Pasqualino Vernì, il mio nonno paterno, aveva un collo taurino, fronte alta e spaziosa, sguardo dolce e mite, occhi grandi e fissi, capelli scuri e corti, baffi folti e arricciati all'insù: è tutto qui il padre di Giovanni Vernì, mio padre.
Da modesti proprietari terrieri era nato il 13 febbraio 1879; tutti lo chiamavano, Pasqualino. Avesse avuto uno, dieci o quarant'anni - di più l'umana sorte non gliene volle concedere - per tutti era - sempre e soltanto - Pasqualino. Quasicché il vezzeggiativo col quale lo si nominava gli fosse stato ritagliato addosso dalla natura medesima e a Lui spettasse più che a tenero infante.
Il secondo di una grossa covata egli era, non unica né rara nel borgo natìo, - di quelle che, da sole, riempivano di chiasso e di allegria, da mane a sera, vicoli e strettoie agglomerati nell'antico rione dello Spirito Santo -, sempre timoroso di nuovi affacci, pur se già smanioso di più ampi slarghi per gli andirivieni delle sue giovani api.
Dopo Saverio, il primogenito, (1875), prima di Nicola ("Colett"), il terzogenito, (1881), di Isabella, la quartogenita (1883), di Anna (1885), di Pasqua, la "Ross" (1887) - anche lei, come il fratello, portava questo nome tanto caro alla cristianità, prim'ancora di Carmela, di Domenica, di Antonia, l'ultimogenita, supporto, quest’ultima, angelo custode e vestale di casa. Nove in tutto. Nove bocche da sfamare, da crescere, da incamminare nel vasto mondo di fine Ottocento.
Molte, si direbbe a prima vista, ma non troppe per la profonda religiosità dei loro pii genitori, consapevoli che tanti figli costituivano pur sempre una benedizione del Cielo.
A tutte indistintamente queste creature la mamma, la ferma, la ferrea eppur dolce mamma Maria - la benvoluta e ultrastimata "Zia Maria" (z' maroi') del lungo parentado - voleva un bene dell'anima: immenso, com'era immenso il suo cuore, uguale per tutti. Ma, quello per il suo Pasqualino era diverso: più evidente ed invadente: in una parola, "protettivo", ma non perché lui portasse il nome del suo avo prediletto o perché mostrasse, più che gli altri fratelli, virtù rare o intelligenza superiore, ma unicamente perché, dentro di sé, nel suo subconscio, lo presentiva bersaglio irato di un maleficio, vittima predestinata di un oscuro disegno, che, sin dal nascere del suo piccolo, la perseguitava come una maledizione, le toglieva la pace, le riempiva l'animo di angosce e di paure che ella cercava vanamente di allontanare da sé con una più attenta e vigile protezione.
Sotto l'ala di siffatta mamma, Pasqualino crebbe sano e forte come un pesce, trascorse un'infanzia serena e tranquilla, forgiò al meglio il suo carattere mite e generoso, sviluppò ancorpiù il nativo senso del dovere e del sacrificio, imparò con facilità un mestiere qualificato fatto su misura per lui, e, già adolescente, si segnalava tra i più esperti nell'arte del potare.
Dimenticò, però, l'incauto, di pensare anche a dirozzare la mente, ad imparare, come si dice, a leggere e scrivere e di questa sua noncuranza molto si dorrà, per vero, un giorno non lontano. Vero è che la colpa di ciò non era, e non poteva essere, soltanto sua. Era, infatti, anche dei genitori, i quali mancarono il dovere di mandare a scuola tutti i loro figli, ritenendolo forse un lusso da non poter soddisfare. Come lo era anche dello stato, il nascente stato unitario italiano, il quale, per combattere la piaga dell'analfabetismo, (particolarmente diffusa nel Mezzogiorno, dove il 70% della popolazione era analfabeta ossia non sapeva né leggere né scrivere), si limitò ad emanare una legge - la cosiddetta legge Coppino del 1877, dal nome del ministro che la proponeva - con cui si istituiva sì la Scuola Elementare obbligatoria, ma non la si rendeva, come la si sarebbe dovuta, gratuita. Il che nocque non poco all'efficacia stessa del provvedimento preso e, nel tempo, evidenziò la necessità di adeguati miglioramenti.
