Il C.A.M.E.N. (Centro per le Applicazioni Militari dell’Energia Nucleare) nasce nel 1956 all’interno del comprensorio dell’Accademia Navale di Livorno.
La Marina, in quel periodo, stava infatti pensando all’impiego dell’energia nucleare nel campo della propulsione navale, sia di superficie che subacquea, e le limitate conoscenze nel settore la indussero a costituire un centro di studio e di sperimentazione, avvalendosi anche dell’esperienza e della capacità dei docenti universitari pisani.Agli inizi degli anni ’80, un riesame da parte del Ministero della Difesa delle esigenze nucleari delle Forze Armate porta alla determinazione di ridurre l’impegno in questo settore e quindi di bloccare di fatto l’attività principale del Centro.
Vengono quindi avviati studi per l’individuazione di nuove potenziali attività tecniche di interesse del Ministero della Difesa verso le quali riconvertire il Centro. Dopo una laboriosa gestazione, il 13 luglio 1985 un apposito decreto del Ministero Difesa sancisce la nascita del C.R.E.S.A.M. (Centro Ricerche, Esperienze e Studi per Applicazioni Militari).
Il nuovo Centro, posto alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Difesa, amplia la sua sfera di interesse verso nuovi settori, quali la Compatibilità Elettromagnetica, l’Optoelettronica e la Diagnostica dei Materiali, pur continuando ad operare nel campo della Sicurezza e della Difesa Nucleare. E’ da ricordare l’impegno del Centro durante la tragedia di Chernobyl, che lo pone come punto di riferimento nazionale per la Protezione Civile.
Il 28 aprile 1994, con Decreto del Ministro della Difesa, viene quindi istituito il C.I.S.A.M. (Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari), ente di supporto per le Forze Operative, sempre alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Il 20 gennaio 1998, infine, con il Decreto Ministeriale 20 gennaio 1998, il C.I.S.A.M. passa alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Marina.
Nel settore “nucleare” operano tre divisioni ed un Centro LAT:
la Divisione Difesa, costituita dalla Sezione Metrologia delle Radiazioni Ionizzanti e dalla Sezione Sperimentazioni R-N;
la Divisione Protezione Ambientale, costituita dalle Sezioni Fisica Sanitaria, Igiene delle Radiazioni, Controlli Radiometrici e Studi ed Emergenze R-N;
la Divisione Reattore, costituita dalle Sezioni Reattore, Radioprotezione Impianti e Gestione Rifiuti Radioattivi e Decontaminazione.
Le tre divisioni “nucleari“, oltre a partecipare stabilmente a gruppi di lavoro costituiti in seno all’UNICHIM, UNICEN ed ENEA, forniscono consulenza legislativa e tecnica e rappresentano il Ministero della Difesa presso Enti interministeriali. Il personale delle divisioni “nucleari” svolge inoltre funzioni esclusive in ambito Difesa per quanto riguarda la protezione dai rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti e lo smaltimento di rifiuti radioattivi. Tra i principali campi di intervento ricordiamo:
interventi di radioprotezione ai sensi del D.Lgs 230/95 e D.M. 24/07/2007 in ambito nazionale;
monitoraggio ambientale (settore radiologico e Radon) ai sensi della Direttiva SMD-L-018;
decontaminazione radiologica di locali, laboratori, attrezzature e mezzi di interesse della difesa;
rilevamento della concentrazione di radon in aria presso siti di interesse militare;
controllo ambientale di siti militari e di porti nazionali che ospitano Unità Navali a propulsione nucleare;
radioprotezione medica ed il controllo radiotossicologico del personale proprio e di altri Enti dell’Amministrazione della Difesa esposto ai rischi derivanti dall’impiego delle radiazioni ionizzanti;
campagne di bonifica radiologica in siti dell’A.D.;
consulenze per il trasporto di rifiuti radioattivi;
certificazione della taratura della strumentazione (dosimetri ed intensimetri) utilizzata per la misura delle radiazioni ionizzanti;
gestione degli appalti per il “decommissioning” del Reattore Nucleare RTS-1 “Galileo Galilei”;
gestione del condizionamento e della conservazione in sicurezza dei rifiuti radioattivi provenienti dal decommissioning del Reattore Nucleare e dai vari Enti della Difesa.
* * *
Fine anni ’50, un leggero vento di Libeccio umido soffiava sul litorale pisano: si era in pieno boom economico.
