lunedì 8 aprile 2019

1^ GUERRA MONDIALE - FRONTE MACEDONE: IL DESTINO DI PASQUALINO VERNI’ (soldato del "271° Btg. Milizia Territoriale”) E QUELLO DEL PIROSCAFO CITTA’ DI BARI





1^ GUERRA MONDIALE - FRONTE MACEDONE:
IL DESTINO DI PASQUALINO VERNI’ (soldato del "271° Btg. Milizia Territoriale”) 
E QUELLO DEL PIROSCAFO CITTA’ DI BARI


Disperatamente sognava,
nella solitudine
d’America e di Macedonia,
la carezza della mamma…,
i paesaggi dell’infanzia…,
i tramonti e le stelle …
lasciate nella notte…
laggiù in Puglia…
lontano…

EMIGRANTE E SOLDATO…. SENZA FINE

Collo taurino, fronte alta e spaziosa, sguardo dolce e mite, occhi grandi e fissi, capelli scuri e corti, baffi folti e arricciati all'insù: è tutto qui il nostro uomo.
Da modesti proprietari terrieri era nato il 13 febbraio 1879.
Si chiamava, tutti lo chiamavano, Pasqualino.  Avesse avuto uno, dieci o quarant'anni - di più l'umana sorte non gliene volle concedere - per tutti era - sempre e soltanto - Pasqualino.  Quasicché il vezzeggiativo col quale lo si nominava gli fosse stato ritagliato addosso dalla natura medesima e a Lui spettasse più che a tenero infante.
Il secondo di una grossa covata egli era, non unica né rara nel borgo natìo, - di quelle che, da sole, riempivano di chiasso e di allegria, da mane a sera, vicoli e strettoie agglomerati nell'antico rione dello Spirito Santo -, sempre timoroso di nuovi affacci, pur se già smanioso di più ampi slarghi per gli andirivieni delle sue giovani api.
Dopo Saverio, il primogenito, (1875), prima di Nicola ("Colett"), il terzogenito, (1881), di Isabella, la quartogenita (1883), di Anna (1885), di Pasqua, la "Ross"  (1887) - anche lei, come il fratello, portava questo nome tanto caro alla cristianità (dal latino medioevale Pasqua o Pascha e questo dall'Ebraico Pesah "passaggio",) segno e pegno di fede, tradizione e culto di famiglia, immagine e memoria di avi di gran rispetto (dell'uno e dell'altro ramo) - prim'ancora di Carmela, di Domenica, di Antonia, l'ultimogenita, supporto, quest’ultima, angelo custode e vestale di casa.  Nove in tutto.  Nove bocche da sfamare, da crescere, da incamminare nel vasto mondo di fine Ottocento.
Molte, si direbbe a prima vista, ma non troppe per la profonda religiosità dei loro pii genitori, consapevoli che tanti figli costituivano pur sempre una benedizione del Cielo.
A tutte indistintamente queste creature la mamma, la ferma, la ferrea eppur dolce mamma Maria - la benvoluta e ultrastimata "Zia Maria" (z' maroi') del lungo parentado - voleva un bene dell'anima: immenso, com'era immenso il suo cuore, uguale per tutti.  Ma, quello per il suo Pasqualino era diverso: più evidente ed invadente:  in una parola, "protettivo", ma non perché lui portasse il nome del suo avo prediletto o perché mostrasse, più che gli altri fratelli, virtù rare o intelligenza superiore, ma unicamente perché, dentro di sé, nel suo subconscio, lo presentiva bersaglio irato di un maleficio, vittima predestinata di un oscuro disegno, che, sin dal nascere del suo piccolo, la perseguitava come una maledizione, le toglieva la pace, le riempiva l'animo di angosce e di paure che ella cercava vanamente di allontanare da sé con una più attenta e vigile protezione.
Sotto l'ala di siffatta mamma, Pasqualino crebbe sano e forte come un pesce, trascorse un'infanzia serena e tranquilla, forgiò al meglio il suo carattere mite e generoso, sviluppò ancorpiù il nativo senso del dovere e del sacrificio, imparò con facilità un mestiere qualificato fatto su misura per lui, e, già adolescente, si segnalava tra i più esperti nell'arte del potare.
Dimenticò, però, l'incauto, di pensare anche a dirozzare la mente, ad imparare, come si dice, a leggere e scrivere e di questa sua noncuranza molto si dorrà, per vero, un giorno non lontano.  Vero è che la colpa di ciò non era, e non poteva essere, soltanto sua.  Era, infatti, anche dei genitori, i quali mancarono il dovere di mandare a scuola tutti i loro figli, ritenendolo forse un lusso da non poter soddisfare.  Come lo era anche dello stato, il nascente stato unitario italiano, il quale, per combattere la piaga dell'analfabetismo, (particolarmente diffusa nel Mezzogiorno, dove il 70% della popolazione era analfabeta ossia non sapeva né leggere né scrivere), si limitò ad emanare una legge - la cosiddetta legge Coppino del 1877, dal nome del ministro che la proponeva - con cui si istituiva sì la Scuola Elementare obbligatoria, ma non la si rendeva, come la si sarebbe dovuta, gratuita.  Il che nocque non poco all'efficacia stessa del provvedimento preso e, nel tempo, evidenziò la necessità di adeguati miglioramenti.
Non di meno quello dell'istruzione non era, e non fu, l'unico e solo problema che afflisse e turbò i sonni di Pasqualino e soci.  Ve ne erano altri, non meno gravi e urgenti: quello del lavoro, p.e.; quello dell'occupazione o dell'economia o dei trasporti o delle comunicazioni, per dirne qualcuno.  Nessun ministero se ne occupò mai con l'impegno dovuto e perciò restarono a lungo abbandonati ed irrisolti, al punto che il Mezzogiorno era l'immagine stessa dell'arretratezza, dello sfacelo e della miseria e conseguentemente del disarmonico sviluppo economico e sociale del Paese.
Responsabile primo del degrado e del malessere di cui soffrivano le genti del Sud era l'agricoltura col suo "latifondo" - dal latino "latifundium", cioè vaste possessioni rurali coltivate per lo più a coltura estensiva - con un tipo di coltura cioè troppo antiquato, antistorico per vero e antieconomico, del tutto immobilistico, che lasciava nelle mani di pochi irresponsabili il 70% della terra, la quale, anziché essere lavorata, "era lasciata in gran parte incolta, preda dei rovi e delle erbacce in genere, dominio degli animali da pascolo e regno dei passatempi dei nobili proprietari o era tenuta a "masseria di campagna", con utili e vantaggi esigui o del tutto inesistenti. Il rimanente 30% lo possedevano, in frazioni minime, centinaia, e forse migliaia, di piccoli proprietari terrieri, i quali non solo non ne traevano alcun sostanziale beneficio, non solo non vedevano mutarsi quella minima ricchezza in altra ricchezza, ma non riuscivano mai neppure a cavare quella gran "sete di terra", che da sempre li tormentava. 
