da parte di nuclei partigiani, che furono decimati, catturati, costretti alla fuga o dispersi. I partigiani cercarono di ostacolare i tedeschi con imboscate, colpi di mano e agguati: questi reagirono colpendo la popolazione civile, anche di etnia italiana, con fucilazioni indiscriminate, violenze, incendi di villaggi e saccheggi.
Uno dei momenti più significativi sul territorio italiano fu la battaglia di Gorizia combattuta fra i giorni 11 e 26 settembre 1943 tra l'esercito tedesco e la Brigata Proletaria, un raggruppamento partigiano forte di circa 1500 uomini, costituito in massima parte da operai dei Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone e rafforzato da un consistente gruppo di partigiani sloveni.
L'Operazione Nubifragio si concluse il 9 ottobre con la conquista di Rovigno.
Le truppe germaniche costituirono nell'area occupata la Zona d'operazioni del Litorale adriatico o OZAK (acronimo di Operationszone Adriatisches Küstenland). Questa, pur essendo ufficialmente parte della Repubblica Sociale Italiana era sottoposta all'amministrazione militare tedesca e di fatto, annessa al Terzo Reich.
Dal settembre 1943 all'aprile 1945 si susseguirono le repressioni nazifasciste che portarono la provincia di Gorizia a essere la prima in Italia per numero di morti nei campi di sterminio nazisti.

Autunno 1944: ritiro dei tedeschi dalla Dalmazia

Ulteriori eccidi si ebbero nel corso dell'occupazione delle città dalmate in cui risiedevano comunità italiane.
Terribile fu la sorte di Zara, ridotta in rovine dai bombardamenti aerei anglo-americani, che causarono la morte di alcune migliaia di civili (da 2.000 a 4.000) e contribuirono alla fuga di quasi il 75% dei suoi abitanti. Alla fine dell'ottobre 1944 anche l'esercito tedesco e la maggior parte dell'amministrazione civile italiana abbandonarono la città.
Zara fu occupata dagli Jugoslavi il 1º novembre 1944: si stima che il totale delle persone soppresse dai partigiani in pochi mesi sia di circa 180. Fra gli altri furono uccisi i fratelli Nicolò e Pietro Luxardo (industriali, produttori del celebre liquore maraschino): secondo alcune testimonianze Nicolò fu annegato in mare. Quella dell'annegamento in mare legati a macigni è una pratica di cui sono state date varie testimonianze, tanto da divenire nell'immaginario popolare la "tipica" modalità di esecuzione delle vittime zaratine, similmente alle foibe in Venezia Giulia.

Primavera 1945: l'occupazione della Venezia Giulia

Nella primavera del 1945 gli jugoslavi crearono una nuova Armata – la IV, al comando del giovane generale Petar Drapšin – con il compito di puntare verso Fiume, l'Istria e Trieste. L'ordine era di occupare la Venezia Giulia nel più breve tempo possibile, anticipando quindi gli alleati anglosassoni in quella che venne in seguito chiamata corsa per Trieste. Tale obiettivo divenne primario per l'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia: il 20 aprile 1945 la IV Armata jugoslava entrò nella Venezia Giulia e, assieme alle unità del IX Korpus sloveno, ivi già operanti dal dicembre 1943, tra il 30 aprile e il 1º maggio dilagò nel Carso e nell'Istria, occupando Trieste e Gorizia (1º maggio), Fiume (3 maggio) e Pola (5 maggio), all'incirca una settimana prima della stessa liberazione di Lubiana e Zagabria. Ciò corrispondeva alla volontà di Tito di creare il "fatto compiuto" sul terreno, determinante ai fini delle future trattative sulla delimitazione dei confini fra Italia e Jugoslavia, invadendo l'Italia nord-orientale fino al fiume Tagliamento, mentre la sovranità sulle capitali di Slovenia e Croazia non era in discussione. Allo stesso modo, gli jugoslavi entrarono in forze nella Carinzia austriaca, già oggetto di rivendicazioni al termine della Prima guerra mondiale.
Il nuovo regime si mosse nella Venezia Giulia in due direzioni. Le autorità militari avevano il mandato di ristabilire la legittimità della nuova situazione creatasi con operazioni militari di occupazione. L'OZNA, la polizia segreta jugoslava, invece, operava nella più totale autonomia.
Dopo la liberazione dall'occupazione tedesca, a partire dal maggio del 1945, nelle province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume il potere venne assunto dalle forze partigiane jugoslave; tale periodo fu funestato da arresti, sparizioni e uccisioni di centinaia di persone, alcune delle quali gettate nelle foibe ancora vive. A Gorizia, Trieste e Pola le violenze cessarono solamente dopo la sostituzione della amministrazione jugoslava con quella degli alleati, che avvenne il 12 giugno 1945 a Gorizia e Trieste, e il 20 giugno a Pola; a Fiume, invece, gli alleati non giunsero mai e le persecuzioni continuarono.