La spiaggia era deserta.
Nubi scure e colorate correvano verso l'interno accavallandosi nel cielo grigio di marzo.
Due settimane dall'inizio della primavera, ma sembrava già inverno pieno.
Una strada rettilinea tagliava e taglia la pineta pisana.
Il vento la infilava come un canale e correva dritto fino a sbattere sui volti attenti e a tratti annoiati dei due carabinieri di guardia.
La recinzione era sormontata da filo spinato e tra pini secolari, sorgeva (e sorge) una piccola città di edifici a due o tre piani dalle linee pulite e razionali: era il più grande centro di ricerca delle forze armate italiane.
Sul piazzale dell'edificio della direzione erano parcheggiati ordinatamente quattro furgoncini verde militare e una Fiat 128 blu.
Dalla porta a vetri uscì un distinto ufficiale, guardò distrattamente la sua auto, si sistemò il cappello fissando la fontana a pianta romboidale e, infine, s'incamminò lungo il viale alberato.
Il vento spruzzava e bagnava la targa di bronzo affissa alla parete. Uno scudo medioevale con al centro un atomo stilizzato. Sulla corona la scritta: Camen, Centro applicazioni militari energia nucleare.
L'élite delle forze armate, in quell'epoca cupa in cui l'apocalisse nucleare sembrava imminente e l'Italia si trovava sulla linea del fronte, tra Nato e Patto di Varsavia. In quel centro di ricerca il simulatore di onda d'urto, un cannone lungo dieci metri con una bocca di settanta centimetri, testava su mezzi e materiali gli effetti di un'eventuale esplosione nucleare. Uno spiazzo, detto poligono, era attrezzato per simulare il fall-out radioattivo sui carri armati. Il laboratorio di radiopatologia compiva esperimenti su cavie e primati per valutare gli effetti sanitari di una guerra nucleare.
Ma i sogni, o forse gli incubi, degli uomini del Camen erano stati molto più ambiziosi.
Nell'archivio del comandante, presidiato da due carabinieri con l'ordine di perquisire chiunque entrasse o uscisse, erano conservati i disegni e gli schemi definitivi del missile balistico Alfa: milleseicento chilometri di gittata, l'equivalente italiano del missile Polaris della US NAVY. E non solo.
In uno schedario chiuso con doppie chiavi e protetto da sigilli c'era la ragione stessa della fondazione di quel centro alla fine degli anni Cinquanta, oltre vent'anni prima: il progetto del sottomarino a propulsione nucleare S-521 "Guglielmo Marconi”: 83 metri di lunghezza, 10 metri di diametro, 3.400 tonn. di dislocamento, sei tubi di lancio, dodicimila ore di autonomia in immersione.
L'arma definitiva di quella strana guerra, per fortuna mai dichiarata, tra blocchi contrapposti iniziata trent'anni prima. Qualunque cosa potesse succedere alla madrepatria, un sommergibile in immersione, armato di missili balistici a testata nucleare, sarebbe stato invulnerabile e in grado di scatenare la più spaventosa rappresaglia.
«La costruzione del sommergibile atomico resta l'obiettivo finale a cui tutti dobbiamo cooperare» aveva dichiarato nel settembre del 1963 il ministro della Difesa Giulio Andreotti alla Camera dei deputati.
E il primo passo verso un sommergibile nucleare è costruire un reattore. Uno piccolo e semplice, perché non deve certo illuminare una città.
Possibilmente a uranio altamente arricchito, lo stesso usato per la fabbricazione delle testate: un Rts-1 della statunitense Babcok & Wilcox.
Ufficialmente un reattore di ricerca, non un propulsore per sommergibili, ma con le caratteristiche giuste per diventarlo, un giorno. Un reattore civile e quindi esportabile in Italia nello spirito della Conferenza di Ginevra del 1955. Per questo nel 1958 il ministero della Difesa lo aveva fatto acquistare dal Comitato nazionale per le ricerche nucleari. E per questo fu costruito in pochi mesi in quella bella pineta sul litorale pisano.
Il tozzo cilindro dell'edificio di contenimento spuntava appena sopra le cime dei pini. Sul fianco svettava il camino, l'unica uscita dell'aria contenuta all'interno. Tra le nubi si aprì un varco e il sole fioco illuminò la facciata a mattoncini blu del basamento quadrato. La pioggia discontinua minacciava tempesta e bagnava la tesa del cappello e i fregi sulle spalline dell'ufficiale che camminava solitario lungo il viale.