Non solo.  Ma l'incaglio causava, senza volerlo incomodi e disturbi talmente gravi, che condannarono i braccianti agricoli a lunghi periodi di disoccupazione o di sottoccupazione, a paghe striminzite e saltuarie, a fame e miseria senza fine, che intristivano o imbarbarivano chi ne veniva colpito, spingendolo spesso anche a "delinquere" .  Il "brigantaggio meridionale", di cui tanto si parla ha proprio queste tristi origini, non lo dimentichiamo.
A complicare poi ulteriormente la situazione in casa nostra, ossia nel nostro mezzogiorno, nei nostri paesi, che vivevano di agricoltura, giunse, verso la fine del secolo XIX, la "crisi agraria", cioè il calo vertiginoso del prezzo dei cereali prodotti nel mezzogiorno - determinato pare, dalla comparsa sui mercati europei dei cereali americani e del riso e della seta orientali.  Sembrava, o fu creduto, un malessere di poco conto, curabile alla meglio e con facilità e il rimedio più efficace fu indicato nell'emigrazione in massa verso i paesi lontani delle Americhe.  Fu, però, un errore.  Perché  il male non guarì, la malattia peggiorò, il corpo, vale a dire il Paese, il Sud, ne soffrì enormemente.
Inutilmente scoraggiata dal ministro Lanza, essa, cioè l'emigrazione, passò dai 300.000 emigranti del 1900 agli 873.000 del 1913, sradicando i contadini dalle loro terre e compromettendo spesso le unità familiari.
Fu un vero e proprio contagio, un'epidemia, un'emorragia, che non risparmiò, senza esagerare, nessuna famiglia del Sud. 
Neppure quella di Pasqualino.
Filava e pungeva la "montagna" (la "mntegn", o tramontana di casa nostra) sulla sera del paese, nel cuore dell'inverno.  Tutti erano tappati in casa, anche i più giovani.  Saverio, Pasqualino e Coletto, anche loro, se ne stavano al caldo, addosso l'uno a l'altro, stretti nell'ampio "fuoco" (o caminetto) di Tata Giovanni (Tata Giuenn), al primo piano della loro abitazione.  Di fronte a loro ardeva e bruciava un grosso ceppo di mandorlo appena scalzato.  Rannicchiata in un angolo, stanca, il capo stretto nelle mani, piegata in avanti, mamma Maria.  Tra un sobbalzo e l'altro, ella allungava le mani alla fiamma, le scaldava, le sfregava con forza, tendendo l'orecchio ai discorsi sussurrati dei tre figli.  Parlavano di tutto: di lavoro che non c'era; di "giornate" che nessuno più trovava; di paghe striminzite e scarse; di proprietari svogliati; di terreni incolti da lunga pezza; di fame e di miseria sempre più crescenti; di famiglie che non sapevano come tirare avanti; e, quel che è peggio, non trovavano più "credito"; di debiti sopra debiti, contratti per pagare il viaggio o, più spesso i viaggi a due o più persone della stessa famiglia; di amici, compagni, coetanei che da tempo non si vedevano più in giro, spariti, scomparsi dalla mattina alla sera, partiti - così dicevano tutti -, di nascosto, alla chetichella, "di contrabbando",  clandestini per...- e qui essi, nel raccontare tutto questo, abbassavano ancor più la voce sino a rendere incomprensibili i suoni e le sillabe - ...l'America... - quella specie di Fata Morgana  che tutti incantava ed attirava -; ...di Ciccillo, Saverio, Vito Sante, Rocco Martino, da mesi scomparsi, introvabili, dei quali non si avevano più notizie, sino al giorno prima, ma che già avevano trovato un lavoro e dai quali già si ricevevano le prime rimesse o "cheque" o Check" o "scék" (assegno bancario)...; di ...e giù altre notizie, all'infinito.
Voci, queste,? Solo voci? chiacchiere da bar, da oziosi, da sfaccendati?
Balle o verità assolute? dette, così, a mezza bocca, in un orecchio, in questo o quel crocchio? Mah!
Mamma Maria ascoltava, ascoltava, in silenzio. Poi, come per dir la sua, "Pasqualino, fece, alzando un po' la voce, forse per scuotersi dal dormiveglia o forse per darsi coraggio, nel momento in cui questo le mancava, ho un'idea: se è vero quello che si dice, perché non provi anche tu? lo fanno tutti ormai questo benedetto viaggio in America; perché non lo fai anche tu? Tentare non nuoce, si dice". "E poi, aggiunse, il viaggio, sappilo bene, non lo faresti da solo: insieme con te ci sarebbero almeno altre tre persone: la Madonna del Carmine, io e Coletto, tuo fratello. Saverio, no.  Saverio deve stare qui per dare una mano a tuo padre".  Altro non disse e riprese a sonnecchiare.
Fuori, intanto, si faceva sempre più buio e la "Montagna", sibilando seguitava a pungere e a filare.
Mamma Maria ascoltava, ascoltava, in silenzio. Poi, come per dir la sua, "Pasqualino, fece, alzando un po' la voce, forse per scuotersi dal dormiveglia o forse per darsi coraggio, nel momento in cui questo le mancava, ho un'idea: se è vero quello che si dice, perché non provi anche tu? lo fanno tutti ormai questo benedetto viaggio in America; perché non lo fai anche tu? Tentare non nuoce, si dice". "E poi, aggiunse, il viaggio, sappilo bene, non lo faresti da solo: insieme con te ci sarebbero almeno altre tre persone: la Madonna del Carmine, io e Coletto, tuo fratello. Saverio, no.  Saverio deve stare qui per dare una mano a tuo padre".  Altro non disse e riprese a sonnecchiare.
Fuori, intanto, si faceva sempre più buio e la "Montagna", sibilando seguitava a pungere e a filare.
Il tempo di approntare un bagaglio purchessia e di prendere gli ultimi accordi, poi il "traìno" di famiglia, il carro agricolo tuttofare di tata Giovanni prende a bordo uomini e cose e all'alba, prima che si faccia giorno, per tempo - come sempre - è già alla stazione ferroviaria, dove scarica due giovani sui vent'anni, due valigette di cartone, un diluvio di lacrime e ...tante speranze.
Scene da primo Novecento, si dirà, ma anche scene da ultimo Novecento: la Storia dell'Umanità dolente è sempre la stessa, non cambia mai. 
Un lungo viaggio su un treno fumoso e nero porta i nostri due emigranti in quel di Napoli, al porto di Mergellina.  Qui li accoglie una vecchia carretta di mare, che salpa furtiva sull'imbrunire di un giorno piovoso e triste, mentre nelle vie e sulle scene dei teatri partenopei risuonano patetiche e struggenti le note di una celebre canzone popolare, quella che dice:

"Partn 'e bastimente p' terre assaie luntane..."
   
Trenta, quaranta giorni di viaggio, lungo, interminabile, disumano, inenarrabile, più da bestie che da uomini - ci si scandalizza tanto oggi dei viaggi degli albanesi o dei  curdi  o dei marocchini, ma non si prova alcuno sdegno al ricordo dei vergognosi trattamenti riservati a questi nostri infelici "cercatori di lavoro" - poi, finalmente lo sbarco, l'Odissea, il calvario in terra straniera, a migliaia e migliaia di chilometri di lontananza.
Nel bailamme di New York - approdano quasi tutti qui i nostri connazionali.  Tra gente d'ogni lingua e colore e religione, dentro veri e propri formicai umani, dentro "street, ave"  e sterminate campagne dell'immensa America.
Ecco, sono piovuti qui, proprio qui, i due rampolli di mamma Maria, Pasqualino e Coletto.  Sono venuti qui, in cerca di lavoro, e di fortuna, e di futuro.  Li troveranno?
Chissà!
Sono loro i "cafoni", quei cafoni di cui parla il Villari  nel suo discorso alla Camera il 30 maggio 190951, gli analfabeti, gli ignoranti incapaci di difendersi, le vittime dei "banchisti" - gli "scafisti" del Canale d'Otranto dei nostri giorni - che li sfruttano, li taglieggiano...
..."fanno tutto, i nostri emigranti, - canta il Pascoli in "La grande Proletaria s'è mossa" del 1911 (discorso pronunziato nel Teatro di Barga) - i lustrascarpe, gli sterratori, i portatori di ghiaccio, gli strilloni di giornale..., nelle città, nelle fogne, lungo le strade ferrate...con la vanga in mano, eccoli picchiare...con il piccone e con la scure;  terrazzani e braccianti per tutto cercati e per tutto spregiati...con la vanga scavano fosse e alzano terrapieni, al solito...col piccone, al solito, demoliscono vecchie muraglie, e con le scuri abbattono, al solito, grandi selve...stanno lì sotto rovesci d'acqua...sotto...proletari, silenziosi lavoratori, contadini...silenziosi quasi sempre...tenori improvvisati o bassi stonati...di lontane melodie verdiane...sempre guardati a vista...da caporali imperiosi o da padroni altezzosi...digiuni...senza merenda, senza un bicchiere del buon vino della loro terra, ... senza neppure un piccolo sorso di acqua... affamati... assetati... sferzati... scudisciati... ma più duri e resistenti del ferro... più compatti della roccia... com'è nella loro fibra, nella loro scorza particolare... per otto... dieci... dodici ore di seguito e forse più...
...sempre sudando e faticando, non diversi e non dissimili dai fabbri della fucina di Vulcano della mitologia...
Nel crogiolo d'America si saggiò l'oro, tutto l'oro dell'Italia povera.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, sempre sudando e lavorando sodo, da mane a sera, sempre centellinando e risparmiando, con esasperazione eccessiva, con il senso pieno del sacrificio, che solo la gente di casa nostra conosce e sa imporsi, con la voluttà del risparmio, che solo quando è costante e sostanziosa dà, come diede, frutti sapidi e copiosi.
Costavano, oh se costavano!, quei frutti, ma riempivano di orgoglio.  Lo sapeva anche Pasqualino, che diceva:  "Se tu spezzassi, se tu riuscissi a spezzare un "cent" - lo sanno tutti ormai, è questo la metallica monetina d'America, che i lavoratori di un tempo, (quelli di ora non so) ricevevano in busta paga -, sicuramente ne vedresti uscire...sangue: il sangue del nostro lavoro".
E non esagerava.
Quando, un giorno, il peso della stanchezza si fece sentire, allora anche la solitudine cominciò a rendersi insopportabile, la nostalgia a farsi struggente, ardente la brama del ritorno, acuto il desiderio dei tramonti e delle stelle lasciati laggiù, al paese, in Puglia, carezzevole il sogno di metter su famiglia, di ampliare l'azienda avìta, (avuta cioè in eredità dagli avi) con nuovi appezzamenti, dove che fosse, al Macchione, al Capitolo, a Diasparre, a Parco Casa o La Cattiva, non importa se da spietrare, da sgramignare, da rifare di sana pianta. Divenne allora necessario per tutti ormai il ritorno in famiglia. Anche se per poco.
E tornarono, anche loro, ai patrii Lari, i forti Pasqualino e Coletto. Con tanti progetti e tante speranze da realizzare.
Ma.........  
Venne la guerra, la "Grande Guerra".  Arrivò la cartolina precetto, la chiamata alle armi o il richiamo.  Prima dei ventenni.  Poi dei trentenni e oltre.  Infine dei diciottenni (classe '99, classe di ferro).  E fu il turno anche di Pasqualino che veleggiava tranquillo verso la piena maturità.  Richiamato, lui non ne fece un dramma, non oppose ostacoli e furbizie.  Soldato fedele e disciplinato, reindossò con orgoglio il glorioso grigioverde, ritrovò l'ardore dei giovani anni e, in silenzio, disciplinatamente, raggiunse il reparto cui l'avevano destinato, il 271° Btg Milizia Territoriale, dislocato sul fronte Macedone, tra l'Albania e la Grecia.  E lì restò due lunghi anni, senza mai chiedere o mendicare licenze e permessi, pago di sentirsi unito alla famiglia messa su da poco dalle lettere o cartoline che il comandante del suo reparto molto volentieri vergava per lui analfabeta.  
Col tempo il tarlo della nostalgia cominciò a roderlo, il desiderio degli affetti perduti a tormentarlo.  Scalpitò, presentò le sue ragioni, venne accontentato con una lunga licenza premio. 
A casa trascorse giorni indimenticabili che lo rinfrancarono e lo resero sommamente felice, anche perché così sentiva appagato quel suo, più  volte rimarcato negli scritti, desiderio di guardare in faccia e di stringere a sé il suo rampollo, il suo "Giuannìnn", come lui lo chiamava, calcando la voce sull'ultima i.
Consumata la licenza, lo aspettava il rientro in sede e a quello si preparò con animo sereno, per nulla intimidito dalle notizie che circolavano e dalle insidie nascoste nel braccio di mare tra l'Italia, l'Albania e la Grecia.  I rischi e i pericoli ch'egli realmente correva non sfuggivano, però, a chi gli voleva più bene, la moglie, la quale, ancor prima che il consorte si rimettesse in viaggio, nulla tralasciò, perché il marito si convincesse ad escogitare, sull'esempio altrui, il mezzo idoneo a farsi dichiarare inabile al servizio militare.  Invano.  "No, fu la sua risposta, devo tornare al reparto".  E tornò.
Il giorno stabilito, infatti, riabbracciata la moglie, stretto forte forte a sé il figlioletto, data un'ultima fuggevole occhiata al suo piccolo mondo, fermo e deciso come sempre, si rimise in treno e in poche ore fu a Taranto.  Era qui la nave che doveva traghettarlo in Grecia e di qui in Macedonia.  Bella, nuova, sicura.  Fatta per infondere coraggio, al solo vederla.
"Restai con lui circa due ore, -  raccontò tra le lacrime il cognato Vito (Minz' mon'c), marito di Domenica, allora sottufficiale in servizio presso l'ufficio imbarchi e sbarchi della Stazione marittima della Città dei Due Mari - quando fu l'ora della partenza della nave, lo accompagnai fin presso alla scaletta.  Al momento di lasciarci, lui mi si fece più vicino e, stringendomi forte a sé, "Vito, mi disse con voce velata di sconforto e di tristezza - mi vorrei sbagliare, ma ho tanta paura ed un brutto presentimento".
Furono le ultime sue parole.  Il preannuncio di una tragedia imminente.

