martedì 17 marzo 2020

L’ITALIA E IL NUCLEARE MILITARE: dal primo dopoguerra ai giorni nostri


PREMESSA

La Sovranità nazionale, soprattutto ai tempi d’oggi, è sempre più centrale nel pensiero politico di chi decide. Gli eventi che si susseguirono al termine del Secondo Conflitto Mondiale, paradossalmente, ci confermano che la sovranità italiana fu molto più effettiva all’uscita dall’ultimo conflitto mondiale, quando giocoforza sui banchi del governo sedeva un’élite politica che era stata comunque sempre propensa alla Sovranità. 
Negli anni cinquanta, l’Italia di Scelba, Segni e Fanfani, anche se in parte ancora in macerie, sedeva alla pari di Francia e Germania (altrettanto in macerie) al tavolo per la creazione della CECA; infatti le veniva affidata dal consesso internazionale, nonostante la guerra perduta, l’amministrazione fiduciaria della Somalia, e cominciava a muovere i primi passi per una difesa comune Europea. Nei primi anni del dopoguerra, il conflitto atomico sembrava un evento lontano, e le chiavi del nucleare erano nelle mani degli Stati Uniti, che stavano contribuendo a ricostruire senza indugi la penisola. 
Al termine del secondo conflitto mondiale l'Italia, visto il quadro geopolitico, attuò una strategia basata sul multilateralismo, principalmente tramite una stretta collaborazione con gli Stati Uniti, con l'adesione alla NATO e con una maggiore integrazione a livello europeo.
In base alla politica della condivisione nucleare, l'Italia iniziò a custodire armi nucleari statunitensi. Le prime furono l'MGR-1 Honest John e l'MGM-5 Corporal, nel 1957, seguiti successivamente dal MIM-14 Nike Hercules, un missile terra-aria. Tuttavia questi sistemi erano sotto il totale controllo degli USA, motivo per cui l'Italia proseguì il dialogo con le altre nazioni europee riguardo ad un programma nucleare collaborativo. Furono avviate le trattative per un deterrente nucleare congiunto con Francia e Germania, limitate però dalla volontà di Charles de Gaulle di un deterrente esclusivamente francese.
Un'ulteriore impulso fu fornito il 23 dicembre 1958 dalla decisione della Svizzera di dare inizio ad un proprio programma nucleare. Dopo diverse pressioni sugli Stati Uniti, il 26 marzo 1959 fu stipulato un accordo con il quale l'Aeronautica militare ricevette 30 missili PGM-19 Jupiter, operanti presso l'aeroporto di Gioia del Colle. I primi missili giunsero il 1º aprile 1960. Questi nuovi missili, gestiti dalla neonata 36ª Aerobrigata, erano destinati ad essere utilizzati "per l'esecuzione dei piani e delle politiche della NATO in tempo di pace come in guerra”.

I PIANI NUCLEARI DELLA JUGOSLAVIA DI TITO

Il servizio segreto italiano militare vanta notoriamente una storia centenaria: fu quasi sempre all'altezza dei suoi compiti, riuscendo a scoprire non poche volte le spie sovietiche in Italia. Il SID (questo il suo nome nei primi anni '70) aveva all’epoca scoperto che Tito, dopo aver firmato e ratificato il TNP, proseguiva indisturbato, sia pure in maniera più discreta, il suo programma di sviluppo nucleare militare. L'Italia reagì insabbiando in parlamento la ratifica del TNP, e rilanciando in grande stile sul piano militare. Il tutto, ovviamente, tenendo lontano l'occhio indiscreto dei mass-media.
Nel 1971 nasce quindi il progetto ALFA che aveva in progetto la realizzazione di un missile balistico IRBM dalle prestazioni paragonabili a quelle dei Polaris dell’Us Navy, che una decina d'anni prima gli USA si erano rifiutati di venderci. La portata di tale missile era di circa 1.600 Km. Questo vuol dire che ponendo una nave equipaggiata con tali ordigni nell'Adriatico, bastava premere un bottone per colpire la capitale di qualunque paese (URSS esclusa) dell'est Europa!
Lo sviluppo di tale missile proseguì a gonfie vele e si giunse alla sperimentazione finale nella metà degli anni '70. Tre i lanci di prova, tutti ovviamente con carica inerte nella testata, e tre furono i successi! A questo punto, una volta in possesso di armi nucleari, a parte l’URSS, nessun paese avrebbe potuto minacciarci.
Ovviamente a questo punto si fecero molto forti le pressioni internazionali affinché l'Italia abbandonasse lo sviluppo di tali armamenti: per l'URSS fu relativamente facile convincere Tito che la prosecuzione del suo programma nucleare sarebbe stato controproducente per la Jugoslavia, perché avrebbe determinato la nascita in Italia di un ben più temibile armamento.
Nel 1975 finalmente il nostro parlamento ratificò il TNP, ed il programma di ricerca sul nucleare militare si fermò. Anche lo sviluppo del missile Alfa fu abbandonato, non prima, però, di aver effettuato alcuni lanci di prova tra la fine del 1975 e l'inizio del 1976, quasi a voler far capire alla Jugoslavia che l'arma era pronta ed in caso di necessità bisognava solo costruirla in grande serie e riprendere il programma di ricerca nucleare.

L’ENTRATA NEL CLUB NUCLEARE DELL’UNIONE SOVIETICA

La situazione mutò radicalmente nel 1949, quando il programma nucleare sovietico giunse a compimento con il test che vide la prima bomba atomica sovietica esplodere. Due anni dopo i sovietici testarono con successo la prima bomba a fissione di uranio e nell’agosto del 1953 la prima bomba all’idrogeno.
Era, di fatto, la prima potenza europea a dotarsi di ordigni nucleari ed entrava prepotentemente in gioco in Europa e nel mondo portando la minaccia dell’olocausto radioattivo nel cuore del continente. 

IL PROGRAMMA BRITANNICO ED I PRIMI PROGETTI FRANCESI

La Gran Bretagna cominciò a lavorare ad un progetto autonomo già dal 1955, mentre la Francia optò invece per una scelta condivisa coi suoi partner europei. La Francia del presidente René Coty optò per una scelta che fece ampiamente discutere: individuò infatti, come partner del progetto, le due nazioni europee sconfitte nell’ultima guerra: l’Italia e la Germania Ovest. 
I colloqui procedettero serrati tra i rispettivi ministri della difesa avevano l’obbiettivo di creare una forza di deterrenza nucleare, in funzione anti-comunista, a gestione condivisa tra i tre principali paesi dell’Europa Occidentale. In virtù delle diverse capacità economiche dei tre paesi, i costi vennero ripartiti al 90% tra Francia e Germania e il 10% delle spese sarebbero gravate sulla Repubblica Italiana. Nel 1957 venne firmato il primo protocollo d’intesa tra i tre paesi, mentre come impianto per la produzione degli ordigni viene designato quello di Pierrelatte, nel dipartimento di Rhône-Alpes. Con la vittoria alle elezioni francesi del generale De Gaulle il progetto però subì una immediata battuta d’arresto. Il generale, era allergico a qualunque collaborazione con gli stati confinanti; cancellò il progetto, decidendo la creazione di un programma nucleare militare autonomo esclusivamente francese.  La Germania, priva di forza diplomatica sufficiente a perseguire un programma autonomo, dovette così abbandonare il progetto, affidandosi esclusivamente alla deterrenza statunitense, e lo stesso fece l’Italia, non accantonando però l’idea di un futuro programma nucleare militare qualora le circostanze lo avessero richiesto. 

I MISSILI NUCLEARI “JUPITER” IN ITALIA

Il governo italiano di Amintore Fanfani, dopo serrati colloqui con il presidente statunitense Eisenhower, raggiunse un accordo di massima per una “gestione condivisa” di trenta missili americani PGM-19 Jupiter, stanziati presso alcune basi aeree pugliesi affidate alla 36°Aerobrigata dell’Aeronautica Militare Italiana di Gioia del Colle (BA). Tali missili erano armati di testate nucleari e avrebbero potuto essere usati esclusivamente su mandato NATO. Il controllo italiano su queste testate era molto relativo, e difficilmente potevano essere chiamate “bombe atomiche italiane”. Il contestuale avvio del programma nucleare svizzero, e le notizie sull’analogo programma jugoslavo, confermarono la necessità per l’Italia di una forza di deterrenza totalmente in mano italiana. Per evidenti motivi strategici, la Marina Militare fu scelta come destinataria della nuova strategia nucleare della Penisola. 
L’Italia cominciò dunque la conversione sperimentale dell’incrociatore Giuseppe Garibaldi in incrociatore-lanciamissili, equipaggiato sulla tuga poppiera con quattro silos di progettazione italiana per missili tipo Polaris, in grado di trasportare testate nucleari con una gittata di circa 4000 chilometri. Stesso equipaggiamento era previsto a centro nave per il nuovissimo incrociatore lanciamissili Vittorio Veneto, allora ancora fase di progettazione. Gli Stati Uniti, tuttavia, dopo la crisi di Cuba (che vide anche il ritiro dei missili Jupiter) decisero di rinunciare alla loro collaborazione al progetto, ed i vettori Polaris non vennero mai consegnati al nostro Paese.