Non di meno quello dell'istruzione non era, e non fu, l'unico e solo problema che afflisse e turbò i sonni di Pasqualino e soci. Ve ne erano altri, non meno gravi e urgenti: quello del lavoro, p.e.; quello dell'occupazione o dell'economia o dei trasporti o delle comunicazioni, per dirne qualcuno. Nessun ministero se ne occupò mai con l'impegno dovuto e perciò restarono a lungo abbandonati ed irrisolti, al punto che il Mezzogiorno era l'immagine stessa dell'arretratezza, dello sfacelo e della miseria e conseguentemente del disarmonico sviluppo economico e sociale del Paese.
Responsabile primo del degrado e del malessere di cui soffrivano le genti del Sud era l'agricoltura col suo "latifondo", che lasciava nelle mani di pochi irresponsabili il 70% della terra, la quale, anziché essere lavorata, "era lasciata in gran parte incolta, preda dei rovi e delle erbacce in genere, dominio degli animali da pascolo e regno dei passatempi dei nobili proprietari o era tenuta a "masseria di campagna", con utili e vantaggi esigui o del tutto inesistenti. Il rimanente 30% lo possedevano, in frazioni minime, centinaia, e forse migliaia, di piccoli proprietari terrieri, i quali non solo non ne traevano alcun sostanziale beneficio, non solo non vedevano mutarsi quella minima ricchezza in altra ricchezza, ma non riuscivano mai neppure a cavare quella gran "sete di terra", che da sempre li tormentava.
Non solo. Ma l'incaglio causava, senza volerlo incomodi e disturbi talmente gravi, che condannarono i braccianti agricoli a lunghi periodi di disoccupazione o di sottoccupazione, a paghe striminzite e saltuarie, a fame e miseria senza fine, che intristivano o imbarbarivano chi ne veniva colpito, spingendolo spesso anche a "delinquere" o ad emigrare. E questo fenomeno non risparmiò neppure Pasqualino.
Filava e pungeva la "montagna" o tramontana di casa nostra sulla sera del paese, nel cuore dell'inverno. Tutti erano tappati in casa, anche i più giovani. Saverio, Pasqualino e Coletto, anche loro, se ne stavano al caldo, addosso l'uno a l'altro, stretti nell'ampio "fuoco" (o caminetto) di Tata Giovanni (Tata Giuenn), al primo piano della loro abitazione. Di fronte a loro ardeva e bruciava un grosso ceppo di mandorlo appena scalzato. Rannicchiata in un angolo, stanca, il capo stretto nelle mani, piegata in avanti, mamma Maria. Tra un sobbalzo e l'altro, ella allungava le mani alla fiamma, le scaldava, le sfregava con forza, tendendo l'orecchio ai discorsi sussurrati dei tre figli. Parlavano di tutto: di lavoro che non c'era; di "giornate" che nessuno più trovava; di paghe striminzite e scarse; di proprietari svogliati; di terreni incolti da lunga pezza; di fame e di miseria sempre più crescenti; di famiglie che non sapevano come tirare avanti; e, quel che è peggio, non trovavano più "credito"; di debiti sopra debiti, contratti per pagare il viaggio o, più spesso i viaggi a due o più persone della stessa famiglia; di amici, compagni, coetanei che da tempo non si vedevano più in giro, spariti, scomparsi dalla mattina alla sera, partiti - così dicevano tutti -, di nascosto, alla chetichella, "di contrabbando", clandestini per...- e qui essi, nel raccontare tutto questo, abbassavano ancor più la voce sino a rendere incomprensibili i suoni e le sillabe - ...l'America... - quella specie di Fata Morgana che tutti incantava ed attirava -; ...di Ciccillo, Saverio, Vito Sante, Rocco Martino, da mesi scomparsi, introvabili, dei quali non si avevano più notizie, sino al giorno prima, ma che già avevano trovato un lavoro e dai quali già si ricevevano le prime rimesse...; di ...e giù altre notizie, all'infinito.