Era l'alba del 6 ottobre.  Era scritto.
Sul mare appena mosso da un lieve soffio di maestrale, il "Città di Bari", pur impanciato da un pesante carico umano, imbarcato 
incautamente nella sosta a Gallipoli, filava vigile ma tranquillo, sulla sua rotta di EST-NORD EST, seguito da una lunga scia di spuma bianca e farinosa.  Sopra, il cielo, d'un azzurro terso e intenso, tinteggiato di stelle radiose, pareva sorridere al passaggio del vapore.  C'era stato, invero, un falso allarme, subito rientrato ed ora un silenzio profondo avvolgeva il sonno e la stanchezza dei numerosi passeggeri.  D'un tratto - era quasi spuntata l'alba - un sordo boato scosse la fiancata di babordo della nave.  Subitaneo, un largo squarcio s'aprì, un fiume d'acqua invase la sala macchine, distruggendo il telefono e costringendo il vapore a fermarsi.  Scoppiò, è naturale, il finimondo.  Grida disperate e terrore, tanto terrore scese nei malcapitati passeggeri che s'affrettarono a cercare la salvezza nelle scialuppe di salvataggio.
Ne approfittò il sommergibile assalitore che, emergendo, molto disumanamente puntò il cannone contro la nave agonizzante incendiandola e facendola colare a picco.  Non lontano da Corfù, a due passi dall'isoletta di Paxì o Paxòs, in un mare livido e amaro, sconvolto dal libeccio e dal Greco, battuto dalla pioggia di un furioso temporale, solcato dai remi affannosi delle zattere  stracolme di naufraghi, di grida disperate, di urla e di preghiere.  Sotto il ghigno beffardo del tedesco nemico.  In una lotta sovrumana per sopravvivere, mentre la notte finiva e l'alba s’affrettava a cedere al giorno chiaro. Nell'attesa, lunga e vana, di un soccorso pronto e liberatorio. 
A uno, a due, a tre...a dieci per volta, anche, prima o poi, i più finirono in fondo al mare, portando strette a sé vita, speranze e illusioni.
Era la dura legge della sorte beffarda e ingiusta.  
Il mare tutto inghiottì, abiti civili e divise militari, uomini coraggiosi e giovani speranzosi.  Tutto.  Anche il corpo del forte Pasqualino.
Si strusse in pianti la giovane moglie, la forte, coraggiosa Lucia.
Lo sguardo, timido e innocente di "Giuannin" - era troppo piccolo per capire l'infelice bambino! - si riempì di attonito stupore.  L'animo suo, da quel dì, traboccò d'infinita tristezza.
Se ne dolsero grandemente e se ne dispiacquero immensamente, consanguinei, amici e conoscenti.
La disperazione più nera abitò a lungo nell'animo dei suoi familiari.
Solo lei, la forte, la tetragona, l'incrollabile mamma Maria, alla ferale notizia, rimase inebetita e impassibile.
Non batté ciglio, non aprì bocca, non pronunziò parola: ammutì.  Diventò di sasso.
Simile, in questo, ad un'altra madre, ad un'altra donna, sferzata a sangue dalla mala sorte, ed annichilita, come lei e più di lei, dal crudele destino.  A quella Niobe,54 alla tebana regina che questo nome portava, della quale così cantò la tragedia il grande Ovidio (Met. VI; - 303 - 310):

...deriguitque malis: nullos movet aura capillos
in vultu color est sine sanguine, lumina maestis

305 stant immota genis; nihil est in imagine vivum.
Ipsa quoque interius cum duro lingua palato 
congelat, et venae desistunt posse moveri;
nec flecti cervix nec brachia reddere motus
nec pes ire potest;  intra quoque viscera saxum est.

310 Flet tamen...
  
"e s'irrigidì dallo strazio: l'aria più non le muove i capelli
sparisce il colorito dal volto, gli occhi sono fissi

305 nelle orbite meste; nulla c'è di vivo nel viso.
Anche la stessa lingua si unisce al duro palato,
gelida, e le vene smettono di potersi muovere
né più la testa si piega, né più si muovono le braccia,
e i piedi;  anche dentro le viscere c'é sasso.

310 Piange tuttavia...
Diversamente, però, da questa pur leggendaria ma umanissima donna, lei, la forte mamma Maria, non pianse, almeno in pubblico, in presenza degli altri.  Seppe trattenere le lacrime e soffocare il pianto.  In privato così non fu.  In privato, tra le pareti domestiche, lacrime furtive, lacrime amare, lacrimoni turgidi e perlacei, furono visti, spesso rigare veloci il volto suo scarno e asciutto fino agli 85 anni.  Lo strazio, invece, nessuno mai lo vide, il dolore immenso, che solo una mamma conosce, lo tenne tutto per sé, serrato, nascosto dentro lo scrigno della sua dignità.  
Cercò, e forse trovò, lenimento e conforto nell'illusione che il suo Pasqualino, scampato miracolosamente alla morte insieme con altri, imbarcato su altra nave, continuasse ancora il suo interminabile viaggio terreno.  
Da emigrante e soldato, senza fine, appunto, qual'era ed aveva voluto restare. La Patria, il Paese, onorò la memoria di Pasqualino, insignendolo di una speciale medaglia, detta "della gratitudine nazionale" ed iscrivendone il nome in medaglioni, targhe, lapidi e sacri bronzi.

6 OTTOBRE 1917: LA VERITA’ SULL’AFFONDAMENTO DEL PIROSCAFO “CITTA’ DI BARI”,
OVVERO: IL DRAMMA DI UNA NAVE, DI PASQUALINO E DI TANTI ALTRI SVENTURATI PASSEGGERI

“ Perché una immane tragedia della Grande
Guerra, troppo a lungo nascosta e dimenticata, abbia
finalmente un nome, una dignità ed un volto nell’animo nostro. ”

PROLOGO

Era, il "Città di Bari", una gran bella nave della Marina Mercantile Italiana, noto al vasto pubblico per i grandi servigi resi al Paese nell'ambito del trasporto marittimo; non di grosso tonnellaggio, ma solido, capace, affidabile; un gioiello di tecnica e di modernità;  il fiore all'occhiello della Società di Navigazione cui apparteneva.
Varato nel 1913, poco prima dello scoppio della Grande Guerra, aveva solcato con onore e dignità l'Adriatico e lo Jonio, attivamente partecipando ai traffici commerciali che si svolgevano nei due mari e tenendo ben collegate tra loro le sponde che ne erano bagnate.  Con l'entrata in guerra del nostro Paese, era stato requisito ed armato e, all'epoca dei fatti, veniva adibito a nave ausiliaria della Marina Militare nel servizio infrasettimanale sulla linea Taranto-Gallipoli-Corfù-Patrasso.
E, qui, proprio qui, su questo tratto, in uno di questi viaggi, la malasorte volle che, all'alba del 6 ottobre 1917, si compisse il suo tragico destino.
La notizia del suo affondamento fece, com'era naturale, scalpore, suscitò emozione, stupore e commozione in quanti ne vennero a conoscenza, provocò pianti e lacrime strazianti in chi ne era più direttamente interessato, ma la vera portata, la dimensione, la gravità di questo disastro, pochi le seppero nella loro interezza. Gli altri, gli stessi familiari delle vittime, dovettero contentarsi di notizie frammentarie, appena, appena sussurrate, dette a mezza bocca, dentro e fuori degli ospedali dove si trovavano ricoverati gli scampati alla morte.
Il racconto che i sopravvissuti andavano facendo dell'accaduto era quanto mai sconvolgente e raccapricciante e preoccupava non poco, perché giungeva in un momento assai delicato per le sorti della guerra, per lo stesso prestigio delle Forze Armate, per il morale della Nazione.
Alcuni particolari, invero, destavano orrore e rabbia, angoscia e turbamento, sgomento e indignazione.
Non controllati, questi sentimenti avrebbero potuto contribuire a far crescere tensioni e lacerazioni, malumori e polemiche nell'opinione pubblica, già turbata, profondamente turbata da altre vicissitudini, avrebbero potuto innescare altre e più furiose polemiche, facendo così il gioco della propaganda pacifista e disfattista che da tempo impazzava nel Paese, se le Autorità dello Stato, nell'interesse comune, non avessero deciso di intervenire direttamente nella vicenda, sdrammatizzandola, minimizzandola, circoscrivendola, mettendole, come si dice, la sordina.
Sicché, pian piano, come per consegna data o per ordine ricevuto, l'impressione suscitata da quel brutto evento, scemò di colpo, spazzata, affogata, con tutto il suo pianto e tutto il suo dolore, nella disfatta di Caporetto (24 ottobre, vale a dire quindici giorni dopo) e della tragedia del "Città di Bari" nessuno più parlò né più nulla mai si seppe.
Sepolta, la tragedia, in tutta fretta, con tutti i suoi morti - erano tanti! - e tutti i suoi orrori, tutte le sua colpe e tutti i suoi misteri, in una bara comune, in fondo allo Jonio, alle porte di casa.
Chiusa e sigillata dentro i ferrei cassetti degli Archivi di Stato.
Imbavagliata e guardata a vista.  Non dimenticata, però! - i morti, i padri non si dimenticano, non si possono dimenticare!
Di là, da quella bara comune, da quelle gelide prigioni, la tira fuori a fatica, oggi, ad oltre ottant'anni di distanza, per farla conoscere a tutti, la gran sete di sapere, e di capire, e di piangere ancora - il pianto dell'uomo, si sa, non ha mai fine, non si estingue mai! - di uno dei tanti orfani di quella immane oscura vicenda.
Della quale egli, l'orfano, ripropone qui, in questa sede, in questo scritto, tutto, volti e immagini, nomi e cognomi, eroismi e brutture, verità e reticenza, colpa ed irresponsabilità, quali rivengono dalle testimonianze dei sopravvissuti e dai documenti che la sensibilità di alcune alte personalità della Marina Militare ha voluto, molto cortesemente, mettere a disposizione della Storia. Eccola, dunque, la VERITA'.