Eccidi a Trieste e in Istria

I baratri venivano usati per l'occultamento di cadaveri con tre scopi: eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano (o avrebbero potuto opporsi) alle politiche del Partito Comunista di Jugoslavia di Tito.
Di nuovo si verificarono uccisioni efferate, come quella dei democristiani Carlo Dell'Antonio e Romano Meneghello e di don Francesco Bonifacio, torturato e quindi assassinato (il suo corpo non è mai stato ritrovato); ritenuto martire in odium fidei dalla Chiesa, è stato beatificato nel 2008.
Tra gli altri politici di riferimento del CLN, si segnalano i casi di Augusto Bergera e Luigi Podestà - che restano due anni in campo di concentramento jugoslavo - e quelli del socialista Carlo Schiffrer e dell'azionista Michele Miani, che miracolosamente riescono ad aver salva la vita.
Gli scritti dell'allora sindaco di Trieste, Gianni Bartoli, nonché alcuni documenti inglesi riportano che "molte migliaia di persone sono state gettate nelle foibe locali" riferendosi alla sola città di Trieste e alle zone limitrofe, non includendo dunque il resto della Venezia Giulia, dell'Istria (dove si è registrata la maggioranza dei casi), del Quarnaro e della Dalmazia. In possesso di queste informazioni il Governo De Gasperi, nel maggio 1945, chiese ragione a Tito di 2.500 morti e 7.500 scomparsi nella Venezia Giulia. Tito confermò l'esistenza delle foibe come occultamento di cadaveri e i governi jugoslavi successivi mai smentirono tali affermazioni.
Un controverso studio svolto dalla giornalista Claudia Cernigoi stima nel numero di 517 le vittime triestine, delle quali 412 sarebbero appartenute a formazioni militari, paramilitari o di polizia, poste al servizio delle autorità germaniche dell'OZAK (tra cui la Milizia Difesa Territoriale, l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, formazioni della X^ MAS, Brigate Nere, formazioni squadriste), e sostiene che una consistente parte di esse (almeno 79) non sarebbero state infoibate ma sarebbero decedute a Borovnica o in altri campi di prigionia militari jugoslavi.

Eccidi a Gorizia e provincia

Con l'arrivo dell'Armata Popolare Jugoslava, anche a Gorizia iniziarono le repressioni che toccarono l'apice fra il 2 e il 20 maggio. Migliaia furono gli arresti e gli scomparsi non solo tra gli italiani, ma anche tra gli sloveni che si opponevano al regime comunista di Tito.
Fra le vittime si ricordano alcuni esponenti politici locali di riferimento del CLN: Licurgo Olivi del Partito Socialista Italiano e Augusto Sverzutti del Partito d'Azione, riguardo al quale non si sa ancora la data dell'uccisione e se il suo cadavere sia stato infoibato.
Le autorità slovene, a marzo del 2006, hanno consegnato al sindaco di Gorizia un elenco di 1.048 deportati dalla provincia di Gorizia, dei quali circa 900 non hanno fatto più ritorno; di questi, circa 470 appartenevano a forze di ordine pubblico e formazioni militari italiane postesi al servizio degli occupatori tedeschi, circa 250 erano civili giuliani, 70 erano civili originari di altre province italiane e circa 110 erano sloveni collaborazionisti o presunti tali. Secondo il presidente dell'Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota, questa lista sarebbe ancora grandemente incompleta.