Era solo capitano di vascello, ma era il più alto in grado del centro. I suoi predecessori erano stati tutti generali o ammiragli. Il personale aveva afferrato immediatamente il senso di quell'avvicendamento e non l'aveva presa bene. Le guardie sotto la tettoia d'ingresso scattarono sull'attenti quando lo videro attraversare il piazzale. L'ufficiale, scuro in volto, passò senza degnarli.
All'interno si lasciò ispezionare con il contatore Geiger, le norme di sicurezza lo imponevano anche in entrata. Salì la scala metallica, attraversando i piani come i ponti di una nave fino al vestibolo del vano piscina. La porta si richiuse alle sue spalle e rimase per alcuni secondi nella camera di decompressione. Nelle orecchie sentì un lieve fastidio finché la porta successiva si aprì con un sibilo. La sala vasche gli ricordava la cupola di una cattedrale. Le pareti azzurre circolari, il tetto bombato e tutt'intorno il ballatoio del corridoio visitatori. Al centro la piscina. Ventidue metri di lunghezza e nove di profondità. Poteva contenere un palazzo di tre piani.
Una delle due estremità si allargava in una forma arrotondata e sopra poggiava immobile il carroponte. Sul corrimano un salvagente con la scritta "Galileo Galilei", come se fosse una nave e qualcuno potesse veramente cadere in acqua. L'ufficiale non ne aveva mai colto l'involontaria ironia.
Percorse il pavimento di linoleum rosso fino alla cabina di comando, una struttura di metallo e vetro che si affacciava sulla piscina. Il capoturno, in camice bianco, salutò l'ufficiale superiore. Avrà avuto meno di trent'anni. Capelli corti sulla nuca e scriminatura come tagliata con il bisturi.
«Siamo pronti», esclamò il giovane ufficiale.
Due pareti erano coperte di strumentazione. Quadranti a lancette, spie luminose, pulsanti, interruttori, manopole.
Alla consolle di comando era seduto un tecnico. Un altro fissava un rullo di carta che scorreva dietro un vetro. Il pennino tracciava una riga nera rettilinea.
«Procedete pure», ordinò l'ufficiale con voce diretta e autoritaria. Nel vano piscine si accese un lampeggiante. Il tecnico alla consolle azionò un interruttore. Una lancetta cominciò a ruotare lentamente. Il pennino sul rullo si mosse.
«Stiamo estraendo le barre di controllo» spiegò il capoturno, pentendosi subito di aver aperto bocca e di aver usato quel tono. Non si spiega a un superiore, tutt'al più si informa. Ma il tecnico sapeva bene perché avevano mandato lì quell'ufficiale, un militare di carriera senza nessuna competenza in campo nucleare.
Il capitano di vascello si avvicinò al vetro che dava sulla piscina. Tutta quella tecnologia lo metteva in soggezione.
Lui preferiva il mare, per questo era diventato ufficiale di marina. Sul pelo dell'acqua vide alzarsi le barre. Una spia luminosa sulla consolle si rifletté sul vetro.
«Reattore critico», dichiarò il tecnico che fissava il rullo. La voce tradiva una nota di emozione. Era iniziata la fissione dell'uranio contenuto nelle barre di combustibile dentro la piscina. Una luminescenza azzurrognola rischiarava l'acqua. L'effetto Cherenkov. Una luce che esiste solo dentro un reattore nucleare. Poche persone al mondo l'hanno vista, perché pochissimi sono i reattori a piscina aperta come l'Rts-1.
Ma l'ufficiale non condivideva l'entusiasmo dei suoi tecnici per quella visione. In fondo, per lui, era solo una luce blu.
«200 chilowatt in crescita», avvertì il tecnico alla consolle mentre muoveva rapido manopole e interruttori.
Sudava. Il pennino sul rullo sobbalzava. Sulla parete dietro si accesero le luci delle pompe. L'altro tecnico ruotò un paio di interruttori. L'acqua scaldata dalla fissione veniva ora estratta e portata allo scambiatore a fasci tubieri all'esterno dell'edificio.
"5 megawatt», dichiarò infine il tecnico. Era la massima potenza. Un rombo sordo proveniva dalla stessa struttura dell'edificio, come se una forza primordiale nelle viscere della Terra lo scuotesse.