IL   FATTO

Lasciata Taranto nel pomeriggio di giovedì 4 ottobre, il "Città di Bari" giunse a Gallipoli (l'antica Καλήπολις, o "Città Bella", fiorente centro commerciale affacciato sullo Jonio, a 38,5 Km. da Lecce), nelle prime ore della sera dello stesso giorno.
Era solo, senza scorta, avendo a bordo, oltre all'equipaggio civile composto di 40 persone e all'equipaggio militare di 11, soltanto 37 (o 35?) passeggeri militari del Regio Esercito (c'era tra questi il padre di chi scrive, Pasquale, soldato del "271° Btg. Milizia Territoriale", dislocato sul fronte Macedone, al quale faceva ritorno dalla licenza) e della Regia Marina ed un carico di 130 tonn. di viveri e materiali vari.
"Quando il "Città di Bari" giunse a Gallipoli - narra nel suo interrogatorio l'Ufficiale di Porto - mi recai a bordo della nave, e il Capitano di questa, Luigi Castellano, mi chiese se il Piroscafo "Imera", silurato due giorni prima, avesse avuto la scorta. Alla mia risposta negativa disse: "Chissà se per noi vi sarà la scorta". Risposi che non sapevo, ma che però non lo credevo e, quindi, lo informai che i passeggeri da imbarcare superavano le cento unità.
Al mattino seguente informai il Comandante di Spiaggia delle parole scambiate col Capitano a riguardo della scorta. Il Comandante Stranges mi rispose di non avere facoltà di dare la scorta, ma che, se il Capitano l'avesse ufficialmente richiesta, avrebbe telegrafato a Taranto per l'autorizzazione. Mi recai nuovamente a bordo e riferii quanto sopra al Capitano, ma questi mi rispose che non voleva chiedere scorta per non far credere di avere paura. Se queste non furono le sue precise parole, certo il senso ne era equivalente.
Rimasi a bordo del Piroscafo tutto il pomeriggio e verificai se tutti avessero il salvagente e se lance e zattere fossero a posto, libere da impedimenti ed in numero sufficiente, del che ebbi anche assicurazione dal Capitano.  Non mi occupai, perché non di mia competenza, del ritiro delle armi dei passeggeri; per quanto mi consta, ciò non fu fatto né dell'Autorità di Pubblica Sicurezza, né da quella di bordo, né dagli Agenti della Regia Dogana.  
Ritornai a terra mezz'ora prima della partenza e riferii al Comandante di Spiaggia che il Capitano non aveva creduto di chiedere la scorta.
Il "Città di Bari" partì regolarmente alle 18h,30m. A tenore delle norme vigenti, non feci alcun telegramma di partenza, però, in vista del rilevante numero di passeggeri, telegrafai subito ai Servizi Logistici che il Piroscafo era partito con 400 passeggeri".
"Imbarcati, dunque, 405 passeggeri e come merci del vino e dei tessuti di cotone - scrive il Contrammiraglio Paladini 89  - il Piroscafo lasciava, alle ore 18.30 del 5 ottobre, il  porto di Gallipoli...
...La partenza del Piroscafo fu telegrafata al Ministero, al Dipartimento di Taranto ed l Comando in Capo dell'Armata di Taranto, con queste parole: "Piroscafo Città di Bari mare"  -  Nessun telegramma fu fatto invece ai Comandi Navali di Brindisi, Valona e Corfù", perché, - si giustifica lo Stranges nel suo interrogatorio 90 - nessun ordine di tale specie avevo per quanto riguarda la partenza per Corfù".  E nessuna scorta fu data al Piroscafo, perché, - sempre a dire dello Stranges - non avevo alcuna istruzione di fornire scorta per interi viaggi, perché il Città di Bari è partito dopo il tramonto, ma, soprattutto, perché il Capitano del Piroscafo si diceva riluttante a dar mostra di temere il pericolo".
Trascorsero tranquille - scrive sempre il Paladini 91  - le prime ore della notte": notte di luna - ricordano i superstiti -; aria fosca; forte vento di E-NE che rendeva il mare agitato; visibilità scarsa.
Ma, attorno alla mezzanotte, tra le 23h,45m e le 24h, il marinaio Albano - che era di guardia al cannone, e qualche altro, videro passare di poppa la scia di un siluro.  Avvisato, il Capitano della nave, si portò immediatamente sul posto, ma, non trovando conferma del lancio prospettatogli e non scorgendo alcun segno della presenza del sommergibile siluratore - (probabilmente perché questo si é affrettato a far perdere traccia di sé) - credette ad un abbaglio e tutto finì lì.
Invece abbaglio non era e l'Albano e gli altri avevano visto giusto.
E la conferma ce la dà il sopravvissuto - italiano o straniero? membro dell'equipaggio del Città di Bari o anonimo passeggero? - fatto prigioniero e condotto poi a Pola, del quale, però, la fonte austriaca non rivela il nome per ragioni di riservatezza.
Alle Autorità di marina che lo interrogavano, il sopravvissuto anonimo raccontò che quel primo lancio il sommergibile siluratore  lo effettuò esattamente alle 2h,30m del mattino del 6 ottobre. ("Am 6 Oktober um 2 Uhr 30' a.m.", è scritto nel documento precitato) e che il "Città di Bari" rispose all'attacco sparando alcuni colpi di cannone - ("Antwortete mit seinen Kanonen").
Veri o falsi, in tutto o in parte, questi particolari, sta di fatto che un primo siluro fu effettivamente lanciato contro il piroscafo italiano e che, probabilmente, l'U boot tedesco, andato a vuoto quel suo primo tentativo di siluramento, temendo la reazione del "Città di Bari", sospese momentaneamente l'attacco per riprenderlo più tardi.
L'allarme, perciò, rientrò;  la calma ritornò a bordo e tutti tirarono un sospiro di sollievo.
"L'aria era fosca ed un forte vento di E, NE rendeva il mare agitato. Le 4 erano passate da circa un quarto d'ora - racconta il 2° Ufficiale del Piroscafo 94 - e mi trovavo in sala nautica allorché udii lo scoppio...
"Il tempo era quasi nuvoloso, tirava un vento moderato da scirocco ed il mare era mosso. Si diceva anche che era possibile qualche sorpresa all'alba.  Alle 4h,10m circa, udimmo una forte esplosione"...- ricorda il 1° Ufficiale.
 "Mi trovavo sul primo cassero, - narra a sua volta il direttore di macchina - passeggiavo tra l'osterigio di macchina e la sala nautica;  erano passate da poco le 4h,00m allorché udii un colpo metallico fortissimo e vidi sollevarsi dall'osterigio di macchina un'alta colonna di acqua e vapore. Il siluro aveva colpito il bastimento proprio fra la caldaia e le macchine, che si fermarono immediatamente, insieme naturalmente alle due dinamo.  Il bastimento rimase all'oscuro".
"Svegliato dall'esplosione, - racconta, tra l'altro, Luigi Aleotti per prima cosa corsi abbasso nella stazione R.T. che si trovava proprio nel corridoio che univa la prima con la seconda classe: vidi tutti gli strumenti per terra e capii che la stazione non poteva più funzionare.  In coperta la gente si agglomerava intorno alle sei imbarcazioni.  Vi erano anche molte zattere, circa 16 in legno e sei od otto in ferro. 
Il Comandante era sulla dritta e il capo timoniere sulla sinistra; ambedue cercavano di ottenere un po' di calma, per effettuare ordinatamente il salvataggio, ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei Greci: gettavano gli zatteroni a mare senza ritenuta, facevano capovolgere le lance, venivano alle mani..."
"Intanto il bastimento si sbandò un poco a dritta, molto a sinistra, e quindi si immerse per circa due metri, rimanendo orizzontale.  Una ventina di minuti dopo il siluramento - ricorda ancora il 2° Ufficiale 98 -, arrivò la prima granata che cadde una ventina di metri a sinistra del bastimento.  La seconda, credo colpisse il cannone di poppa.  Seguirono altri colpi.  Appena cominciato il fuoco, non fu possibile impedire alla gente di gettarsi a mare raggiungendo le zattere che, filate e senza ritenute, s'allontanavano dal bordo."
"Svegliato dall'esplosione, - riferisce a sua volta il sottocapo cannoniere 99 - corsi subito vicino al pezzo, ma non vidi nulla.  Dopo un po' scesi dalla tuga per cercare il capo timoniere ed il Comandante.  Trovato il capo timoniere, andai con lui ad aiutare a mettere le zattere in mare.  
Mentre facevo questa operazione, ho udito il primo colpo di cannone e visto il sommergibile al traverso a sinistra.  Corsi subito a poppa, ma fui fermato dai Greci che non volevano si sparasse, temendo che il sommergibile, per rappresaglia, sparasse sulla gente a mare...
...Prima di buttarmi a mare - a bordo eravamo rimasti solo io e il sottocapo francese AUGER Renè - vidi i Greci che facevano segno al sottomarino con una camicia, affinché non sparasse più.  Mi precipitai addosso e strappai loro la camicia...