Eccidi a Fiume

Fiume fu occupata il 3 maggio dagli jugoslavi, che avviarono in breve tempo un'intensa campagna di epurazione. Gli agenti dell'OZNA deportarono 65 guardie di pubblica sicurezza e agenti della questura, 34 guardie di finanza e una decina di carabinieri; alcuni esponenti compromessi con il regime fascista furono invece uccisi sul posto.
Tra gli esponenti più in vista del PNF furono uccisi i senatori fiumani Icilio Bacci e Riccardo Gigante (podestà di Fiume dal 1930 al 1934), che non si erano macchiati di alcun crimine. Nell'ambito della caccia agli esponenti politici italiani vennero uccisi, fra gli altri, gli ex podestà Carlo Colussi (in carica dal 1934 al 1938, venne eliminato con la moglie Nerina Copetti) e Gino Sirola (podestà dal 1943 al 1945). In anni recenti, vicino alla località di Castua, è stata individuata la fossa dove riposano i resti di Gigante, ma il loro recupero risulta complesso.
Particolarmente violenta fu anche la caccia ai superstiti del Partito Autonomista Fiumano, concepito come un potenziale ostacolo all'annessione della città alla Jugoslavia. Il quotidiano comunista La Voce del Popolo scatenò una campagna di denuncia contro gli autonomisti, che vennero equiparati ai fascisti. I partigiani, nelle prime ore di occupazione della città, uccisero i vecchi capi del partito, fra i quali Mario Blasich, Giuseppe Sincich, Nevio Skull, Giovanni Baucer, Mario De Hajnal e Giovanni Rubinich, che fu fondatore del Movimento Autonomista Liburnico.
La persecuzione colpì anche gli esponenti dei CLN, secondo una linea ampiamente usata anche a Trieste e Gorizia. Numerosi furono nelle tre città gli arresti e le deportazioni di antifascisti, dei quali solo alcuni faranno ritorno dai campi di concentramento dopo lunghi periodi di detenzione. Ancora nel 1946, assai dopo le esplosioni di "jacquerie", risulteranno comminate condanne capitali contro reclusi accusati di aver fatto parte dei CLN.
Il numero di italiani sicuramente uccisi dall'entrata nella città di Fiume delle truppe jugoslave (3 maggio 1945) fino al 31 dicembre 1947 è di 652, a cui va aggiunto un ulteriore numero di vittime non esattamente identificabile per mancanza di riscontri certi.

L'esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia

Al massacro delle foibe seguì l'esodo giuliano dalmata, ovvero l'emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana in Istria e nel Quarnaro, dove si svuotarono dai propri abitanti interi villaggi e cittadine. Nell'esilio furono coinvolti tutti i territori ceduti dall'Italia alla Jugoslavia con il trattato di Parigi e anche la Dalmazia, dove vivevano i dalmati italiani.
Con la firma del trattato l'esodo s'intensificò ulteriormente. Da Pola, così come da alcuni centri urbani istriani (Capodistria, Parenzo, Orsera, ecc.) partì oltre il 90% della popolazione etnicamente italiana, da altri (Buie, Umago e Rovigno) si desumono percentuali inferiori ma sempre molto elevate. Si stima che l'esodo giuliano-dalmata abbia interessato un numero compreso tra i 250 000 e i 350 000 italiani. I massacri delle foibe e l'esodo giuliano-dalmata sono ricordati dal Giorno del ricordo, solennità civile nazionale italiana celebrata il 10 febbraio di ogni anno.
L'ultima fase migratoria ebbe luogo dopo il 1954 allorché il Memorandum di Londra assegnò definitivamente la zona A del Territorio Libero di Trieste all'Italia, e la zona B alla Jugoslavia. L'esodo si concluse solamente intorno al 1960. Dal censimento jugoslavo del 1971 in Istria e nel Quarnaro erano rimasti 17.516 italiani su un totale di 432.136 abitanti.