IL MISSILE I.R.B.M. ITALIANO Aeritalia-SNIA BPD “ALFA-1”

La riluttanza americana a supportare un programma nucleare italiano convinse il nostro governo a dotarsi di un progetto nucleare totalmente nazionale, soprattutto in vista del minaccioso programma analogo voluto da Tito,  che stava proseguendo nel reattore militare jugoslavo di Vinca. I progetti per un programma nucleare “autarchico” uscirono dalla fase di studio nel 1964, quando il generale dell’Aeronautica Moci, in collaborazione con l’allora Capo di Stato Maggiore Rossi, avviò una serie di colloqui con l’ingegner Luigi Broglio, padre dell’astronautica italiana, che all’epoca era alle battute finali del progetto dei primi satelliti civili italiani serie “San Marco”.
Broglio, Moci e Rossi concordarono sulla necessità di realizzare un missile “a gittata intermedia”, con una gittata di circa 1600 chilometri, in grado di trasportare testate nucleari di circa una tonnellata di peso. 
Nel 1971 la Marina italiana diede inizio ad un intraprendente e avanzatissimo programma di sviluppo per un missile balistico IRBM denominato "Alfa-1". Ufficialmente il progetto fu definito come un tentativo di sviluppo di razzi a propellente solido per scopi civili e militari. Fu progettato come razzo a due stadi e poteva essere trasportato su navi di superficie (GARIBALDI e VITTORIO VENETO) o sottomarini. I test di lancio con un mockup ebbero luogo tra il 1973 e il 1975, dal poligono di Salto di Quirra. L'Alfa era lungo 6,5 metri e aveva un diametro di 1,37 metri. Il primo stadio era lungo 3,85 metri e conteneva 6 tonnellate di combustibile solido per missili. Forniva una spinta pari a 232 kN per una durata di 57 secondi. Avrebbe potuto trasportare una testata da una tonnellata per 1600 chilometri, ponendo Mosca e la Russia nel raggio d'azione del mar Adriatico.
I costi elevati (oltre 6 miliardi di lire dell'epoca) e il clima politico instabile comportarono l'abbandono del progetto. In aggiunta a questi fattori il crescente rischio di un'escalation nucleare anche al di fuori dell'Europa e la pressione interna giocarono il loro ruolo nell'abbandono da parte dell'Italia del proprio programma nucleare, anche in seguito alle pressioni degli Stati Uniti, e portarono il paese a ratificare il Trattato di non proliferazione nucleare, il 2 maggio 1975.
Il patrimonio tecnologico del programma Alfa confluì nei successivi lanciatori spaziali italiani a propellente solido, tra cui il progetto Vega. In anni più recenti l'Italia, sotto l'egida dell'Agenzia spaziale europea, ha portato a termine il rientro e l'atterraggio di una capsula chiamata IXV.
La realizzazione del progetto, denominato Alfa-1, venne approvata dal Ministero della Difesa, che ne affidò la realizzazione alla Aeritalia di Torino ed alla SNIA-BPD di Colleferro per il propulsore. 
Il missile italiano era costituito da due stadi: 
  • alto circa sei metri e mezzo, 
  • con un diametro di 1,37 metri, 
  • Con un peso di dieci tonnellate (di cui uno di testata), 

ed era in grado di colpire tutte le capitali del Patto di Varsavia e la parte più occidentale dell’Unione Sovietica, oltre a coprire con il suo ombrello nucleare l’intero territorio della Jugoslavia, nonché, più tardi, la Libia del sempre minaccioso colonnello Gheddafi.
Giulio Andreotti, all’epoca alla sua prima esperienza di Presidenza del Consiglio, diede il suo assenso per la messa in produzione di cento missili Alfa-1. Già nel 1973 cominciarono i test del missile sprovvisto di carica nucleare. 
Il primo test fu coronato da successo nel poligono missilistico del Salto di Quirra (Nuoro) nel 1973, ed i test proseguirono in Sardegna fino al 1975. Nello stesso periodo, però, la Jugoslavia abbandonò definitivamente il proprio programma nucleare militare, mentre stessa cosa avvenne per il programma nucleare rumeno (unico tentativo di un paese del Patto di Varsavia di assicurarsi una deterrenza indipendente da quella dell’URSS). Il progressivo lievitare dei costi, giunti a già sei miliardi di lire, e la venuta meno delle minacce Jugoslave e Rumene, convinse il nostro governo a sospendere il progetto. Furono determinanti le pressioni degli Stati Uniti, con il presidente Gerald Ford che raccomandò caldamente all’Italia la firma del Trattato di Non-Proliferazione (TNP), già siglato dalla Jugoslavia. Gli Stati Uniti, in cambio, garantirono all’Italia la protezione totale con il loro arsenale nucleare conservato in alcune basi aeree italiane.

IL PROGETTO DI UNA TESTATA NUCLEARE ITALIANA

Progetti per lo sviluppo di un programma nucleare militare italiano furono elaborati da ambienti delle Forze armate italiane tra la fine degli anni 1960 e l'inizio degli anni 1970, in seguito al fallimento della proposta di istituire un programma condiviso con gli alleati della NATO, e inclusero anche la sperimentazione di un missile balistico; gli ambienti politici italiani furono tuttavia poco propensi a dare seguito a simili progetti, e nessun programma per l'assemblaggio di armi nucleari fu mai concretamente messo in atto. Ogni interesse italiano per lo sviluppo di un proprio deterrente nucleare nazionale cessò del tutto nel 1975, con l'adesione dell'Italia al Trattato di non proliferazione nucleare.
Attualmente l'Italia non produce né possiede armi nucleari ma partecipa al programma di "condivisione nucleare" della NATO.
Una bomba atomica italiana, potrebbe sembrare un tema da film, ma è una realtà storica. Come già detto, il governo italiano firmò, nel novembre 1957, con Francia e Germania, un accordo segreto per dotarsi di un deterrente nucleare comune, il rischio al momento sembrava quello di ritrovarsi circondati da potenze atomiche e ciò avrebbe indebolito il ruolo dell’Europa. Il panorama cambiò radicalmente con la vittoria alle elezioni francesi di De Gaulle che rigettò il progetto e decise di avviare il programma nucleare in autonomia. L’Italia, dopo il dietrofront francese, si ritrovò circondata da paesi che stavano sviluppando armi nucleari, infatti, oltre alla Francia, anche Yugoslavia e Romania stavano procedendo in quella direzione collaborando inoltre alla costruzione di un aereo che ne facesse da vettore. Anche la neutrale Svizzera il 23 dicembre 1958 decise di dotare le proprie forze armate di tecnologie nucleari.
L’Italia, nell’ambito della Nato, nel 1957 aveva iniziato i lavori all’incrociatore Giuseppe Garibaldi in modo che fosse in grado di trasportare quattro missili Polaris eseguendo poi con successo tutti i test con i simulacri ma i missili non arrivarono a causa di decisioni politiche. Inoltre, a partire dal 26 marzo 1959 grazie ad un accordo bilaterale tra Roma e Washington, venne costituita la 36° Aerobrigata Interdizione Strategica dell’Aeronautica Militare italiana dotata di missili Jupiter schierati tra Puglia e Basilicata. A causa delle conseguenze della Crisi dei Missili di Cuba il 5 gennaio 1963 gli Stati Uniti decisero di smantellare i missili Jupiter e di bloccare la vendita dei Polaris alla Marina Militare italiana. Date le condizioni il generale Moci chiese al Capo di Stato Maggiore della Difesa generale Rossi l’autorizzazione per sviluppare un deterrente nucleare nazionale; l’idea venne accolta ma il progetto doveva essere mantenuto nella totale segretezza. Per fare ciò si chiese aiuto al professor Broglio, all’epoca miglior esperto italiano nel settore missilistico, per sviluppare un missile con un raggio d’azione di 3000 km in grado di coprire tutta l’Europa ed il Nord Africa ad un costo contenuto: 100 missili sarebbero costati circa 212 milioni di dollari dell’epoca.

IL TRATTATO DI NON PROLIFERAZIONE NUCLEARE DEL 1968

Nel 1968 la priorità degli USA era quella di limitare la proliferazione nucleare arrivando al 1 luglio dello stesso anno alla firma del Trattato di Non Proliferazione Nucleare assieme a Regno Unito e Unione Sovietica. I paesi confinanti con l’Italia non lo firmarono subito: la Svizzera l’anno seguente mentre Romania e Yugoslavia solo nel 1970. 
Secondo i nostri servizi segreti, Belgrado non aveva smesso di sviluppare armi nucleari presso l’istituto di Vinca portando l’Italia a proseguire i suoi studi.  
Come già detto, nel 1971 la Marina Militare iniziò a livello interforze lo studio di un missile balistico a medio raggio da utilizzare sia su unità di superficie che sottomarine da cui nacque il missile Alfa: i test si conclusero nel 1976 a seguito della firma italiana l’anno precedente al trattato TNP, le esperienze fatte con questo sistema vennero utilizzate in campo spaziale arrivando all’attuale progetto Vega.
I sogni di un’atomica italiana così scomparvero, ma solo in parte. Ancora oggi nel nostro paese sono presenti circa una settantina di bombe B 61 statunitensi in condivisione con l’Aeronautica Militare secondo i programmi NATO.