All'ultimo momento i Greci ammainarono pure la bandiera italiana".
"Restai a bordo fin quasi all'ultimo - ricorda VALENZO Pietro.  Vidi all'inizio del bombardamento che dei Greci facevano segnale al sommergibile gridando: "Costantino".
"Dopo una mezz'ora - racconta il marinaio cannoniere FAVAZZA Salvatore - il sommergibile emerse a circa 200 metri dalla poppa e cominciò a bombardare.  Due colpi raggiunsero il fumaiolo ed uno colpì in prossimità della stiva prodiera.  Durante il bombardamento (a base di granate incendiarie)  solo io rimasi in prossimità del cannone.  Poco dopo, però, me ne andai per mettermi al riparo.  Il sottomarino, allora, si affiancò a dieci o quindici metri di distanza e mi si domandò in buon italiano dov'era il Comandante.  Gli risposi che non c'era..."
"Nel frattempo il sommergibile si era avvicinato al Piroscafo e aveva sbarcato il radiotelegrafista dell'IMERA su una zattera - riferisce il 2° Ufficiale -.  
Tirò una cannonata sulla prua del Piroscafo al galleggiamento determinando l'affondamento".
Colpito a morte, senza preavviso, da quindici granate incendiarie, l'ultima delle quali  al bagnasciuga, tutte sparate tranne l'ultima, mentre la gente era ancora a bordo e cercava in tutti i modi e con tutti i mezzi di convincere gli artiglieri di bordo a non sparare contro il sommergibile e, alzando bandiera bianca e ammainando la bandiera italiana, quelli del sommergibile a non sparare sui passeggeri ancora presenti sulla nave, il "Città di Bari", lentamente affondò in fiamme - "...endlich sank das schiff in flammen".
Trascinando con sé, in fondo al mare, a 39° 20' Lat.N., 19° 23' Long.E. - rotta 107° magnetico da un punto 15 miglia a sud di S.Maria di Leuca  - al largo dell'isoletta di Paxòs o Paxì, a sud di Corfù, nel mentre in cielo e sul mare già albeggiava e si scatenava un furioso temporale che durò tutta la notte.
Sfasciate le imbarcazioni per l'imperizia dei Greci che se n'erano impadroniti e che pagarono con la vita l'atto precipitoso, le zattere di bordo raccolsero i rimanenti passeggeri e affrontarono il viaggio della salvezza, che per i più non giunse mai.
Ma, quasi a rendere più intricata  e drammatica la fase finale di questa angosciosa vicenda, ecco, fosco ed oscuro, il dramma personale del coraggioso sfortunato Capitano: non é presente fisicamente, come noi ci aspetteremmo, alla morte della sua nave.
Eppure, subito dopo l'esplosione del secondo siluro, molti lo hanno visto, lo hanno notato, mentre...
...si precipitava fuori (della cabina di comando) gridando: "Salvagenti a posto"! - deposizione del secondo ufficiale -;
...cercava di organizzare il salvataggio e infondere un po' di calma" - (direttore di macchina) - ;
...sulla dritta cercava di ottenere un po' di calma per effettuare ordinatamente il salvataggio..., ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei greci – 
...diceva all'artigliere: "Sono Capitano e la mia nave è stata già silurata. Non faccia fuoco, altrimenti sparano contro le zattere!"  - (primo timoniere) -;...
...vedendo la nave sbandare a dritta in modo che giudicò pericoloso, ordinava: "Gente in riga e zattere e lance a mare!" - (primo ufficiale) -;...
Dopo tutto questo, il Capitano non si vede più, esce di scena, scomparendo proprio mentre ci si aspettava di vederlo, nel solco della tradizione marinara, fermo al suo posto di comando, andare coraggiosamente a fondo e morire insieme con la sua nave.
Secondo un testimone oculare, egli si gettò a mare.  Infatti, il primo cameriere testimoniò: "Mi gettai a mare dopo il Comandante dal boccaporto n.2".
Allora, gettatosi a mare, è per caso affogato? o, piuttosto, è sembrato gettarsi a mare, mentre, invece, vi cadeva accidentalmente probabilmente ferito a morte da..."quel colpo di rivoltella sparatogli contro dal basso da uno sconosciuto?", come racconta nella sua deposizione il 2° Capo timoniere?.
Non lo sapeva chi gli stava dattorno, non lo sappiamo nemmeno noi.
Se, però, dobbiamo dar credito alla fonte austriaca, il capitano Castellano sarebbe morto di morte violenta, ucciso, con altri, durante la sommossa scoppiata a bordo del piroscafo in seguito alle prime cannonate sparate dal sommergibile.
Vera o falsa, questa versione, verosimili o inventati questi particolari, il mistero resta e ci è difficile svelarlo.
Quando, verso le ore 5.30 del mattino, la luce del giorno scese a illuminare questa parte del Mar Jonio, sulla scena del disastro non c'era più nulla ormai: non la snella mole della bella nave barese, sprofondata con tutto il suo carico negli abissi;  non la sagoma scura del sommergibile tedesco, apparentemente assente, ma, di fatto, aggirantesi ancora minaccioso in quei paraggi;  non le scialuppe di salvataggio, che, pur stracariche di naufraghi, vagavano sempre più lontane, alla deriva, facile preda delle onde, delle correnti e della forza dei venti.
"Nelle zattere si trovarono mescolati italiani e greci, che, numerosi, usarono soprusi e violenze, pestando coi piedi e ferendo di coltello e rasoio i nostri connazionali ed altri che si affollavano intorno alle già gremite imbarcazioni."
Dura, lunga e faticosa fu la lotta dei naufraghi in una situazione oltremodo loro avversa, folle e vana la speranza di veder arrivare da un momento all'altro il soccorso liberatore: Corfù non sapeva; Taranto nemmeno.  Finché, poi, qualcuno non darà l'allarme.
Nella notte, ad appena poche ore dall'affondamento, qualcuna delle zattere giunse anche a vedere in lontananza la terra della salvezza, ..."ma il forte mare ci impedì assolutamente di avvicinarci a Fano, racconta un sopravvissuto.
Nessun mezzo di soccorso videro i naufraghi durante tutto il giorno 6.
"Verso il mezzogiorno del 7 - appena due ore prima che fossero scoperti e tratti in salvo - calmatosi ormai il mare, abbiamo visto una leggera imbarcazione, una specie di caicco, contenente un greco. Un greco che era con noi allora abbandonò la nostra zattera e andò a parlare con quello.  Ritornò poco dopo dicendo che quella imbarcazione non poteva salvarci ”.
“ Verso le prime ore del pomeriggio (del 7) apparve l'ESPERO ”.
“ Potevano essere le 2.00 del pomeriggio, allorché avvistammo un caccia ed un rimorchiatore"...credo che la nostra zattera sia stata l’ultima ad essere recuperata dall'ESPERO ”.
“ Alle 01.30 del giorno 7 - racconta il Comandante della Settima Squadriglia - ricevetti a Taranto un fonogramma che mi ordinava di accendere i fuochi per eseguire una missione.
Ricevetti solo verso le 3.00 le istruzioni scritte che dicevano: 
di percorrere la rotta del Città di Bari che non era ancora giunto a Corfù.  Dovevo continuare le ricerche fino al tramonto e passare la notte a Gallipoli.
Partii alle 3.30 da Taranto con una velocità di 20 miglia e seguii la rotta ordinatami... Avvistai la prima zattera verso le 2.05 / 2.10 del pomeriggio.
Questa conteneva tre o quattro uomini tra cui il 2° Ufficiale... Siccome sapevo che pure alla ricerca dei naufraghi si trovavano i C.T. "Pilo" e "Bronzetti", feci loro un radiotelegramma, comunicandogli le coordinate geografiche del luogo ove mi trovavo.  Infatti, dopo appena un quarto d'ora, essi arrivarono.  Vennero altri due idrovolanti francesi che indicavano la posizione delle zattere.  Continuai il salvataggio sino alle 16.45, raccogliendo ben 98 persone.  Tra i salvati ve n'erano 97 della Città di Bari e uno R.T. dell' "IMERA".  Avendo visto che vi erano dei feriti da coltello, ordinai il disarmo generale.  Un greco, DEMETRE PRIFTIS, consegnò un rasoio insanguinato.  A Gallipoli tutti i naufraghi ebbero assistenza."
A loro volta, il "Pilo" e il "Bronzetti", ne recuperarono altri 58 che provvidero a trasportare all'ospedale di Corfù.  
"Di 493 persone che erano a bordo al momento della partenza da Gallipoli, - conclude malinconicamente nella sua relazione il Comandante della Divisione Base di Taranto - solo 156 si erano salvate e pure é certo che lo scoppio non può aver ucciso che, al massimo, una diecina di persone e che qualche altro può aver trovato la morte per aver battuto qualche forte colpo nel gettarsi in mare, forse tra questi ultimi il Capitano del piroscafo, del quale non si riuscì ad avere alcuna notizia dopo l’affondamento."