La questione triestina

Nella parte finale della seconda guerra mondiale e durante il successivo dopoguerra ci fu la contesa sui territori della Venezia Giulia tra Italia e Jugoslavia, che è chiamata "questione giuliana" o "questione triestina". Trieste era stata occupata dalle truppe del Regno d'Italia il 3 novembre del 1918, al termine della prima guerra mondiale, e poi ufficialmente annessa all'Italia con la ratifica del Trattato di Rapallo del 1920: al termine della seconda, con l'Italia sconfitta, ci furono infatti le occupazioni militari tedesca e poi jugoslava.
L'occupazione jugoslava fu ottenuta grazie alla cosiddetta "corsa per Trieste", ovvero all'avanzata verso la città giuliana compiuta in maniera concorrenziale nella primavera del 1945 da parte della quarta armata jugoslava e dell'ottava armata britannica.
Il 10 febbraio del 1947 fu firmato il trattato di pace dell'Italia, che istituì il Territorio Libero di Trieste, costituito dal litorale triestino e dalla parte nordoccidentale dell'Istria, provvisoriamente diviso da un confine passante a sud della cittadina di Muggia ed amministrato dal Governo Militare Alleato (zona A) e dall'esercito jugoslavo (zona B), in attesa della creazione degli organi costituzionali del nuovo stato.
Nella regione la situazione si fece incandescente e numerosi furono i disordini e le proteste italiane: in occasione della firma del trattato di pace, la maestra Maria Pasquinelli uccise a Pola il generale inglese Robin De Winton, comandante delle truppe britanniche. All'entrata in vigore del trattato (15 settembre 1947) corse addirittura voce che le truppe jugoslave della zona B avrebbero occupato Trieste. Negli anni successivi la diplomazia italiana cercò di ridiscutere gli accordi di Parigi per chiarire le sorti di Trieste, senza successo.
La situazione si chiarì solo il 5 ottobre 1954 quando col Memorandum di Londra la Zona "A" del TLT passò all'amministrazione civile del governo italiano, mentre l'amministrazione del governo militare jugoslavo sulla Zona "B" passò al governo della Repubblica socialista. Gli accordi prevedevano inoltre alcune rettifiche territoriali a favore della Jugoslavia fra cui il centro abitato di Albaro Vescovà / Škofije con alcune aree appartenenti al Comune di Muggia (pari a una decina di km²). Il trattato fu un passo molto gradito alla NATO, che valutava particolarmente importante la stabilità internazionale della Jugoslavia.

Cause

La qualificazione delle concause e dei fattori che possono essere alla base dei massacri delle foibe è un'operazione senza dubbio complessa. Dall'esame dei fatti storici emergono una serie di elementi antecedenti non trascurabili, quali:
  • la contrapposizione nazionale ed etnica fra sloveni e croati da una parte e italiani dall'altra, causata dall'imporsi del concetto di nazionalità e Stato nazionale nell'area;
  • gli opposti irredentismi, per cui i territori mistilingui della Dalmazia, della Venezia Giulia e del Quarnaro dovevano appartenere, in esclusiva, all'uno o all'altro ambito nazionale, e quindi all'uno o all'altro Stato;
  • le conseguenze della prima guerra mondiale, con un'intensa battaglia diplomatica per la definizione dei confini fra il Regno d'Italia e il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni con conseguenti tensioni etniche, che portarono a disordini locali e compressioni delle rispettive minoranze fin dal primo dopoguerra;
  • il tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia durante il ventennio fascista;
  • l'occupazione militare italiana, durante la seconda guerra mondiale, di diverse zone della Jugoslavia durante le quali si verificarono anche crimini di guerra contro la popolazione civile;
  • la guerra nel teatro jugoslavo-balcanico, che fu uno dei fronti più complessi e violenti (ad esempio l'operato degli ustascia croati);
  • la convinzione dei partigiani jugoslavi per la quale sarebbero stati legittimati ad annettere al futuro Stato jugoslavo quella parte della Venezia Giulia e del Friuli (Litorale sloveno e Istria), abitata prevalentemente o quasi esclusivamente da croati e sloveni;
  • la convinzione, diffusa fra i partigiani jugoslavi, che la guerra di liberazione jugoslava non avesse solo un carattere "nazionale", ma anche "sociale", con la popolazione italiana percepita anche come "classe dominante" contro cui lottare;
  • la natura totalitaria e repressiva del costituendo regime comunista jugoslavo.

La spirale di violenza si innescò immediatamente dopo la caduta del regime, favorita dalle tensioni politiche e sociali presenti sul territorio, che contribuirono al compimento di azioni di natura giustizialista nei confronti dei sostenitori del precedente regime e che furono successivamente indirizzate da alcuni nuclei di potere, formatisi in seno al movimento di resistenza, all'eliminazione di potenziali avversari politici, additati come nemici del popolo. In questa analisi non vanno trascurate anche le azioni criminali di semplici delinquenti, che approfittarono della confusione e della temporanea assenza di forze di polizia, preposte al mantenimento dell'ordine pubblico, per compiere azioni criminali e azioni di violenza gratuita.

Ciò premesso, il fenomeno delle foibe può essere considerato come un evento derivante da un disegno politico annessionista, il cui duplice obiettivo era:
  • l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia: si volevano pertanto neutralizzare quelli (essenzialmente italiani) che si opponevano all'annessione di queste terre alla Jugoslavia;
  • l'avvento di un governo comunista jugoslavo in quelle terre: si volevano pertanto neutralizzare reali o potenziali oppositori del costituendo regime comunista.