LA COLLABORAZIONE NUCLEARE ITALIA-FRANCIA

L’ambasciatore Pietro Quaroni nel 1971 per primo riferì dell’esistenza di un accordo segreto del novembre 1957 fra l’Italia, Francia e Germania, per la costituzione di un comune deterrente nucleare. Per molto tempo, il contenuto e il significato di questo accordo rimasero segreti.
L’accordo faceva parte dei negoziati paralleli per l’EURATOM che avevano avuto luogo a Bruxelles tra il 1955 ed il 1956. La Francia, la Germania e l’Italia ritenevano che l’unità politica dell’Europa non potesse prescindere da un’integrazione completa, civile e militare, anche nel campo nucleare. In quei concitati mesi ci si accorse però che l’Euratom, dapprima considerato il trattato più importante, era progressivamente svuotato, tanto più dopo la crisi di Suez, che imprimeva rinnovata forza al progetto di trattato gemello, istituente la Comunità economica europea, detta anche mercato comune.
Secondo gli europeisti francesi ed europei, nell’Euratom avrebbero dovuto concentrarsi tutte le iniziative nucleari dei paesi membri. La Comunità europea dell’energia atomica avrebbe dovuto avere la proprietà di tutti i centri comuni di ricerca nucleare e di tutti i combustibili nucleari civili e militari.
In realtà, i centri nazionali dei sei paesi membri continuarono ad esistere e a svilupparsi. L’Italia cedette all’Euratom l’unico suo centro nucleare esistente agli inizi degli anni Cinquanta, quello di Ispra sul Lago Maggiore. Contemporaneamente, però, ne sviluppò una mezza dozzina nei pressi di Roma e altrove.

LA FORZA MULTILATERALE “MLF” DELLA NATO

Oltre alla collaborazione militare con gli Stati Uniti, l'Italia sperimentò la collaborazione con la Forza Multilaterale (MLF) della NATO, con lo scopo principale di sviluppare una forza nucleare europea. La forza “MLF” era un progetto degli Stati Uniti per porre sotto controllo congiunto con i paesi europei tutte le armi nucleari non controllate direttamente dai propri enti. Per gli americani, la MLF doveva servire a soddisfare il desiderio delle altre nazioni di giocare un ruolo nella deterrenza nucleare, con il conseguente posizionamento di tutti i potenziali arsenali nucleari occidentali sotto l'egida della NATO. 
Il pensiero dominante in Italia aveva a lungo ritenuto la cooperazione nucleare e il governo italiano aveva cercato di persuadere i suoi alleati a rimuovere le ingiustificate restrizioni riguardo l'accesso alle nuove armi dei paesi NATO.  Questa politica fu perseguita dalle amministrazioni Kennedy e Johnson e costituì argomento di discussione dell'accordo di Nassau, tra gli Stati Uniti e il Regno Unito, e dei negoziati per l'ingresso del Regno Unito nella Comunità Economica Europea (CEE) nel 1961.
All'interno della MLF, gli Stati Uniti proposero che vari paesi della NATO gestissero l’IRBM UGM-27 Polaris utilizzando piattaforme marine di superficie o sottomarini nucleari. Tra il 1957 e il 1961, la Marina italiana dismise l’incrociatore Giuseppe Garibaldi e lo rimodernò integralmente in incrociatore lanciamissili, equipaggiandolo con cannoni, missili TERRIER e con quattro pozzi poppieri per missili Polaris. Poco tempo dopo, nel dicembre 1962, il Ministro della difesa Giulio Andreotti chiese ufficialmente assistenza agli Stati Uniti per lo sviluppo di propulsori nucleari per la flotta italiana.

IL PROGETTO DI DETERRENTE NUCLEARE NAZIONALE

In seguito al fallimento dell'ipotesi multilaterale, l'Italia cercò nuovamente di creare un proprio deterrente. L'industria nucleare italiana era ben sviluppata, con le tecnologie BWR, Magnox e PWR, nonché con il reattore di prova da 5 MW RTS-1 "Galileo Galilei" presso il CAMEN (Centro Applicazioni Militari Energia Nucleare). L’Aeronautica Militare Italiana disponeva dei velivoli Lockheed F-104 Starfighter che erano configurati per l'utilizzo di bombe nucleari tattiche e stava oramai sperimentando il Panavia Tornado, anche esso in grado di impiegare armi nucleari.
Nel marzo 1960 l'ammiraglio Pecori Geraldi dichiarò che una forza nucleare della marina sarebbe stata la più resistente a eventuali attacchi. La Marina aveva cercato in tutti i modi di guadagnare un ruolo importante nel programma nucleare e aveva acquisito esperienza con esito positivo attraverso i test dei missili Polaris del settembre 1962.
Giulio Andreotti era stato notoriamente uno dei registi dell’accordo segreto del 1972 con Washington; e restò sempre fermo sulle sue posizioni. Sul contenuto di quel protocollo segreto e del come era nato, il senatore a vita è sempre stato avaro di parole e non è mai andato oltre le generiche spiegazioni di esigenze di geopolitica. Comunque, dietro la storia della nascita della “Base nucleare di Santo Stefano” vi è una lunga storia tutta italiana nella quale non è secondaria l’ambizione delle alte gerarchie militari italiane di avere un programma nucleare. E’ notorio che fu lo stesso Giulio Andreotti a ufficializzare il progetto dei generali e degli ammiragli italiani, intervenendo al Senato nel 1959, quando era ministro della Difesa: in quell’occasione annunciò la costruzione di un sommergibile nucleare per il quale era già pronto il nome: il Guglielmo Marconi. Ne precisò perfino le caratteristiche e il costo pari a 30 miliardi di lire di allora. Una cifra davvero importante!
In quel momento storico vi era solo un problema da superare: convincere gli Stati Uniti a fornire l’uranio arricchito per il reattore nucleare. E’ storia che il 22 dicembre del 1962, in occasione del varo dell’incrociatore Duilio a Castellammare di Stabia, Andreotti disse: «Noi desideriamo portare avanti al più presto il progetto della costruzione di un sottomarino nucleare italiano che andrà incontro alle aspirazioni di fondo della nostra Marina e rappresenterà altresì un passo in avanti verso quel progetto tecnico a cui tutti dobbiamo cooperare».
Ma agli americani non favorirono più di tanto le ambizioni della Marina Militare italiana. Il primo risultato fu un cambiamento del “programma nucleare” italiano: Andreotti, il 18 settembre 1963, in Parlamento parlò dell’impegno «a realizzare un’unità di superficie a propulsione nucleare, primo passo verso la costruzione del sommergibile atomico, che resta l’obiettivo finale».
Il più fiero oppositore del programma nucleare “made in Italy” era l’ammiraglio Hyman Rickover, l’ideatore dei sommergibili atomici statunitensi. Nel 1964 Andreotti scrisse al Corriere della Sera che dall’originario progetto del sommergibile si era passati all’idea «di una nave civile-militare a propulsione nucleare che si sarebbe chiamata Enrico Fermi. Anche qui furono presentati i relativi dati tecnici. Di fatto, l’ammiraglio statunitense Rickover bocciò anche questa ipotesi. Gli italiani quindi si rivolsero ai francesi, con i quali dal 1961 esisteva un progetto di collaborazione per la produzione di uranio arricchito negli impianti di Pierrelatte. Ma gli americani ci misero lo zampino e non se ne fece niente. Nel 1966, l’allora ministro della Difesa Tremelloni cercò diplomaticamente di esaltare soprattutto gli aspetti civili della ricerca nucleare, ma Andreotti lo gelò: «Anche il cannocchiale di Galileo è nato da una commessa militare, ma l’umanità ne ha avuto benefici immensi». Il problema politico vero era dunque quello di convincere gli americani a togliere il veto. E’ in questo contesto che nacquero gli accordi per la concessione agli Usa della base della Maddalena. Quasi una sorta di “scambio” per ammorbidire certe posizioni di diffidenza. Niente da fare: gli americani in cambio passarono all’Italia alcuni sommergibili convenzionali ormai in odore di dismissione. Ironia della sorte: alla fine nei nostri mari navigano sommergibili nucleari. Ma hanno la bandiera a stelle e strisce e non il tricolore.