EPILOGO

Dunque, terminate le operazioni di ricerca e fatta  la conta dei superstiti, all'appello risposero soltanto 156 persone - (160, secondo la fonte austriaca).
E le altre 337 o 368 o 560, o forse più? (se dobbiamo credere alla predetta fonte straniera).
Disperse. Morte.  Tutte morte.  Tutte finite in fondo al mare. Precipitatevi non dalla nave che le trasportava, ma dalle scialuppe di salvataggio, in cui erano riuscite, bene o male, a trovar posto, prima che il “ Città di Bari ” affondasse.  Precipitatevi da sole. Lasciatevisi andare così, con semplicità, quasi con un dolce senso di abbandono e di rassegnazione nel proprio destino. Uccise dagli stenti, dal maltempo, dalla violenza di prepotenti compagni di viaggio, dagli scoraggiamenti, dalla lunga attesa e permanenza in mare - durata, è incredibile, un giorno e mezzo! - Ce ne parlano diffusamente, nelle loro deposizioni, i pochi fortunati superstiti. Basti leggere, come ha fatto l’orfano che scrive, - “ un groppo alla gola, l’occhio inumidito dal pianto, il cuore in subbuglio ” - gli scioccanti racconti che i dichiaranti fanno alle autorità giudiziarie.
Vi trovi tutto: la fatalità, la casualità, la logica della guerra, l'imprevedibilità e l'inevitabilità degli eventi; l'impotenza dell’uomo nella lotta contro le forze della natura; l'insano egoismo che sempre alberga nell’animo umano, nella buona come nella cattiva sorte: l’assenza, o la mancanza di spirito di solidarietà; ma anche, e soprattutto: l’incomprensione ed il malinteso;
la leggerezza; l’indifferenza; l’apatia; la negligenza “ nell’adempimento dei doveri del proprio ufficio ”; l’inettitudine di alcuni comandanti.
Doveri, che, se fossero stati compiutamente ed opportunamente osservati e responsabilmente adempiuti, avrebbero potuto almeno contenere, voglio dire, limitare, se non proprio ridurre al minimo, le proporzioni di una "catastrofe annunciata" sin dalla partenza della nave da Gallipoli, e che, invece, omessi e inosservati, furono la causa scatenante della morte di un si alto numero di persone.
Oltre 400 certamente. Forse 500. Forse anche di più.
Un vero disastro. Non delle stesse proporzioni di quello lamentato nell’affondamento del “TITANIC”(1912), - ricordate? - ma pur sempre grande, enorme, terrificante, impressionante, raccapricciante, certamente di origine colposa. E di scalpore e di impressione ne fece tanta il malaugurato evento che ne rimasero giustamente preoccupati politici e militari, considerato anche e soprattutto, il grave momento in cui esso avveniva - si era, infatti, in un mese “ caldissimo ” della guerra in atto: nel fatale ottobre ‘17 -. E, per far piena luce e chiarezza sulla triste vicenda e tacitare le coscienze turbate, usando prudenza, cautela e circospezione, il Ministero della Marina, aprì in tutta fretta un’ampia inchiesta: furono sentiti, in primo luogo i sopravvissuti (italiani e stranieri): i membri dell’equipaggio, gli artiglieri, i radiotelegrafisti, i passeggeri imbarcati, tutti i veri protagonisti insomma della vicenda. Furono ascoltati inoltre, come parte in causa, indiziati di reato, il Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Taranto, il Comandante in Capo dell’Armata R.N. “Trinacria”, il Comandante della Divisione Base di Taranto, il Comandante della Divisione Navale dello Jonio R.N. “Città di Catania”, il Comandante di Spiaggia di Gallipoli, il Commissario militare del piroscafo “Città di Bari”, dei quali taccio - per carità di Patria - nomi e cognomi.
E, dopo due mesi circa di minuziose indagini, acclarata ogni cosa e individuati i veri responsabili del disastro, il Tribunale Militare emanò la sua sentenza: inflisse le pene che ciascuno si meritava, ma con mitezza, senza infierire contro nessuno. Le sanzioni e i provvedimenti presi restarono però nel chiuso degli uffici, ammantati di riservatezza, mai svelati. Solo pochi conobbero le conclusioni della Giustizia. Esse non furono mai rese pubbliche “per l’impressione” si disse.  
Come non venne mai reso pubblico il numero preciso delle persone scomparse, tutte insieme, in uno stretto braccio di mare:

morte,
a due passi dalla salvezza, pensate!
Sotto i nostri stessi occhi.
Con la nostra stessa complicità.
Come non pensare che essi, i morti, tutti quei morti, pesino, ancora oggi, sulla comune coscienza?
Le colpe, le responsabilità, stavano là e parlavano da sole e chiedevano giustizia, non vendetta, ma neppure dimenticanza.
Giunse sì la giustizia, e anche presto; arrivarono le conclusioni del Tribunale, puntuali, rapide, immediate, ma non proprio riparatrici, accompagnate, vorremmo dire, da giusto rigore morale e giuridico.  
Sapevano troppo di affrettato, di condizionato, da interesse superiore, di ovattato, forse di vergognoso, da nascondere, da rinchiudere, da confinare al più presto, a doppia mandata, in fondo ai ferrei cassetti degli archivi di Stato, insieme con la verità.
E le lacrime non furono mai asciugate!
Sicché, una tragedia sì grande e sì grave, lentamente, fatalmente, scivolò nel dimenticatoio.
Quell’ «orfano», intanto, piange ancora! 
Che tristezza!

Prof. Giovanni Vernì,  Aprile ’97 - Novembre ‘99

BIOGRAFIA del prof. Giovanni Vernì, orfano di guerra, mio padre:

Da Pasquale (Pasqualino), agricoltore, e da Lucia GUGLIELMI, casalinga, è nato a Sannicandro di Bari il 16 gennaio 1916; è tornato alla casa del padre il 4 gennaio 2014.
“Orfano” sin dalla prima infanzia del padre, andato disperso nello Jonio in seguito al siluramento del piroscafo “Città di Bari”, ha compiuto gli studi ginnasiali e liceali presso la Scuola privata di don Ciccio Saliani (a Sannicandro), il “Cirillo” e il “Flacco” a Bari e il “Rinascimento” ad Asti.
Iscritto alla facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università Statale “Federico II” di Napoli, vi si è laureato in Lettere il 9 giugno del 1941, discutendo con l’esimio prof. Giuseppe Toffanin la seguente tesi: “La Letteratura Italiana a Napoli nel decennio 1820-1830 attraverso il Giornale delle Due Sicilie”.
Chiamato alle armi, quale “volontario universitario”, ha prestato servizio militare militando, dopo la frequenza del corso allievi ufficiali per la nomina a sergente, dal luglio 1941 al gennaio 1944, data del suo collocamento in congedo per particolari ragioni di famiglia, nella 3ª Compagnia telegrafisti in approntamento per il fronte russo al seguito della Divisione Alpina “JULIA”, nel Comando della IIª Armata – Intendenza – P.M. 10 (Croazia), nella 91ª Compagnia Telegrafisti da inviare al Fronte di Cassino al seguito della V Armata americana.
Per la sua partecipazione alla Guerra ’40-’45 è stato insignito di “doppia croce al Merito di Guerra”.
Con i professori Squicciarini e Losurdo (Jun.) ha partecipato alla istituzione in Sannicandro di Bari di una Sezione staccata di Scuola Media Statale, divenendone al momento della sua erezione in Scuola Autonoma  suo primo preside effettivo (a.s. 1953 – 1954), titolare di lettere del corso A, per tutta la durata del servizio prestatovi, ininterrottamente dal 1944 al 1976, anno del suo volontario collocamento in pensione.
Per quasi tutto il mese di ottobre del ’46 il nostro è stato altresì incaricato provveditoriale dell’insegnamento di materie letterarie nella 4ª ginnasiale di un istituendo “Ginnasio sannicandrese” quale sezione staccata del barese “Q. O. Flacco”.
Di idee politiche moderate, ma non di appartenenze partitiche, ha preso una sol volta parte alle competizioni elettorali nelle Amministrative del 1956 con la lista de “IL CASTELLO”, uscendone eletto consigliere di minoranza.
Sposato dal 1947 con Rachele Stangarone, è padre di quattro figli: Lucianna, Pasquale, Nico e Angela; nonno di sette nipoti: Rachele, Giovanni e Matteo (di Pasquale), Giovanni  e Francesco (di Nico), e Giovanni e Federica Carmen (di Angela).

Pubblicazioni che ha scritto:
  • “LA NOTTE DEL BOMBARDAMENTO” - DISCORSO COMMEMORATIVO - opuscoletto - 1993;
  • “25-26 giugno ’43: ERRORE O CALCOLO? ” - STUDIO E RICERCA STORICA – Solazzo ed. Cassano M. 1999 – p.;
  • “MEDAGLIONI ” - UOMINI E FATTI DI CASA NOSTRA. SCRITTI DI VARIA UMANITÀ – 2001;
  • “UNA TRAGEDIA SCONOSCIUTA : 6 ottobre 1917” - RACCONTO STORICO – 2001;
  • “FRATEL OLIVO“: NEL CAMMINO DELL’UOMO - DALLA CREAZIONE AD OGGI – ISTANTANEE – 2006;
  • “LA PAURA” – CHE RIMASE PER SEMPRE NELL’ANIMO DI UN POPOLO – SAGGIO INTROSPETTIVO  (giugno 2007);
  • “PERLE E DIAMANTI” LESSICALI DI ANTICA PARLATA ÀPULA – STUDIO E RICERCA TRA STORIA E GLOTTOLOGIA  (marzo 2008);
  • “IL VIAGGIO DELLA MENTE” ALLE FONTI DEL SAPERE - ALLA RICERCA DELLA VERITÀ - CAUSA E FINE – ANALISI E SINTESI – PROVE E TESTIMONIANZE – COMPENDIO DI STORIA RETROSPETTIVA (2010);
  • “IL GENERALE MAFFEI  TRA STORIA E MITO”  - SAGGIO CRITICO - BIOGRAFICO (2011).


















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