Pertanto gli eccidi "si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto" di una "violenza di stato", attuata con la repressione politica e l'intimidazione, in vista dell'annessione alla Jugoslavia di tutta la Venezia Giulia (incluse Trieste e Gorizia) e per eliminare gli oppositori (reali o presunti) del costituendo regime comunista. In vista di questi due obiettivi era infatti necessario reprimere le classi dirigenti italiane (compresi antifascisti e resistenti), per eliminare ogni forma di resistenza organizzata. Questo aspetto era particolarmente importante a Gorizia e Trieste, della cui annessione gli Jugoslavi non erano certi. Tito, pertanto, fece il possibile per occupare le due città prima di ogni altra forza alleata, per assicurarsi una posizione di forza nelle trattative. Durante l'occupazione di Gorizia e di Trieste diverse migliaia di italiani furono arrestati, uccisi o deportati nei lager jugoslavi (soprattutto nel campo di lavoro e detenzione di Borovnica e nel carcere dell'OZNA di Lubiana). Neutralizzando i vertici dirigenziali ed eliminando o intimorendo i cittadini italiani, tentò di far credere che gli jugoslavi fossero la maggioranza assoluta della popolazione: la composizione etnica sarebbe stata, infatti, un fattore decisivo nelle conferenze del dopoguerra e per questo motivo la riduzione della popolazione italiana risultava essenziale.
Lo sfruttamento del clima giustizialista per eliminare, oltre ai sostenitori del regime fascista, anche potenziali oppositori politici, accomuna, secondo lo storico Boris Gombač, i massacri delle foibe alle violenze perpetrate nello stesso periodo da gruppi radicali comunisti nel cosiddetto triangolo della morte in Emilia, dove, tra le migliaia di vittime della violenza insurrezionale, vi furono anche circa 400 tra proprietari terrieri, industriali, professionisti, preti e altri appartenenti alla borghesia, solo perché dichiaratisi anticomunisti.
Il Governo italiano, nel 2007, rispondendo a un'interrogazione parlamentare del deputato Cardano, ha precisato che, godendo già la Relazione della Commissione bilaterale dello status di ufficialità ed essendo passati ormai ben 7 anni dalla sua prima pubblicazione sulla stampa e dal riconoscimento ufficiale del Governo sloveno, non riteneva necessario pubblicarla in quanto essa godeva già dello status di ufficialità e, confermando la sua veridicità, ne ha auspicato la diffusione nel mondo della cultura e della scuola.
Per quanto riguarda il supposto aspetto "vendicativo", essendo i fascisti e i loro fiancheggiatori in gran parte italiani (sia pure non in numero superiore rispetto ad altre regioni italiane), e opponendosi essenzialmente gli italiani all'annessione alla Jugoslavia, soprattutto a livello locale fu frequentemente sostenuta l'equiparazione degli italiani ai fascisti. Questo aspetto provocò, localmente, episodi di jacquerie (insurrezioni spontanee dei ceti popolari), in cui molti colsero anche l'opportunità di portare avanti vendette personali o compiere rapine eliminando i testimoni. Gli episodi di jacquerie si verificarono prevalentemente nel corso degli eccidi del settembre e ottobre del 1943, avvenuti in un contesto in cui vennero a mancare i poteri costituiti. Tale jacquerie si rivolse non solo verso i rappresentanti del regime fascista, ma anche verso gli italiani in quanto tali.

Vittime

Tipologia delle vittime

Tra i caduti figurano non solo personalità legate al Partito Nazionale Fascista, ma anche ufficiali, funzionari e dipendenti pubblici, insegnanti, impiegati bancari, sacerdoti, parte dell'alta dirigenza italiana contraria sia al comunismo, sia al fascismo, tra cui compaiono esponenti di organizzazioni partigiane o anti-fasciste, autonomisti fiumani seguaci di Riccardo Zanella, collaboratori e nazionalisti radicali e semplici cittadini.
In paralleli eccidi furono coinvolti anche cittadini italiani o ex italiani di nazionalità slovena e croata. Tali uccisioni ebbero una matrice esclusivamente politica, rimanendo esclusa quella etnica, intendendo il costituendo regime comunista, « oltre a fare i conti con il fascismo, eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali... ». Questi episodi, pertanto, nel dibattito italiano non sono di solito considerati parte degli eccidi delle foibe, termine che si riferisce alle sole vittime di nazionalità italiana.