IL PROGETTO ITALIANO DEI SOTTOMARINI NUCLEARI CLASSE “MARCONI”

La classe di sottomarini nucleari “Marconi” della Marina Militare Italiana doveva essere composta da due unità sottomarine d’attacco:
  • la prima delle quali battezzata "Guglielmo Marconi”, 
  • la seconda "Enrico Toti", 

anche se il nome della seconda unità non era certo al 100%; le proposte alternative erano "Galileo Galilei", "Alessandro Volta", "Archimede", "Leonardo da Vinci" ed "Enrico Fermi", nome, quest'ultimo, proposto anche per un rifornitore di squadra a propulsione nucleare, tutte da costruire presso la Italcantieri (ora Fincantieri) alla fine degli anni cinquanta.
Con le esperienze fatte dagli USA con il sottomarino sperimentale "Albacore", fu messo a punto un progetto di S.S.N. che avrebbe dovuto chiamarsi "Guglielmo Marconi" a cui avrebbe dovuto far seguito un'unità gemella. Il battello era ispirato ampiamente all’SSN "Skipjack" dell’Us Navy e avrebbe dovuto avere un dislocamento sommerso di 3 400 tonnellate e una velocità di 30+ nodi.
Per la realizzazione del progetto era indispensabile la collaborazione degli Stati Uniti ma il successivo rifiuto da parte di questi ultimi di proseguire la collaborazione sulla base di una legge che vietava il trasferimento all'estero di conoscenze e tecnologie nucleari utilizzabili a fini militari e per altri impedimenti politici, causarono l'abbandono dell’interessantissimo progetto navale. (Tra i timori degli statunitensi vi era anche quello che della tecnologia strategica potesse finire nelle mani dell’URSS).
Di recente è stata divulgata una fotografia tratta dalla “Rassegna e Bollettino di Statistica del Comune di Taranto di Novembre-Dicembre 1957”, che testimonia l'avvenuta impostazione, il 16 giugno 1957, del primo anello di scafo del sommergibile "Guglielmo Marconi", presso i Cantieri Navali di Taranto, della costruzione n. 170.
Due anni dopo, nel mese di Luglio 1959, l’on.Giulio Andreotti - ministro della difesa pro-tempore - annunciò l'approvazione del governo per il progetto dell'S-521 “Guglielmo Marconi”, un sommergibile nucleare da attacco (SSN), privo di missili balistici IRBM: era evidentemente un primo passo per la successiva realizzazione di veri sottomarini nucleari lancia missili balistici SSBN. 
L’unità avrebbe dovuto essere spinta da un impianto nucleare ad acqua pressurizzata da 30 MW di potenza termica, derivato dal modello “S5W Westinghouse”, studiato ampiamente dal nostro CAMEN, che doveva alimentare due turbine ad alta e bassa pressione, accoppiate ad un riduttore. La potenza massima erogata sull'unico asse con elica a 5 pale era di 15.000 cavalli, cui doveva corrispondere una velocità massima continuativa di 30+ nodi.
La carena dell’unità logistica si presentava come un solido di riduzione (serie 58) le cui forme erano derivate dalle esperienze effettuate dall'US Navy con il battello sperimentale Albacore, e che permetteva lo sviluppo di elevate velocità in immersione. La manovrabilità sarebbe stata assicurata da superfici di governo poppiere cruciformi (timoni orizzontali e verticali), mentre i timoni orizzontali di prora erano posizionati sulla falsatorre allo scopo di migliorare le prestazioni di sensori elettroacustici.
Quattro paratie stagne delimitavano il locale siluri (6 tubi da 533 su due file orizzontali da 3 con 30 armi di riserva), il compartimento destinato al controllo dell'unità e ai locali di vita era su 4 livelli; il compartimento del reattore nucleare, il compartimento dell'impianto di distribuzione dell'energia elettrica e del sottostante gruppo diesel-generatore di emergenza; infine, il compartimento del gruppo propulsore ed i due gruppi turbo-alternatori con una potenza unitaria di 1.800 kW.
Come già detto, era prevista una spesa di 30 miliardi di lire del 1959, cifra che rendeva utopistico la prosecuzione del progetto, date le difficoltà di bilancio delle FFAA. Oltre a ciò mancò la disponibilità statunitense a fornire la necessaria assistenza tecnico-logistica. Il Marconi comunque non fu l'unico progetto relativo ad unità a propulsione nucleare, quanto piuttosto quello su cui si concentrarono maggiormente le attenzioni di detrattori e fautori di una marina militare di rango mondiale.
Il punto del progetto non andò oltre gli studi di massima.
Nel Luglio 1963 gli Stati Uniti rifiutarono di soddisfare le richieste italiane di fornire uranio ed assistenza tecnica per realizzare il sottomarino nucleare “Guglielmo Marconi” ed il progetto venne bloccato; fu invece impostato il programma per una nave da trasporto logistico intitolata al fisico italiano "Enrico Fermi”.

7 MARZO 1980: L’ULTIMA  BATTAGLIA  PER IL SOTTOMARINO ATOMICO

Un leggero vento di libeccio umido soffiava a raffiche sul litorale pisano. La spiaggia era deserta. Nubi minacciose si addensavano verso l'interno accavallandosi nel cielo grigio di quella mattina di marzo. Si era a poche settimane all'inizio della primavera e sembrava ancora pieno inverno.
Una strada priva di curve tagliava la fitta pineta e il vento la infilava come un canale e correva dritto fino a sbattere sui volti di due militari dell'Arma di guardia. La rete di recinzione era sormontata da filo spinato, tra pini secolari. All’interno del recinto sorgeva una piccola città di edifici a due o tre piani dalle linee pulite e razionali. Era il più grande centro di ricerca delle FF.AA. italiane. Sul piazzale dell'edificio della direzione erano parcheggiati ordinatamente quattro furgoncini verde militare e una Fiat 128 blu.
Dall’ingresso vetrato uscì un ufficiale che guardò distrattamente la sua auto, si sistemò il berretto fissando con occhi vuoti la fontana a pianta romboidale e, infine, s'incamminò lungo il viale alberato. Il vento e la pioggia bagnavano la targa di bronzo posta sulla parete. Uno scudo medioevale con al centro un atomo stilizzato e una corona con la scritta: Camen, Centro applicazioni militari energia nucleare. L'élite delle forze armate, in quell'epoca cupa in cui l'apocalisse nucleare sembrava imminente e l'Italia si trovava sulla linea del fronte, tra Nato e Patto di Varsavia. 
In quel centro di ricerca il simulatore di onda d'urto, un cannone lungo dieci metri con una bocca di settanta centimetri, testava su mezzi e materiali gli effetti di un'eventuale esplosione nucleare. Uno spiazzo, detto poligono, era attrezzato per simulare il fall-out radioattivo sui carri armati. Il laboratorio di radio-patologia compiva esperimenti su cavie e primati per valutare gli effetti sanitari di una guerra nucleare. Ma i sogni, o forse gli incubi, degli uomini del Camen erano molto più ambiziosi.
Nell'archivio del comandante, presidiato da due carabinieri con l'ordine di perquisire chiunque entrasse o uscisse, erano conservati i disegni e gli schemi definitivi del missile balistico IRBM Alfa-1, l'equivalente italiano del missile Polaris 1 dell’Us Navy. In uno schedario chiuso con doppie chiavi e protetto da sigilli c'era la ragione stessa della fondazione di quel centro alla fine degli anni Cinquanta, oltre vent'anni prima: il progetto dell’SSN S-521 "Guglielmo Marconi”: l'arma definitiva di quella strana guerra, mai dichiarata, tra blocchi contrapposti iniziata trent'anni prima. Qualunque cosa potesse succedere alla madrepatria, un sommergibile in immersione, armato di missili balistici a testata nucleare, sarebbe stato invulnerabile e in grado di scatenare la più spaventosa rappresaglia. «La costruzione del sommergibile atomico resta l'obiettivo finale a cui tutti dobbiamo cooperare» aveva dichiarato nel settembre del 1963 il ministro della Difesa Giulio Andreotti alla Camera dei deputati.
Il primo passo verso un SSN era quello di costruire un reattore, piccolo e semplice, perché non doveva certo illuminare una città. Avrebbe dovuto utilizzare uranio altamente arricchito, lo stesso usato per la fabbricazione delle testate. Un Rts-1 della statunitense Babcok&Wilcox. Ufficialmente un reattore di ricerca, non un propulsore per sommergibili, ma con le caratteristiche giuste per diventarlo, un giorno. Un reattore civile e quindi esportabile in Italia nello spirito della Conferenza di Ginevra del 1955. Per questo nel 1958 il ministero della Difesa lo aveva fatto acquistare dal Comitato nazionale per le ricerche nucleari. E per questo fu costruito in pochi mesi in quella bella pineta sul litorale pisano.
Il tozzo cilindro dell'edificio di contenimento spuntava appena sopra le cime dei pini. Sul fianco svettava il camino, l'unica uscita dell'aria contenuta all'interno. Tra le nubi si aprì un varco e il sole fioco illuminò la facciata a mattoncini blu del basamento quadrato. La pioggerella discontinua minacciava tempesta e bagnava la tesa del cappello e i fregi sulle spalline dell'ufficiale che camminava solitario lungo il viale. Un capitano di vascello era il più alto in grado del centro. I suoi predecessori erano stati tutti generali o ammiragli. Il personale aveva afferrato immediatamente il senso di quell'avvicendamento e non l'aveva presa bene. Le guardie sotto la tettoia d'ingresso scattarono sull'attenti quando lo videro attraversare il piazzale. L'ufficiale, scuro in volto, passò senza degnarli. All'interno si lasciò ispezionare con il contatore Geiger, le norme di sicurezza lo imponevano anche in entrata. Salì la scala metallica, attraversando i piani come i ponti di una nave fino al vestibolo del vano piscina. La porta si richiuse alle sue spalle e rimase per alcuni secondi nella camera di decompressione. Nelle orecchie sentì un lieve fastidio finché la porta successiva si aprì con un sibilo. La sala vasche gli ricordava la cupola di una cattedrale. Le pareti azzurre circolari, il tetto bombato e tutt'intorno il ballatoio del corridoio visitatori. Al centro la piscina. Ventidue metri di lunghezza e nove di profondità. Poteva contenere un palazzo di tre piani. Una delle due estremità si allargava in una forma arrotondata e sopra poggiava immobile il carroponte. Sul corrimano un salvagente con la scritta "Galileo Galilei", come se fosse una nave e qualcuno potesse veramente cadere in acqua. L'ufficiale non ne aveva mai colto l'involontaria ironia. Percorse il pavimento di linoleum rosso fino alla cabina di comando, una struttura di metallo e vetro che si affacciava sulla piscina. Il capoturno, in camice bianco, salutò l'ufficiale superiore. Avrà avuto meno di trent'anni. Capelli corti sulla nuca e scriminatura come tagliata con il bisturi. «Siamo pronti», confermò il giovane militare.
Due pareti erano coperte di strumentazione. Quadranti a lancette, spie luminose, pulsanti, interruttori, manopole. Alla consolle di comando era seduto un tecnico. Un altro fissava un rullo di carta che scorreva dietro un vetro. Il pennino tracciava una riga nera rettilinea. «Procedete pure» ordinò l'ufficiale con voce squillante e autoritaria. Nel vano piscine si accese un lampeggiante. Il tecnico alla consolle azionò un interruttore. Una lancetta cominciò a ruotare lentamente. Il pennino sul rullo si mosse. «Stiamo estraendo le barre di controllo» spiegò il capoturno, pentendosi subito di aver aperto bocca e di aver usato quel tono. Non si spiega a un superiore, tutt'al più si informa. Ma il tecnico sapeva bene perché avevano mandato lì quell'ufficiale, un militare di carriera senza nessuna competenza in campo nucleare. Il capitano di vascello si avvicinò al vetro che dava sulla piscina. Tutta quella tecnologia lo metteva in soggezione. Lui preferiva il mare, per questo era diventato ufficiale di marina. Sul pelo dell'acqua vide alzarsi le barre. Una spia luminosa sulla consolle si rifletté sul vetro. «Reattore critico» dichiarò il tecnico che fissava il rullo. La voce tradiva una nota di emozione. Era iniziata la fissione dell'uranio contenuto nelle barre di combustibile dentro la piscina. Una luminescenza azzurrognola rischiarava l'acqua. L'effetto Cherenkov. Una luce che esiste solo dentro un reattore nucleare. Poche persone al mondo l'hanno vista, perché pochissimi sono i reattori a piscina aperta come l’Rts-1. L'ufficiale non condivideva l'entusiasmo dei suoi tecnici per quella visione. In fondo, per lui, era solo una luce blu. «Duecento chilowatt in crescita» avvertì il tecnico alla consolle mentre muoveva rapido manopole e interruttori. Sudava. Il pennino sul rullo sobbalzava. Sulla parete dietro si accesero le luci delle pompe. L'altro tecnico ruotò un paio di interruttori. L'acqua scaldata dalla fissione veniva ora estratta e portata allo scambiatore a fasci di tubi all'esterno dell’edificio. "Cinque megawatt» dichiarò infine il tecnico. Era la massima potenza. Un rombo sordo proveniva dalla stessa struttura dell'edificio, come se una forza primordiale nelle viscere della Terra lo scuotesse.
Dallo scambiatore a un centinaio di metri dalla cupola si alzava una nube di vapore, quasi indistinguibile dal cielo plumbeo che la sovrastava. Per ventiquattro lunghi minuti il reattore ruggì come una bestia ferita. «Giù le barre!» ordinò infine il capoturno, con lo stesso tono con cui avrebbe ordinato di fare fuoco a un plotone di esecuzione. Aveva gli occhi bagnati di lacrime. «Spento» confermò il tecnico alla console dopo pochi secondi.
L'orologio a muro segnava le undici e nove minuti. Era il 7 marzo 1980. L'ultima accensione del reattore. La missione del tenente di vascello era chiudere le attività del centro. Nessun'altra sperimentazione, nessun ulteriore studio o sviluppo. L'Italia aveva firmato il trattato di non proliferazione. Si era impegnata a cessare ogni ricerca nucleare in campo militare. Non ci sarebbe stato più alcun missile balistico italiano, tanto meno un sommergibile nucleare. In caso di conflitto l'Italia sarebbe stata solo un campo di battaglia.