Dallo scambiatore a un centinaio di metri dalla cupola si alzava una nube di vapore, quasi indistinguibile dal cielo plumbeo che la sovrastava.
Per ventiquattro lunghi minuti il reattore ruggì come una bestia ferita.
«Giù le barre!», ordinò infine il capoturno, con lo stesso tono con cui avrebbe ordinato di fare fuoco a un plotone di esecuzione.
Aveva gli occhi bagnati di lacrime.
«Spento», fece il tecnico alla console dopo pochi secondi.
L'orologio a muro segnava le undici e nove minuti. Era il 7 marzo 1980. L'ultima accensione del reattore. La missione del tenente di vascello era chiudere le attività del centro.
Nessun'altra sperimentazione, nessun ulteriore studio o sviluppo. L'Italia aveva firmato il trattato di non proliferazione. Si era impegnata a cessare ogni ricerca nucleare in campo militare.
Non ci sarebbe stato più alcun missile balistico italiano, tanto meno un sommergibile nucleare.
In caso di conflitto l'Italia sarebbe stata solo un campo di battaglia.
L’SSN Classe Marconi
La classe Marconi della Marina Militare Italiana doveva essere composta da due unità sottomarine d'attacco a propulsione nucleare (la prima delle quali battezzata "Guglielmo Marconi" la seconda "Enrico Toti", anche se il nome della seconda unità non fu stabilito al 100%, con proposte alternative quali "Galileo Galilei", "Alessandro Volta", "Archimede", "Leonardo da Vinci" ed "Enrico Fermi", nome, quest'ultimo, proposto anche per un rifornitore di squadra a propulsione nucleare) costruite presso Italcantieri (il nome dell'epoca di Fincantieri) alla fine degli anni cinquanta.
Avvalendosi anche delle esperienze compiute dagli statunitensi con il sottomarino sperimentale "Albacore", era stato progettato un sottomarino d'attacco a propulsione nucleare che avrebbe dovuto chiamarsi "Guglielmo Marconi" a cui avrebbe dovuto far seguito un'unità gemella. Il battello, simile allo "Skipjack" statunitense, avrebbe dovuto avere un dislocamento in immersione di 3 400 tonnellate e una velocità massima in immersione di 30 nodi.
La realizzazione del progetto necessitava della collaborazione degli Stati Uniti d'America ma il successivo rifiuto da parte di questi ultimi di proseguire la collaborazione (sulla base di una legge che vietava il trasferimento all'estero di conoscenze e tecnologie nucleari utilizzabili a fini militari) e altri impedimenti di carattere politico impedirono che l'impresa avesse seguito provocando l'abbandono del progetto.
Tra i timori degli statunitensi vi era anche quello che della tecnologia strategica venisse trasferita all'Unione Sovietica.
Diversamente da quanto fino ad allora noto, il 18 gennaio 2015 è comparsa una fotografia dalla Rassegna e Bollettino di Statistica del Comune di Taranto di Novembre-Dicembre 1957, che testimonia l'avvenuta impostazione, il 16 giugno 1957, del primo anello di scafo del sommergibile "Guglielmo Marconi", presso i Cantieri Navali di Taranto, quale costruzione n. 170.
Nel mese di Luglio 1959 (due anni dopo) il Ministro della Difesa Giulio Andreotti annuncia l'approvazione del governo per il progetto dell'S-521 “Guglielmo Marconi”, un sommergibile nucleare da attacco (SSN), quindi senza missili balistici, ma passo indispensabile per la successiva costruzione di veri SSBN. “La propulsione doveva essere affidata ad un impianto nucleare ad acqua pressurizzata da 30 MW di potenza termica, derivato dal modello S5W della Westinghouse e studiato dal CAMEN, che alimentava due turbine (alta e bassa pressione) accoppiate ad un diruttore. La potenza massima erogata sull'unico asse con elica a 5 pale era di 15.000 cavalli, cui doveva corrispondere una velocità massima continuativa di 30 nodi”.
Nel Luglio 1963 gli Stati Uniti rifiutano di soddisfare le richieste italiane di fornire uranio ed assistenza tecnica per realizzare il sottomarino nucleare “Guglielmo Marconi” ed il progetto viene annullato e, in sua vece, lanciato il programma per la nave da trasporto logistico "Enrico Fermi".