Quantificazione delle vittime

Una quantificazione precisa delle vittime è impossibile a causa di una generale mancanza di documenti. Il Governo jugoslavo (e successivamente quello croato) non ha mai accettato di partecipare a inchieste per determinare il numero di decessi. Negli ultimi anni ha invece dimostrato una volontà di partecipazione, per far luce sulla vicenda, il Governo della Repubblica di Slovenia, consegnando nel 2005 al sindaco di Gorizia l'elenco dei goriziani arrestati da parte delle autorità jugoslave, redatto in base alle informazioni in suo possesso. Alcuni commentatori ritengono inoltre che una parte della documentazione sia tuttora secretata negli archivi, in particolare dell'ex Partito comunista italiano. Gli studi effettuati recentemente valutano il numero totale delle vittime (comprensive quindi di quelle morte durante la prigionia o la deportazione) come compreso tra poco meno di 5 000 e 11.000.
Nel dopoguerra e nei decenni immediatamente successivi le vittime venivano usualmente indicate in 15.000, anche se all'epoca tali valutazioni non erano basate su stime scientifiche e talvolta vennero aumentate fino a 20.000. Calcoli volumetrici eseguiti tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage della Foiba di Basovizza hanno ipotizzato la presenza di oltre duemila vittime. Tuttavia, questa stima è ritenuta totalmente speculativa, infatti le stime si basano solamente su calcoli volumetrici fatti sulle dimensioni della Foiba di Basovizza, mentre le ricerche condotte non hanno confutato questa ipotesi; nel 1945 durante l'ispezione della foiba sono stati trovati detriti, carcasse di animali e alcuni resti di uniformi tedesche assieme ad alcuni corpi; mentre nel 1953 una compagnia che commerciava ferro fu autorizzata a recuperare le rimanenze di metallo nella foiba, dichiarando, alla fine dei lavori, di aver scavato fino in fondo senza incontrare resti umani.
Studi rigorosi sono stati effettuati solo a partire dagli anni novanta. Le salme di "infoibati" effettivamente rinvenute finora sono circa un migliaio. Nell'uso comune, comunque, anche gli uccisi in altre circostanze legate all'avanzata delle forze jugoslave lungo il confine orientale italiano vengono considerati vittime "delle foibe".

Modalità delle esecuzioni

Nelle foibe sono stati gettati cadaveri sia di militari sia di civili. In alcuni casi, com'è stato possibile documentare, furono infoibate persone non colpite o solo ferite.
Sebbene quest'ultima modalità di esecuzione fosse, come già detto, solo uno dei modi con cui vennero uccise le vittime dei partigiani di Tito, nella cultura popolare divenne il metodo di esecuzione per eccellenza e simbolo del massacro.
In realtà la maggior parte delle vittime, considerate come "infoibate", vennero uccise o morirono di stenti o malattia nei campi di concentramento jugoslavi.

Testimonianze

Furono poche le persone che riuscirono a salvarsi risalendo dalle foibe, tra questi Graziano Udovisi, Giovanni Radeticchio e Vittorio Corsi hanno raccontato la loro tragica esperienza a emittenti televisive e storici:
Questa testimonianza, della primavera del 1945, fu pubblicata il 26 gennaio 1946 sul periodico della Democrazia Cristiana triestina La Prora e poi riportata integralmente e anonimamente nell'opuscolo Foibe, la tragedia dell'Istria, edito dal CLN dell'Istria. A partire dall'inserimento della testimonianza in un libro di Giuseppe Bedeschi nel 1987, questa è stata poi varie volte ripresa dalla pubblicistica.
Anche le testimonianze degli scampati dalle foibe hanno causato delle polemiche politico-storiografiche: Pol Vice (pseudonimo di Paolo Consolaro), saggista di ispirazione marxista ed esponente di Rifondazione Comunista, ha sottoposto i testi a una serrata critica, giungendo ad affermare che siamo in presenza di falsi testimoni. Il libro di Pol Vice è stato presentato dall'editrice Alessandra Kersevan come parte di un progetto più ampio comprendente anche dei similari testi di forte critica di Claudia Cernigoi e Daniela Antoni. La Kersevan, varie volte presentata dalla stampa come "negazionista", ritiene che sulle foibe stia «funzionando una propaganda forsennata (...) che ha come scopo preciso quello della rivalutazione del fascismo»: «un vero e proprio progetto mediatico di falsificazione della storia (...) costruito ed imposto all'opinione pubblica (...) dall'immediato dopoguerra ad oggi da forze politiche sociali ed economiche tuttora dominanti nel nostro Paese», anche grazie a «storici compiacenti» come Pupo e Spazzali, con la Democrazia Cristiana in testa nell'appoggio politico ai «neo irredentisti ex fascisti».