SSN Guglielmo Marconi:
  • Tipo: sottomarino
  • Classe: Marconi
  • Cantieri costruttori: Italcantieri, ora Fincantieri spa
  • Ordine: luglio 1959
  • Dislocamento in emersione: 2.300 t; in immersione 3.400 t
  • Lunghezza: 83 m
  • Larghezza - diametro: 9,55 m
  • Propulsione: 1 reattore nucleare CAMEN (derivato dal Westinghouse S5W) da 30 MW di Potenza termica e 15.000 shp, un’elica a 5 pale
  • Velocità: 30 nodi
  • Armamento: siluri: 6 tubi da 533 su due file orizzontali da 3 con 30 siluri
  • Modelli realizzati: ne “esistono tutt'oggi 2 modellini, uno presso palazzo Marina a Roma e l'altro alla caserma Sciré di la Spezia”.

LA NAVE LOGISTICA A PROPULSIONE NUCLEARE ENRICO FERMI

Nonostante l'esito di questa vicenda, l'interesse della Marina Militare verso la realizzazione di piattaforme navali a propulsione nucleare non si affievolì, sfociando pochi anni più tardi nell'idea di un'unità da supporto logistico/rifornimento di squadra il cui progetto iniziò a prendere corpo nel dicembre del 1966, con la firma di una serie di accordi fra la MM, il CNEN e alcune industrie italiane. La nave, battezzata Enrico Fermi, avrebbe dovuto avere una lunghezza di 175 metri e un dislocamento di 18.000 tonnellate; un reattore da 80 MW avrebbe fornito la potenza per gli usi di bordo, inclusi i 22.000 hp necessari per la propulsione. Anche per tale progetto era però necessario un minimo di collaborazione da parte di nazioni già in possesso del know-how nucleare indispensabile per realizzare impianti navali di tale potenza. Le speranze coltivate in tal senso vennero nuovamente disattese, mentre il fallimento delle prime esperienze d'esercizio dei mercantili a propulsione nucleare realizzati da alcuni paesi occidentali convinse alla fine la Marina ad abbandonare le proprie ambizioni nel settore.
Nave Enrico Fermi:
  • tipo: unità logistica a propulsione nucleare
  • lunghezza: 170,5 metri
  • larghezza: 14 m
  • dislocamento: 18.000 tonnellate a pieno carico
  • propulsione: reattore nucleare da 80 MW
  • armamento: 4 cannoni Oto Melara da 127mm/54 Compatto, 4 cannoni Oto Melara da 76mm/62 SR
  • componente di volo: hangar e ponte di volo per elicotteri SH-3D.

Doveva essere una unità logistica a propulsione nucleare studiata alla fine degli anni 60, ma il progetto non venne mai realizzato per la mancanza di accordi internazionali per la fornitura del propulsore all'Italia.
Il primo tentativo fu con gli Stati Uniti per ottenere l'uranio arricchito che avrebbe alimentato un reattore Westinghouse, ma l'amministrazione Johnson si rifiuto perché il programma aveva caratteristiche militari. L'uranio venne ottenuto dalla Francia e le prime 2 tonnellate per far funzionare il reattore denominato ROSPO ubicato presso i laboratori di Casaccia del CNEN; nel gennaio 1970 il reattore divenne critico. Ulteriori interferenze della Commissione Europea e il veto degli Stati Uniti bloccarono il progetto che sembrava ormai sicuro. Le necessità del reattore di potenza, in questo caso, sono quelle di leggerezza e ottimo contenimento delle radiazioni: a tale scopo, la filiera PWR è generalmente usata, in quanto permette di tenere turbine e generatori in zona sicura, essendo il fluido esente da radiazioni. In realtà il circuito primario è stato realizzato anche con fluidi diversi, come nel reattore italiano R.O.S.P.O. (Reattore Organico Sperimentale Potenza Zero), realizzato come prototipo per la futura (e mai realizzata) nave Enrico Fermi a propulsione nucleare, in cui venivano utilizzati prodotti organici cerosi, simili ai comuni oli diatermici - sempre allo scopo di ridurre le dimensioni. Malgrado i molti progetti (la nave tedesca Otto Hahn, quella americana Savannah, e altre sono state effettivamente realizzate, ma senza grande successo), la propulsione nucleare navale è oggi usata solo nei sottomarini militari (e alcuni di ricerca), nelle grandi portaerei e nei rompighiaccio russi della classe Lenin.