Voci, queste,? Solo voci? chiacchiere da bar, da oziosi, da sfaccendati?
Balle o verità assolute? dette, così, a mezza bocca, in un orecchio, in questo o quel crocchio? Mah!
Mamma Maria ascoltava, ascoltava, in silenzio. Poi, come per dir la sua, "Pasqualino, fece, alzando un po' la voce, forse per scuotersi dal dormiveglia o forse per darsi coraggio, nel momento in cui questo le mancava, ho un'idea: se è vero quello che si dice, perché non provi anche tu? lo fanno tutti ormai questo benedetto viaggio in America; perché non lo fai anche tu? Tentare non nuoce, si dice". "E poi, aggiunse, il viaggio, sappilo bene, non lo faresti da solo: insieme con te ci sarebbero almeno altre tre persone: la Madonna del Carmine, io e Coletto, tuo fratello. Saverio, no. Saverio deve stare qui per dare una mano a tuo padre". Altro non disse e riprese a sonnecchiare.
Fuori, intanto, si faceva sempre più buio e la "Montagna", sibilando seguitava a pungere e a filare.
Il tempo di approntare un bagaglio purchessia e di prendere gli ultimi accordi, poi il "traìno" di famiglia, il carro agricolo tuttofare di tata Giovanni prende a bordo uomini e cose e all'alba, prima che si faccia giorno, per tempo - come sempre - è già alla stazione ferroviaria, dove scarica due giovani sui vent'anni, due valigette di cartone, un diluvio di lacrime e ...tante speranze.
Scene da primo Novecento, si dirà, ma anche scene da ultimo Novecento: la Storia dell'Umanità dolente è sempre la stessa, non cambia mai.
Un lungo viaggio su un treno fumoso e nero porta i nostri due emigranti in quel di Napoli, al porto di Mergellina. Qui li accoglie una vecchia carretta di mare, che salpa furtiva sull'imbrunire di un giorno piovoso e triste, mentre nelle vie e sulle scene dei teatri partenopei risuonano patetiche e struggenti le note di una bellissima, celebre canzone.
Trenta, quaranta giorni di viaggio, lungo, interminabile, disumano, inenarrabile, più da bestie che da uomini - ci si scandalizza tanto oggi dei viaggi degli albanesi o dei curdi o dei marocchini, ma non si prova alcuno sdegno al ricordo dei vergognosi trattamenti riservati a questi nostri infelici "cercatori di lavoro" - poi, finalmente lo sbarco, l'odissea, il calvario in terra straniera, a migliaia e migliaia di chilometri di lontananza.
Nel “bailamme” di New York - approdano quasi tutti qui i nostri connazionali. Tra gente d'ogni lingua e colore e religione, dentro veri e propri formicai umani, dentro "street, ave" e sterminate campagne dell'immensa America.
Ecco, sono piovuti qui, proprio qui, i due rampolli di mamma Maria, Pasqualino e Coletto. Sono venuti qui, in cerca di lavoro, e di fortuna, e di futuro. Li troveranno?
Chissà!
Nel crogiolo d'America si saggiò l'oro, tutto l'oro dell'Italia povera.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, sempre sudando e lavorando sodo, da mane a sera, sempre centellinando e risparmiando, con esasperazione eccessiva, con il senso pieno del sacrificio, che solo la gente di casa nostra conosce e sa imporsi, con la voluttà del risparmio, che solo quando è costante e sostanziosa dà, come diede, frutti sapidi e copiosi.
Costavano, oh se costavano!, quei frutti, ma riempivano di orgoglio. Lo sapeva anche Pasqualino, che diceva: "Se tu spezzassi, se tu riuscissi a spezzare un "cent”, sicuramente ne vedresti uscire... sangue: il sangue del nostro lavoro". E non esagerava.