La classe Guglielmo Marconi della Marina Militare Italiana doveva essere composta da due unità costruite presso Italcantieri (il nome dell'epoca di Fincantieri) alla fine degli anni '50.
Avvalendosi anche delle esperienze compiute dagli statunitensi con il sottomarino sperimentale Albacore era stato progettato un sottomarino d’attacco a propulsione nucleare che avrebbe dovuto chiamarsi Guglielmo Marconi a cui avrebbe dovuto far seguito una unità gemella. L'unità, simile allo Skipjack americano, avrebbe dovuto avere un dislocamento in immersione di 3.400 tonnellate ed una velocità massima in immersione di 30 nodi. La realizzazione del progetto come già detto necessitava della collaborazione degli Stati Uniti, ma il successivo rifiuto americano di proseguire la collaborazione, sulla base di una legge che vietava il trasferimento all'estero di conoscenze e tecnologie nucleari utilizzabili a fini militari, e l'adesione dell'Italia al trattato di non proliferazione nucleare e altri impedimenti di carattere politico, impedirono che l'impresa avesse seguito provocando l'abbandono del progetto. Tra i timori degli statunitensi vi era anche quello che tecnologia strategica venisse trasferita all'Unione Sovietica.
DATI TECNICI:
- costruttore: Italcantieri, ora Fincantieri spa
- ordine: luglio 1959
- dislocamento in emersione: 2.300 t
- e in immersione: 3.400 t
- lunghezza: 83 m
- larghezza diametro: 9,55 m
- propulsione: 1 reattore nucleare CAMEN (derivato dal Westinghouse S5W) da 30 MW di potenza termica e 15.000 shp, un’elica a 5 pale
- velocità: 30 nodi
- armamento: siluri: 6 tubi da 533 su due file orizzontali da 3 con 30 siluri complessivi.
Ne “esistono tutt'oggi 2 modellini, uno presso palazzo Marina a Roma e l'altro presso la caserma “Scirè” di la Spezia.
Nella monografia sulla MMI delle EDAI dice che fu annunciato dal Ministro della Difesa nel luglio 1959. Specifiche previste: lunghezza fuori tutto 83 metri, diametro massimo scafo resistente 9,55 metri, dislocamento 2.300 tonnellate (3.400 immerso).
"La propulsione doveva essere affidata ad un impianto nucleare ad acqua pressurizzata da 30 MW di potenza termica, derivato dal modello S5W della Westinghouse e studiato dal CAMEN, che alimentava due turbine (alta e bassa pressione) accoppiate ad un diruttore. La potenza massima erogata sull'unico asse con elica a 5 pale era di 15.000 cavalli, cui doveva corrispondere una velocità massima continuativa di 30 nodi."
"La carena si presentava come un solido di riduzione (serie 58) le cui forme erano derivate dalle esperienze effettuate dall'US Navy con il battello sperimentale Albacore, e che permetteva lo sviluppo di elevate velocità in immersione. La manovrabilità sarebbe stata assicurata da superfici di governo poppiere cruciformi (timoni orizzontali e verticali), mentre i timoni orizzontali di prora erano posizionati sulla falsatorre allo scopo di migliorare le prestazioni di sensori elettroacustici."
4 paratie stagne delimitavano il locale siluri (6 tubi da 533 su due file orizzontali da 3 con 30 armi di riserva), il compartimento destinato al controllo dell'unità e ai locali di vita (su 4 livelli), il compartimento reattore, il compartimento dell'impianto di distribuzione dell'energia elettrica e del sottostante gruppo diesel-generatore di emergenza, e, infine, il compartimento del gruppo propulsore ed i due gruppi turbo-alternatori con una potenza unitaria di 1.800 kW.
Era prevista una spesa di 30 miliardi di lire del 1959, cifra che rendeva utopistico il proseguimento del progetto, date le difficoltà di bilancio delle FFAA. Oltre a ciò mancò la disponibilità americana a fornire la necessaria assistenza tecnico-logistica. Il Marconi comunque non fu l'unico progetto relativo ad unità a propulsione nucleare, quanto piuttosto quello su cui si concentrarono maggiormente le attenzioni di detrattori e fautori di una marina militare di rango mondiale.
Il punto in cui il progetto fu interrotto non è noto, ma è certo che non si andò mai oltre gli studi di massima.
(Web, Google, Wikipedia, blog “STORIE DI MARE”, LABWORLD, etc…)
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