L’ACCORDO ITALIA-USA PER LA BASE PER GLI SSN STATUNITENSI A LA MADDALENA

Della base della Us Navy a La Maddalena Giulio Andreotti non amava parlare volentieri, perché si sarebbe avventurato in un terreno per lui politicamente scivoloso. Era stato infatti il regista dell'accordo bilaterale firmato a Washington nel luglio del 1972 e che, in palese violazione della Costituzione, non era stato ratificato dal Parlamento. Poi, perché dietro lo sbarco della US NAVY in Sardegna si nascondeva una sua personale sconfitta e, per sua natura, non ha mai amato parlare dei suoi fallimenti. Per questo capitolo segreto della storia della base per S.S.N. statunitensi a La Maddalena, bisogna tornare indietro nel tempo al 1959. Andreotti era allora ministro della Difesa ed era rimasto affascinato dalle ambizioni delle alte gerarchie militari italiane che volevano un programma nucleare. Come già evidenziato, in quel 1959 intervenne al Senato per annunciare che condivideva e sosteneva l’ambizione di generali e ammiragli. C'era comunque ancora un problema non da poco da superare: bisognava convincere gli Stati Uniti a fornire l'uranio arricchito per alimentare il reattore nucleare. Si sviluppò una trattativa segreta che portò a un sostanziale cambiamento del "programma nucleare" italiano volto a realizzare un'unità di superficie logistica  a propulsione nucleare. Il più fiero oppositore del programma nucleare "made in Italy" era l'ammiraglio statunitense Hyman Rickover, l'ideatore dei sommergibili atomici statunitensi: fu irremovibile e bocciò anche questa ipotesi. I militari italiani si rivolsero allora ai francesi, con i quali dal 1961 esisteva un progetto di collaborazione per la produzione di uranio arricchito per uso civile negli impianti di Pierrelatte. Ma gli americani ci misero lo zampino "avvelenando" la trattativa. E così non se ne fece niente. Ora il problema politico vero era dunque quello di convincere gli americani a togliere il veto. Andreotti cominciò così a tessere i fili di una diplomazia segreta con Washington, mettendo sul tavolo della trattativa la concessione alla Us Navy di una base alla Maddalena. Ironia della sorte, proprio per sommergibili nucleari. È in questo contesto che nacquero gli accordi del 1972. Quasi una sorta di "regalo" per ammorbidire le diffidenze. Ma gli americani non onorarono l'impegno e passarono all'Italia alcuni sommergibili convenzionali ormai in odore di dismissione. Alla fine nei nostri mari hanno sì navigato i sommergibili nucleari, ma con la bandiera a stelle e strisce.

GLI “EUROMISSILI” E LA POSSIBILE ATOMICA EUROPEA

Nel 1980, per alcuni mesi, quando serpeggiarono notizie di difficoltà nelle forze armate, l’Italia ipotizzò di costruire l’atomica. La rivelazione è dell’ex ministro della difesa, Lelio Lagorio, che ne ha parlato nel suo libro “L’ora di Austerlitz. 1980”: Lelio Lagorio ricorda che il 1980 fu decisivo rispetto al tema del dispiegamento degli euromissili. «Quanto alla bomba italiana - scrive l’ex ministro - il fatto che gli euromissili avessero dato al Paese un superiore rango internazionale suggerì a qualche ambiente militare l’idea che una bomba italiana avesse stabilmente assicurato tale rango. La bomba costava poco e il nostro apparato scientifico-tecnico-industriale era in grado di produrla. Ne parlò con il ministro espressamente il Capo di stato maggiore ammiraglio Torrisi nel luglio 1980. Più tardi l’idea venne risollevata dal sottosegretario alla difesa Ciccardini in sintonia con l’esperto Stefano Silvestri nell’autunno 1982. Era pur vero che l’Italia aveva ratificato il trattato di non proliferazione nucleare, ma da poco e dopo molte incertezze e resistenze. Un ripensamento era sempre possibile. Tanto più se lo si fosse sostenuto con una autonoma iniziativa nel Mediterraneo. In quest’area l’Italia assieme alla Francia poteva far nascere una "Piccola Nato" con i Paesi rivieraschi per dare a ciascuno un maggior senso di sicurezza. Un force de frappe nucleare italo-francese avrebbe garantito alla coalizione mediterranea un margine superiore di influenza e credibilità, senza contare che l’avvento di un nuovo robusto protagonista sullo scacchiere euro-africano avrebbe assunto un rilievo inusitato nella politica internazionale». Lelio Lagorio ha ricordato nel libro di memorie che a suo tempo ci furono «sussurri e bisbiglii circa il segretissimo progetto di costruire un’arma nucleare. Il progetto era legato alle tecnologie che in Italia era state sviluppate in alcuni centri di ricerca nucleare e soprattutto che erano state messe a punto presso il Camen, il centro di applicazioni militari per l’energia nucleare di San Piero a Grado, presso Pisa (oggi Cisam). Il Camen avrebbe dovuto provvedere alla realizzazione dei reattori nucleari per il sottomarino Marconi e per la nave logistica Fermi. Nel libro di Lagorio non figurano alcune premesse a questo progetto ed anche alla realizzazione della “Force de frappe”. Il primo novembre 1968 la Francia ci aveva fornito l’uranio arricchito per il reattore della Casaccia, reattore che iniziò a funzionare nel ’70. Nel giugno ’71 l’ambasciatore Quaroni, lo era stato anche in Francia, in un articolo su "La revue de deux mondes" aveva parlato di possibili accordi tra Italia e Francia per un programma nucleare. Gli Usa non vollero fornirci l’uranio necessario per i progetti per la realizzazione dell’SSN e della nave logistica nucleare. Sui programmi del Camen riferì in una intervista su un importante settimane italiano l’allora direttore, ammiraglio Avogadro di Valdengo.
Nel 1952 era stato creato il Cnrn (Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari) al quale era stata affidata la costruzione di un primo reattore nucleare nazionale. Nel 1956, presso l’Accademia Navale di Livorno, era entrato in funzione il Camen (Centro per l’Applicazione Militare dell’Energia Nucleare). I primi risultati furono visibili negli anni seguenti. Nel 1958 cominciò la costruzione della centrale di Latina, nel dicembre 1962 il reattore divenne critico e nel maggio dell’anno successivo cominciò la produzione di energia elettrica. Erano cominciati contemporaneamente i lavori per un’altra centrale, sul Garigliano, che avrebbe prodotto energia nel gennaio del 1964. Nel frattempo anche due grandi aziende private, FIAT e Montecatini, erano scese in campo. Un reattore di ricerca fu installato a Trino Vercellese e cominciò a produrre energia nel 1964. Esistevano quindi in Italia, negli anni Sessanta, le condizioni per una politica nucleare che avrebbe permesso al paese, tra l’altro, di affrontare con maggiore tranquillità e indipendenza le grandi crisi energetiche del 1973 e del 1979.
La parte militare del programma, tuttavia, era stata abbandonata lungo la strada. Le vicissitudini della politica italiana dopo la crisi del centro-sinistra e le elezioni del 1972 ebbero l’effetto di riaprire la discussione nel governo sulla scelta atomica della politica estera italiana. Esistevano ancora ambiziosi programmi per l’impiego civile dell’energia nucleare. E un programma civile poteva sempre, all’occorrenza, avere risvolti e implicazioni militari. Era civile o militare, ad esempio, la nave Enrico Fermi (un’unità di supporto logistico a propulsione nucleare) che la Marina militare aveva deciso di costruire sin dal dicembre del 1966. Quando il reattore della nave divenne critico e l’Italia cercò di comprare le due tonnellate di uranio arricchito necessarie al suo funzionamento, gli Stati Uniti sostennero che il progetto aveva caratteristiche militari e negarono il loro appoggio.  Ciò che accadde successivamente ed i programmi energetici adottati dopo gli shock petroliferi e al referendum del novembre 1987 con cui i programmi del “nucleare civile” vennero resi impossibili, è il risultato delle due grandi rinunce degli anni Cinquanta e Settanta. Dopo essere stato uno dei paesi più avanzati e intraprendenti nel campo delle ricerche nucleari, l’Italia aveva progressivamente smantellato le sue migliori energie ed era uscita da uno dei settori decisivi e più promettenti della scienza moderna. Il danno fu irreparabile. Il paese perse irreversibilmente prestigio e potere negoziale, è diventò per le sue necessità energetiche vulnerabile e non è più in grado di tenere il passo con la scienza e la tecnologia dei paesi più dinamici. Gli argomenti che avevano giustificato queste scelte furono clamorosamente contraddetti dalla realtà: il paese aveva rinunciato alle armi atomiche in nome della pace ma ora ospitava basi nucleari straniere. Il paese che aveva rinunciato al nucleare civile in nome della salute e dell’ambiente era stato esposto irrimediabilmente alle radiazioni dell’esplosione della centrale di Cernobyl. Tuttora l’Italia importa energia elettrica prodotta da impianti nucleari a poche centinaia di chilometri dalle sue frontiere (Francia, Svizzera, Slovenia, Albania, Croazia, Austria). La responsabilità, in ultima analisi, è da addebitare ad un sistema politico fragile, oscillante, attento agli umori della comune sentire, oltre che agli interessi fondamentali del paese.