Storiografia sui massacri delle foibe

Le tesi militanti

Nell'immediato dopoguerra le stragi delle foibe hanno avuto un profondo impatto sull'opinione pubblica italiana. Da qui nacque l'esigenza di interpretare l'accaduto, esigenza che fu giocoforza influenzata dal pesante clima politico dell'epoca. Per questo presero piede due versioni, contrastanti e contrapposte, l'una espressione del "sentire" jugoslavo e comunista, l'altra anticomunista, antijugoslava e rappresentante il sentimento italiano relativo a tali vicende. Negli anni cinquanta, a causa delle tensioni dovute alla questione triestina, tali versioni si consolidarono presso le forze politiche e la pubblica opinione, fino a diventare una sorta di "verità acquisita". Sono queste le tesi "militanti", ossia finalizzate a mettere polemicamente in crisi l'avversario politico.
Tali tesi hanno conservato a lungo una grande influenza sull'opinione pubblica, dovuta assai più alle loro implicazioni politiche, che non alla loro correttezza storica. Malgrado la loro infondatezza sia ormai stata dimostrata, hanno mantenuto una forte diffusione fino ai giorni nostri, in quanto «si prestano ad un uso politico che non è mai venuto a meno, mentre le semplificazioni, spesso assai grevi, di cui sono intessute, ne favoriscono l'utilizzo da parte dei mezzi di comunicazione ».

La tesi negazioniste

Le prime tesi sono quelle negazioniste, volte a negare un qualsivoglia eccidio da parte Jugoslava, che la ricerca storica ha più tardi dimostrato essere «del tutto prive di senso». Ipotesi di questo tipo sono state dominanti nella storiografia della Jugoslavia comunista, dove erano divenute una vera e propria "verità di Stato". Erano basate su quanto affermato, fin dall'immediato dopoguerra, dagli jugoslavi: "da parte del governo jugoslavo non furono effettuati né confische di beni, né deportazioni, né arresti, salvo che di persone note come esponenti fascisti di primo piano o criminali di guerra" (9 giugno 1945).
Nasceva così il falso mito della "vendetta contro i fascisti", che viene tuttora perpetuato, in alcuni ambiti, anche in senso riduzionista: non si negano dei massacri ma si tende a ridimensionare il fenomeno.

La tesi del genocidio nazionale

Speculare alla tesi precedente, è la tesi del "genocidio nazionale" degli italiani, secondo cui gli italiani furono perseguitati in quanto tali ("colpevoli solo di essere italiani"), nel tentativo di distruggerne la presenza. Tale tesi, sviluppatasi sulla base della percezione dei protagonisti del tempo, si è andata via via cristallizzando, anche a causa dell'assenza di ricerca storica, divenendo così una convinzione difficile da superare. Anche in questo caso la ricerca storica ne ha rilevato l'inconsistenza, non essendosi mai potuto dimostrare che le stragi avessero come obiettivo una "pulizia etnica" degli italiani.
Il numero delle vittime, pur elevato, è infatti lontano dalla dimensioni di un genocidio; inoltre la repressione iugoslava del 1945 ebbe sicuramente finalità intimidatorie nei confronti dell'intera comunità italiana, tuttavia queste sono da collegare non tanto a un progetto di espulsione (che prese effettivamente corpo solo negli anni successivi), quanto alla volontà di far comprendere nel modo più drastico agli italiani, che sarebbero potuti sopravvivere nella nuova Jugoslavia, solo se avessero accettato il nuovo regime, assieme a tutti i suoi obiettivi di ordine politico, nazionale e sociale.
Tale tesi è tuttora popolare nell'ambiente degli esuli e, presentandosi a facili strumentalizzazioni politiche, in talune frange della destra italiana.