Quando, un giorno, il peso della stanchezza si fece sentire, allora anche la solitudine cominciò a rendersi insopportabile, la nostalgia a farsi struggente, ardente la brama del ritorno, acuto il desiderio dei tramonti e delle stelle lasciati laggiù, al paese, in Puglia, carezzevole il sogno di metter su famiglia, di ampliare l'azienda avìta, (avuta cioè in eredità dagli avi) con nuovi appezzamenti, dove che fosse, al Macchione, al Capitolo, a Diasparre, a Parco Casa o La Cattiva, non importa se da spietrare, da sgramignare, da rifare di sana pianta. Divenne allora necessario per tutti ormai il ritorno in famiglia. Anche se per poco. E tornarono, anche loro, ai patrii Lari, i forti Pasqualino e Coletto. Con tanti progetti e tante speranze da realizzare.
Venne la guerra, la "Grande Guerra". Arrivò la cartolina precetto, la chiamata alle armi o il richiamo. Prima dei ventenni. Poi dei trentenni e oltre. Infine dei diciottenni (classe '99, classe di ferro). E fu il turno anche di Pasqualino che veleggiava tranquillo verso la piena maturità. Richiamato, lui non ne fece un dramma, non oppose ostacoli e furbizie.
Soldato fedele e disciplinato, reindossò con orgoglio il glorioso grigioverde, ritrovò l'ardore dei giovani anni e, in silenzio, disciplinatamente, raggiunse il reparto cui l'avevano destinato, il 271° Btg Milizia Territoriale, dislocato sul fronte Macedone, tra l'Albania e la Grecia.
E lì restò due lunghi anni, senza mai chiedere o mendicare licenze e permessi, pago di sentirsi unito alla famiglia messa su da poco dalle lettere o cartoline che il comandante del suo reparto molto volentieri vergava per lui analfabeta.
Col tempo il tarlo della nostalgia cominciò a roderlo, il desiderio degli affetti perduti a tormentarlo. Scalpitò, presentò le sue ragioni, venne accontentato con una lunga licenza premio.
A casa trascorse giorni indimenticabili che lo rinfrancarono e lo resero sommamente felice, anche perché così sentiva appagato quel suo, più volte rimarcato negli scritti, desiderio di guardare in faccia e di stringere a sé il suo rampollo, il suo "Giuannìnn", come lui lo chiamava, calcando la voce sull'ultima “i”.
Consumata la licenza, lo aspettava il rientro in sede e a quello si preparò con animo sereno, per nulla intimidito dalle notizie che circolavano e dalle insidie nascoste nel braccio di mare tra l'Italia, l'Albania e la Grecia. I rischi e i pericoli ch'egli realmente correva non sfuggivano, però, a chi gli voleva più bene, la moglie, la quale, ancor prima che il consorte si rimettesse in viaggio, nulla tralasciò, perché il marito si convincesse ad escogitare, sull'esempio altrui, il mezzo idoneo a farsi dichiarare inabile al servizio militare. Invano. "No, fu la sua risposta, devo tornare al reparto". E tornò.
Il giorno stabilito, infatti, riabbracciata la moglie, stretto forte forte a sé il figlioletto, data un'ultima fuggevole occhiata al suo piccolo mondo, fermo e deciso come sempre, si rimise in treno e in poche ore fu a Taranto. Era qui la nave che doveva traghettarlo in Grecia e di qui in Macedonia. Bella, nuova, sicura. Fatta per infondere coraggio, al solo vederla.
"Restai con lui circa due ore, - raccontò tra le lacrime il cognato Vito (Minz' mon'c), marito di Domenica, allora sottufficiale in servizio presso l'ufficio imbarchi e sbarchi della Stazione marittima della Città dei Due Mari - quando fu l'ora della partenza della nave, lo accompagnai fin presso alla scaletta. Al momento di lasciarci, lui mi si fece più vicino e, stringendomi forte a sé, "Vito, mi disse con voce velata di sconforto e di tristezza - mi vorrei sbagliare, ma ho tanta paura ed un brutto presentimento".