IL C.A.M.E.N.  DI  LIVORNO (ora C.I.S.A.M.) E IL PROBLEMA DELLE SCORIE

Il 13 luglio 1985 il C.A.M.E.N. diventa C.R.E.S.A.M. (Centro Ricerche E Studi Applicazioni Militari) e quindi, il 28 aprile 1994, con Decreto del Ministro della Difesa, viene quindi istituito il C.I.S.A.M. (Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari). Fino al 1998 alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Difesa, il  C.I.S.A.M., con Decreto Ministeriale 20 gennaio 1998, passa alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Marina.
Come già detto in precedenza, nella seconda metà degli anni ‘50 Marina mise in atto varie iniziative volte sia alla sperimentazione di sistemi di propulsione nucleare, sia all’impiego di vettori d’arma strategici.



La prima iniziativa, volta anche a colmare, avvalendosi dell'esperienza e della capacità dei docenti universitari pisani, la lacuna circa le proprie conoscenze nel settore dei sistemi di propulsione nucleare, si concretizzò con la creazione nel 1956 di un centro ricerche all'interno del comprensorio dell'Accademia Navale di Livorno: fu così che nacque il C.A.M.E.N. (Centro per le Applicazioni Militari dell'Energia Nucleare) e che si sperimentò un piccolo reattore nucleare sperimentale, l’ RTS-1 “Galileo Galilei”, costruito poi a San Piero a Grado, vicino a Pisa, ove nel 1961 si trasferì il Centro.
Logica conclusione delle ricerche era comunque senz’altro quella di costruire in prospettiva unità militari a propulsione nucleare. L’iniziativa fu seguita con attenzione dagli Stati Uniti e dall’US Navy, ma quando si trattò di passare alla fase realizzativa, con la costruzione di un sottomarino, il Guglielmo Marconi (1959) e di una grande unità di supporto logistico e di rifornimento di squadra, l’Enrico Fermi (1966), gli USA misero il veto, temendo che, da un lato, l’Italia potesse acquisire la possibilità di costruire armi nucleari e, dall’altro che, in considerazione della forte presenza in Italia di componenti politiche comuniste, vi fosse un elevatissimo rischio che le tecnologie potessero essere trasferite all’Unione Sovietica ed ai Paesi del Patto di Varsavia. 



Pochi conoscono l'attività che per oltre un ventennio si è svolta nella pineta di S. Piero a Grado quando, dall'idea di un gruppo di insigni fisici che operavano all'interno delle strutture didattiche dell'Accademia Navale, prese corpo un impianto nucleare di ricerca che, in epoca da considerarsi ancora pionieristica, ha fatto di Pisa un centro all'avanguardia per lo studio dell'energia nucleare. Il reattore sperimentale RTS-1 Galileo Galilei ha operato per circa un ventennio, grazie all'entusiasmo e alla professionalità del personale che vi è stato destinato e di cui il libro costituisce una doverosa memoria e un riconoscimento per l'importante lavoro svolto.
Il Camen (Centro Applicazione Militari per l’Energia Nucleare), poi Cresam (Centro ricerche esperienze e studi per le applicazioni militari), attualmente Cisam (Centro per l’Applicazione Militare dell’Energia Nucleare): un cambiamento solo di facciata. Un saluto all’ingresso del “cimitero nucleare militare italiano”: 470 ettari di verde blindato nel cuore del parco Migliarino-San Rossore.
Nel Centro di ricerca bellica che lambisce il Mar Tirreno, ad un tiro di schioppo da Pisa, a due chilometri dall’immensa base Usa di Camp Darby (imbottita di ordigni nucleari, in base ai documenti ufficiali del governo Usa), la magistratura aveva aperto un’inchiesta in seguito alla presentazione di un esposto alla Procura della Repubblica. «Più di cento bidoni sono stati abbandonati per anni all’aperto. Contengono scorie e rifiuti radioattivi» aveva accertato il sostituto procuratore Flavia Aleni che ha appurato -attraverso una consulenza tecnica- il grado di pericolosità. Si trattava degli scarti della lavorazione di un ventennio produttivo del reattore nucleare di media potenza Galileo Galilei (nome in codice: Rts-1), avviato nel 1960 per esperimenti di guerra e poi, ufficialmente disattivato nell’80. “Le scorie sono rimaste lì”, racconta l’ingegnere che ha sporto denuncia “e con il tempo i contenitori si sono deteriorati. Alcuni sono arrugginiti, altri hanno evidenti fori con la possibilità che parte del materiale sia uscito. Tempo fa sono stati spostati in un’altra zona della base. Un’operazione che è avvenuta senza la minima prevenzione”. La Procura ha nominato un perito che ha svolto accertamenti e stilato una relazione, constatando la presenza nel sito di «materiale radioattivo». Secondo l’esperto che ha segnalato il caso “sono materiali entrati in contatto con il reattore e contaminati ma anche scorie della lavorazione, radionuclidi tra cui spiccano uranio e plutonio. I più pericolosi, perché non solo devono osservare rigidissime misure di prevenzione ma anche il loro smaltimento deve essere eseguito attenendosi a norme di sicurezza rigorose”. 