L'oblio del dopoguerra

Trascorso il dopoguerra, la vicenda è stata a lungo trascurata per i convergenti interessi di governo e opposizione.
Secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio fu causato da tre motivi: prima di tutto vi fu un silenzio internazionale, provocato dalla rottura tra Tito e Stalin avvenuta nel 1948, che spinse tutto il blocco occidentale a stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia, in funzione antisovietica (si era agli inizi della guerra fredda). Vi furono anche cause politiche, dal momento che il PCI non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale. Vi fu infine un silenzio da parte dello Stato Italiano, che non voleva più prendere in considerazione le questioni relative alla sconfitta nella seconda guerra mondiale, considerato che a partire dagli anni sessanta i rapporti fra Jugoslavia e Italia si erano normalizzati.
La memoria degli avvenimenti rimase per lo più ristretta nell'ambito degli esuli, di qualche intellettuale anticonformista e di commemorazioni locali. Solo una parte della destra ha sostenuto le ragioni delle vittime, sia pure strumentalizzandole in funzione anticomunista ed esagerando il loro numero.
Il 24 aprile 1975, Giovanni Leone, allora presidente delle Repubblica Italiana, partecipò alle celebrazioni per il tentennale della Liberazione di Trieste alla Risiera di San Sabba e il giorno seguente presso la foiba di Basovizza, deponendo una corona di alloro: questo gesto provocò a distanza di poche ore una forte nota di protesta jugoslava tramite l'agenzia di stampa Tanjug e la corona venne rubata e bruciata.
Ciò non toglie che in opere storiche l'argomento fosse dibattuto: ad esempio nel 1980, Arrigo Petacco, noto giornalista e saggista, illustrò la tragica realtà di questo massacro. Il suo racconto, pur all'interno di un'opera più ampia e con molte incertezze, prudenze e omissioni, offriva un quadro sufficientemente completo, senza sottovalutare entità e ferocia delle stragi.
Nel 1982 Giovanni Spadolini, allora Presidente del Consiglio dei ministri, dichiarò le foibe di Basovizza e di Monrupino, ossia le uniche due foibe ove avvennero uccisioni esistenti nel territorio della Repubblica Italiana, monumenti di interesse nazionale; nel 2004 entrambi i luoghi divennero monumento nazionale.

Il ruolo dell'epurazione preventiva

A partire dalla fine degli anni ottanta una serie di studi ad opera di Elio Apih, Raoul Pupo e Roberto Spazzali, hanno evidenziato il nesso tra gli eccidi del 1945 e le stragi jugoslave, ossia quell'insieme di eccidi che hanno ovunque marcato la presa del potere in Jugoslavia, da parte di un movimento rivoluzionario a guida comunista, protagonista di una guerra che non era solo di liberazione, ma che era anche una feroce guerra civile, diretta all'eliminazione fisica degli avversari e che si trascinò, in termini di scontri armati e stragi, fino al 1946.
Pertanto l'ipotesi più plausibile per spiegare gli eccidi delle foibe è stata quella dell'"epurazione preventiva". Tale epurazione nella Venezia Giulia combinava, in modo inscindibile, obiettivi di rivalsa nazionale e di affermazione ideologica, nonché di riscatto sociale, e voleva eliminare tutti i potenziali oppositori (reali o meno) del disegno politico di Tito. Il progetto era contemporaneamente nazionale e ideologico, dal momento che mirava sia all'annessione della Venezia Giulia, sia all'instaurazione di un regime stalinista.
Questa interpretazione dei fatti, non sottovaluta il fondamentale ruolo del nazionalismo sloveno e croato e del loro inserimento nell'ambito della politica di potenza della nuova Jugoslavia e pone al centro dell'attenzione il problema dell'affermazione del comunismo mediante la lotta armata, evidenziando inoltre la differenza fra la resistenza nella Venezia Giulia e quella del resto d'Italia.
Le stragi giuliane del 1945, non ebbero nulla a che vedere con la Resistenza italiana, non solo perché essa non vi partecipò, ma soprattutto perché i contesti in cui agirono i due movimenti di resistenza furono profondamente diversi. In Italia le zone liberate furono spesso teatro di svariate azioni violente, che segnarono la brutale conclusione di conflitti che si erano aperti fin dai primi anni venti. Tali violenze però, si svolsero al di fuori delle strutture di uno Stato che sarebbe stato, da lì a poco, ricostruito secondo principi democratici e liberali e che non era nemmeno collegabile a nessun disegno politico complessivo, poiché l'ipotesi di una presa del potere rivoluzionaria era stata scartata dal PCI.
Nella Venezia Giulia invece, la violenza di massa costituì uno degli elementi portanti di una rivoluzione vittoriosa che si trasformò gradualmente in un regime stalinista, capace di "convertire in violenza di Stato l'aggressività nazionale e ideologica presente nei quadri partigiani”.

(Web, Google, Focusjunior, Wikipedia, You Tube)






























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