Furono le ultime sue parole. Il preannuncio di una tragedia imminente.
Era l'alba del 6 ottobre. Era scritto.
Sul mare appena mosso da un lieve soffio di maestrale, il piroscafo "Città di Bari", pur impanciato da un pesante carico umano, imbarcato incautamente nella sosta a Gallipoli, filava vigile ma tranquillo, sulla sua rotta di EST-NORD EST, seguito da una lunga scia di spuma bianca e farinosa. Sopra, il cielo, d'un azzurro terso e intenso, tinteggiato di stelle radiose, pareva sorridere al passaggio del vapore. C'era stato, invero, un falso allarme, subito rientrato ed ora un silenzio profondo avvolgeva il sonno e la stanchezza dei numerosi passeggeri. D'un tratto - era quasi spuntata l'alba - un sordo boato scosse la fiancata di babordo della nave. Subitaneo, un largo squarcio s'aprì, un fiume d'acqua invase la sala macchine, distruggendo il telefono e costringendo il vapore a fermarsi. Scoppiò, è naturale, il finimondo. Grida disperate e terrore, tanto terrore scese nei malcapitati passeggeri che s'affrettarono a cercare la salvezza nelle scialuppe di salvataggio.
Ne approfittò il sommergibile assalitore che, emergendo, molto disumanamente puntò il cannone contro la nave agonizzante incendiandola e facendola colare a picco. Non lontano da Corfù, a due passi dall'isoletta di Paxì o Paxòs, in un mare livido e amaro, sconvolto dal libeccio e dal Greco, battuto dalla pioggia di un furioso temporale, solcato dai remi affannosi delle zattere stracolme di naufraghi, di grida disperate, di urla e di preghiere. Sotto il ghigno beffardo del tedesco nemico. In una lotta sovrumana per sopravvivere, mentre la notte finiva e l'alba s’affrettava a cedere al giorno chiaro. Nell'attesa, lunga e vana, di un soccorso pronto e liberatorio.
A uno, a due, a tre...a dieci per volta, anche, prima o poi, i più finirono in fondo al mare, portando strette a sé vita, speranze e illusioni.
Era la dura legge della sorte beffarda e ingiusta.
Il mare tutto inghiottì, abiti civili e divise militari, uomini coraggiosi e giovani speranzosi. Tutto. Anche il corpo del forte Pasqualino.
Si strusse in pianti mia nonna, la forte, coraggiosa giovanissima nonna Lucia.
Lo sguardo, timido e innocente di mio padre "Giuannin" - era troppo piccolo per capire l'infelice bambino! - si riempì di attonito stupore. L'animo suo, da quel dì, traboccò d'infinita tristezza.
Se ne dolsero grandemente e se ne dispiacquero immensamente, consanguinei, amici e conoscenti.
La disperazione più nera abitò a lungo nell'animo dei suoi familiari.
Solo lei, la forte, la tetragona, l'incrollabile bisnonna Maria, alla ferale notizia, rimase inebetita e impassibile.
Non batté ciglio, non aprì bocca, non pronunziò parola: ammutì. Diventò di sasso.
Simile, in questo, ad un'altra madre, ad un'altra donna, sferzata a sangue dalla mala sorte, ed annichilita, come lei e più di lei, dal crudele destino.
Diversamente, però, da questa pur leggendaria ma umanissima donna, lei, la forte mia bisnonna Maria, non pianse, almeno in pubblico, in presenza degli altri. Seppe trattenere le lacrime e soffocare il pianto. In privato così non fu.
In privato, tra le pareti domestiche, lacrime furtive, lacrime amare, lacrimoni turgidi e perlacei, furono visti, spesso rigare veloci il volto suo scarno e asciutto fino agli 85 anni.
Lo strazio, invece, nessuno mai lo vide, il dolore immenso, che solo una mamma conosce, lo tenne tutto per sé, serrato, nascosto dentro lo scrigno della sua dignità.
In memoria di mio padre Giovanni e dei miei nonni Pasqualino e Lucia Guglielmi.
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