Secondo l’ammiraglio Francesco Andreuccetti, ex direttore del centro, “Al Cisam è tutto sotto controllo e non c’è motivo di rendere pubblici i dati sul nucleare militare in Italia. Noi ci atteniamo a un regolamento interno”. Quante scorie sono state prodotte e risultano presenti al Cisam? L’ultimo inventario noto all’opinione pubblica risale all’anno 2000. Appunto le stime dell’Enea, dell’Anpa, dell’Enel e addirittura un rapporto dell’Unione europea indicano «700 metri cubi».
L’ex direttore del Cisam ha di recente ammesso: “Noi in effetti abbiamo avuto ulteriori introduzioni di materiale nucleare proprio per la nostra attività di spazzini del nucleare e, di conseguenza, se invece di 700 metri cubi sono 750 non glielo so dire”. Ma proprio sui numeri si infittisce il mistero, poiché nell’Inventario nazionale rifiuti radioattivi redatto dall’Apat, i dati sul Cisam attestano una riduzione a «350 metri cubi di rifiuti radioattivi». In virtù dello stato giuridico particolare dell’amministrazione militare, quest’area non è interessata allo stato di emergenza nucleare. Eppure il rapporto sullo ‘Stato della radioprotezione in Italia’, compilato dall’ Enea prima che la gestione del nucleare passasse alla Sogin nel 1999, considera l’impianto del Cisam tra quelli da mettere in sicurezza, considerata la pericolosità del combustibile usato prima dello spegnimento e dei rifiuti radioattivi prodotti. Proprio il Centro di ricerca militare ha tra gli altri compiti quello di analizzare la radioattività sui campioni d’acqua del porto di La Spezia e dell’Isola di Santo Stefano in Sardegna. 
Due interrogazioni al Governo attestano il trasferimento dall’arsenale della Marina di La Spezia al Cisam, di ben 760 chilogrammi di materiali ferrosi e cementizi contaminati da circa 2 chilogrammi di uranio impoverito. Domanda, infatti, il senatore Luigi Malabarba (Prc) il 4 febbraio 2004 (interrogazione n. 4-06049), ai ministro della Difesa, della Salute e dell’Ambiente: «quali disposizioni siano state adottate in relazione al trasporto, presso il CISAM di San Piero a Grado (Pisa), dei rifiuti nucleari, e ciò anche tenendo conto del fatto che la quantità di tali rifiuti sembra eccedere le possibilità di stoccaggio in sicurezza presso il CISAM, nonché delle conseguenze dell’inquinamento sulla popolazione locale». 
Già nel 2002 un gruppo di cittadini segnalò la pericolosità del Cisam: la delicata fase di dismissione del reattore non verrebbe eseguita secondo regole di sicurezza e viene segnalata la presenza di un cimitero radioattivo nell’area naturalistica.
Con quali compiti nasce in realtà l’attuale Cisam? “Nel 1956, presso l’Accademia navale di Livorno, era entrato in funzione il Centro per l’Applicazione Militare dell’Energia Nucleare. I primi risultati furono visibili negli anni seguenti” ha rivelato l’ambasciatore Sergio Romano. Nel 1961 il Camen fu trasferito nella sua sede attuale, nel ’62 fu promulgata la legge istitutiva (n. 1483). In un discorso pronunciato alla Camera dei Deputati, il 23 gennaio 1969, Giuseppe Niccolai ne illustra le funzioni: «Progettare e realizzare un reattore dimostrativo completamente italiano; creare un gruppo di esperti, progettisti e operatori; esperienze necessarie per la progettazione di ulteriori impianti per usi vari (militari e civili) fino al reattore per la propulsione navale; formazione di specialisti militari per l’impiego dei reattori e per il controllo della radioattività». E infine, afferma rivolgendosi al ministro della Difesa, Gui: «produrre armi nucleari. Nei primi programmi del CAMEN si parla esplicitamente della costruzione della bomba atomica italiana». La tentazione di costruire un proprio arsenale colpisce il governo italiano, che tra il 1974 e il 1976 fa eseguire tre test di un missile in grado di essere equipaggiato con una testata atomica. I lanci di prova avvengono in Sardegna, nel poligono militare di Salto di Quirra, all’estremo lembo sud-orientale della provincia di Nuoro. Gli esperimenti erano coperti dal segreto di Stato. Il primo test del missile Alfa-1, un vettore a due stadi, si svolse il primo febbraio 1973. La ratifica da parte italiana del trattato di non proliferazione delle armi nucleari giungerà soltanto nell’aprile del 1975. Il “Programma tecnologico diretto allo sviluppo di un carburante solido ad alto potenziale per razzi per applicazioni civili e militari” - rivelano gli incartamenti top secret del ministero della Difesa - decolla nel 1971 in collaborazione tra Marina e Aeronautica. Nessuna menzione della testata nucleare, nessun accenno alla vera natura dell’operazione. Alfa-1 era un razzo vettore composto da due stadi, il primo lungo quasi 4 metri, il secondo pochi centimetri meno di tre metri. Le società impegnate nel progetto erano Aeritalia, Selenia e Sistel, con Bpd Spazio incaricata di produrre il carburante. Siamo nella sesta legislatura del parlamento italiano. Presidente del consiglio dei ministri è Giulio Andreotti, responsabile della difesa è Mario Tanassi, mentre al dicastero degli esteri siede Giuseppe Medici. La ratifica da parte italiana del trattato di non proliferazione delle armi nucleari arriverà nell’aprile del 1975: fino a quel momento e oltre i nostri governi e gli apparati militari non erano sottoposti ad alcun tipo di vincolo per ciò che riguardava la costruzione e il dispiegamento di missili a testata nucleare. L’Italia a quel tempo era sul mercato: con le centrali atomiche aperte, acquistava uranio e plutonio dagli Usa (documenti ministero degli Esteri), necessario alla realizzazione della bomba atomica. L’idea era quella di disporre di un missile simile all’americano Polaris, da poter imbarcare e lanciare da bordo di sottomarini o di unità di superficie, come l’incrociatore Giuseppe Garibaldi, già armato con lanciamissili. 
Il Rapporto 1010 (3 settembre 1973) del Camen è eloquente: “Studio sulla possibilità di impiego di plutonio in sostituzione di uranio 235 nei reattori nucleari termici”. Alla stregua del rapporto 1037 (6 maggio 1974) “Progetto di un elemento di combustibile sperimentale per esperienza di conversione Uranio-Plutonio nel reattore G. Galilei”; e del rapporto 1041 (21 agosto 1974) intitolato “Impianto di laboratorio per il ritrattamento di uranio irraggiato”. Ed ancora del rapporto 1154 (2 settembre 1977), denominato “Progetto di impianto di produzione di esafluoruro di uranio” e del rapporto 1158 (12 settembre 1977), intitolato “Immagazzinamento di rifiuti radioattivi in formazioni saline”. 
Nel ’78 il Camen fu dichiarato “istituto autorizzato per la protezione dei rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti”. Il decreto ministeriale del 13 luglio 1985, sancì la nascita del Cresam (Centro ricerche esperienze e studi per le applicazioni militari), equiparato (con D.P.C.M. 593/1993, art. 8) a tutti gli effetti agli enti pubblici di ricerca. Singolare coincidenza: gli esperti del Cisam hanno fatto parte della Commissione Mandelli, accusata di aver sottaciuto gli effetti mortali dell’uranio impoverito sui militari italiani. 
Quanto agli incidenti, il mistero è assoluto. 
Un minuscolo spiraglio è stato aperto proprio dall’onorevole Niccolai che in un intervento al Parlamento aveva dichiarato al ministro della Difesa: «Un certo giorno arriva al centro del materiale contaminato da eliminare, da sotterrare. Nel laboratorio di radio-protezione è subentrato ad un libero docente di fisica sanitaria e nucleare un maggiore di fanteria. L’ufficiale vede questo materiale contaminato giacente in un magazzino e contrassegnato con la scritta «Pericolo», ma non ci pensa due volte: eliminare tale materiale è evidentemente compito suo e dei suoi uomini. Ebbene, armati di martello, con la più sbalorditiva, fanciullesca, incredibile imperizia (simili operazioni non si fanno in massa, ma uno per volta!) il maggiore di fanteria e tutti i suoi uomini effettuano l’operazione, a petto nudo, senza guanti né tuta. Il risultato è che tutti rimangono contaminati, primo fra tutti il maggiore capo del laboratorio radio-protezioni. Se il capo della protezione-radio è questo, lei può immaginare, signor ministro, il resto».
Materiale radioattivo a San Piero: la popolazione deve essere informata. Non stupisce, ma preoccupa. Nel CISAM (allora CAMEN) è stato attivo negli anni settanta un reattore di ricerca e le sue scorie accantonate nella pineta, come si poteva vedere allora in un filmato presentato ai visitatori. Oggi sappiamo che la stessa struttura è autorizzata a "smaltire" rifiuti speciali radioattivi. La parola smaltire è però ingannevole: infatti non esiste alcun processo fisico o chimico che possa far perdere ai radionuclidi la proprietà di emettere quelle particelle ionizzanti che ne costituiscono il pericolo per la salute e per l’ambiente. Si tratta quindi di un immagazzinamento, che dovrebbe essere provvisorio sino all’individuazione di un sito idoneo e definitivo. Ci sembra legittima qualche domanda. Ad esempio: perché le Forze Armate fanno uso di uranio impoverito, che, se è vero che ha proprietà meccaniche particolari e un’attività modesta, è pur sempre radioattivo? Quanto e quale materiale è depositato nella pineta del CISAM e come viene conservato? Oltre alle doverose visite effettuate dagli Amministratori locali, esistono verifiche degli enti preposti al controllo, l’ARPAT ad esempio, come per ogni altro qualsiasi impianto? Le preoccupazioni sono sempre legittime, le risposte doverose. L’occasione porta anche a riflettere sulla ormai lontana e sfortunata decisione di collocare una struttura militare con un reattore nucleare in uno splendido pezzo d’Italia.




ARMI NUCLEARI SUL SUOLO NAZIONALE DOPO IL 1975

Anche dopo l'interruzione del proprio programma nucleare, l'Italia ha continuato ad ospitare armi nucleari. Dal 1975 il paese è stato utilizzato dagli Stati Uniti per lo schieramento del BGM-109G (missile cruise terrestre), del MGM-52 Lance (missile balistico tattico) e dei pezzi di artiglieria W33, W48 e W79. Nel 2005 l'ex presidente della repubblica Francesco Cossiga dichiarò che durante la Guerra Fredda il ruolo dell'Italia consisteva nello sganciamento di testate nucleari su Praga e Budapest, in caso di un primo attacco dei sovietici contro i paesi NATO.
Attualmente l’Italia fa parte del programma di condivisione nucleare della NATO e, nell'ambito di questo programma, gli Stati Uniti mantengono la custodia e il controllo assoluto delle armi nucleari presenti sul territorio italiano. Non è ben chiaro se, in caso di guerra, l'Aeronautica possa usare queste armi ma alcune fonti affermano il contrario. Al 2015, le bombe nucleari B61 mod 3 e mod 4 sono custodite in due località, 50 presso la base aerea di Aviano, e 20-40 presso la base di Ghedi. Gli F-16 Fighting Falcon facenti parte della 31ª Fighter Wing statunitense sono di stanza presso la base di Aviano, mentre i Panavia Tornado del 6º Stormo Alfredo Fusco hanno sede a Ghedi (BS).
Il 2 Maggio del 1975, sotto presidenza Aldo Moro, un’Italia in pieni anni di piombo firmava il TNP, e stessa cosa faceva la Svizzera due anni più tardi, affidandosi soltanto alla sua deterrenza convenzionale. In settembre, quattro mesi dopo la firma del trattato, il primo test con il missile vero e proprio (senza carica), quasi per beffa, fu coronato da un completo successo nel Mar Tirreno, al largo della Sardegna. Da allora, l’Italia ha rinunciato a qualsiasi velleità nucleare, forse l’unica occasione che il Paese ebbe di uscire realmente dall’ombrello di “protezione” americano per dotarsi di un arsenale proprio che avrebbe garantito a Roma la capacità di pesare adeguatamente sullo scenario internazionale. Un’occasione mancata che difficilmente, forse mai più, potrà ripetersi, e che avrebbe garantito all’Italia un completo dominio missilistico sull’intero bacino mediterraneo, considerata la possibilità, perfettamente attestata, di imbarcare il missile Alfa-1 su navi di superficie (Incrociatori Giuseppe Garibaldi e Vittorio veneto) e sottomarini nucleari. Tutto questo proprio alla luce delle parole di un ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, che in un suo discorso a Cherbourg, il 28 Marzo 2008, affermò che la deterrenza nucleare era la sola assicurazione sulla vita.

(Web, Google, Wikipedia, storiedimarina, Secolo-trentino, Limesonline, progettoprometeo, You Tube)














































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