venerdì 23 novembre 2018

Prof. Giovanni Vernì: “6 ottobre 1917: «UNA TRAGEDIA SCONOSCIUTA", ovvero, L’affondamento del piroscafo “CITTA’ DI BARI"



“Oh, la sorte degli uomini! E’ come il sogno di un’ombra la loro felicità! Se viene sventura, anche quel sogno svanisce come tratto di umida spugna cancella un dipinto. Dolore e pietà.
Della buona fortuna nessuno dei mortali è sazio: nessuno c’è che a felicità, dalla soglia di casa levando la mano, “no, non entrare” dica, e la tenga lontana.”
Concedettero a un uomo i beati di espatriare e di mettere su ricchezza e di tornare alla sua casa.
Ma…
(ESCHILO – Agamennone 1330 e sgg.)

PREFAZIONE

Quella presentata in questo volume, abbondantemente documentato e ricco di informazioni analitiche, non è una storia qualsiasi e neppure una storia inventata o romanzata.
E’, per vero, invece, una storia certa e documentata, una storia realmente accaduta; è, più precisamente, una storia di guerra, della passata «Grande Guerra»; una storia umana, ancora viva e palpitante, sconcertante ed inquietante insieme, ma, penso, assai poco conosciuta in tutta la sua alta drammaticità dal vasto pubblico di casa nostra: la storia dell’affondamento del piroscafo «Città di Bari» avvenuto nel lontano 6 ottobre 1917, quasi sulla soglia di casa, sotto i nostri stessi occhi. 
Una storia tutta nostra, insomma, che non merita, a mio modesto parere, di restare eternamente chiusa nel buio del silenzio e dell’oblìo. 
Parlarne oggi, o, se preferite, riparlarne, renderla di pubblica ragione, farne conoscere tutti i particolari alla gente di Puglia cui appartiene la più parte dei suoi protagonisti, non mi sembra e non è, cosa inutile, sterile, o anche dannosa, come si potrebbe pensare, al buon nome di qualcuno o di qualcosa, ma cosa utile e giovevole a tutti: alla verità della storia, alla moralità, alla memoria delle vittime, ai familiari di queste, a me, orfano di quella triste amara vicenda, che ostinatamente, pervicacemente la tiro fuori, oggi, dal dimenticatoio in cui giace per darle finalmente un volto ed una dignità nella coscienza comune.
Che è, poi, la maniera migliore di avvicinarsi alla Storia dei popoli. Quella che, è stato detto, scende nel profondo dei problemi, che esplora le ragioni del disprezzo della vita dimostrata troppe volte nel percorso umano del mondo, che indica chiaramente i risultati negativi dell’egoismo e della sopraffazione, perché possano essere eliminati dalla coscienza dell’uomo del futuro.
La notizia di quella tragedia fece, com’è naturale, all’indomani del suo accadimento, grande scalpore, suscitò incredulità, stupore e commozione in quanti ne vennero a conoscenza, provocò pianti e lacrime in chi ne era direttamente interessato, ma la vera portata, la dimensione, la gravità di questo disastro costato la vita a….centinaia, sì centinaia, di persone, pochi le seppero nella loro interezza. Gli altri, gli stessi familiari delle vittime, tra i quali chi, oggi, ha l’alto onore e l’ingrato compito di scriverne -, dovettero contentarsi di notizie frammentarie, dette a mezza bocca ed avvolte di mistero, dentro e fuori degli ospedali dove erano stati ricoverati gli scampati alla morte.
Il racconto che i sopravvissuti andavano facendo dell’accaduto era quanto mai sconvolgente e raccapricciante e preoccupava non poco, perché giungeva in un momento assai delicato per le sorti della guerra – la storia racconta che le forze armate austro-tedesche stavano preparando sul fronte italiano “una speciale staffen expedition” o spedizione punitiva che porterà a ….Caporetto – per lo stesso prestigio delle nostre Forze Armate, per il morale della Nazione.
Alcuni particolari, invero, destavano orrore e rabbia, angoscia e turbamento, sgomento e indignazione.
Non controllati a dovere, questi sentimenti avrebbero potuto contribuire a far crescere tensioni e lacerazioni, malumori e polemiche nell’opinione pubblica già turbata, profondamente turbata, da altre vicissitudini, avrebbero potuto innescare altre più furiose diatribe, facendo così il gioco della propaganda pacifista e disfattista che da tempo impazzava nel Paese, se l’Autorità dello Stato, nell’interesse comune, non avessero deciso di intervenire direttamente e pesantemente nella vicenda, sdrammatizzandola, minimizzandola, circoscrivendola, mettendole, come si suol dire, la sordina.
Ce ne dà conferma “STORIA ILLUSTRATA” del novembre 1981, che a pag.207, così racconta:
Il 15 gennaio1917, l’allora capitano di fregata Alfredo Baistrocchi, inviato dal ministero a Londra in occasione di un’apposita, segretissima, conferenza navale interalleata dedicata ai problemi del traffico, annotò nel proprio diario le seguenti parole pronunciate in apertura dell’appena nominato, nuovo primo ministro britannico Lloyd George: “L’insidia sottomarina rappresenta il più serio pericolo che gli alleati devono oggi affrontare e non posso nascondervi l’immensa gravità di una situazione in cui le distruzioni del naviglio superano le ricostruzioni. Situazione che dobbiamo tenere celata non solo al nemico, ma anche e soprattutto ai nostri stessi popoli.
Sicché, pian piano, come per consegna data o per ordine ricevuto, l’impressione suscitata da quel brutto evento scemò di colpo, spazzata via, affogata, con tutto il suo pianto e tutto il suo dolore, nella successiva “disfatta” di Caporetto (24 ottobre, ricordate?, vale a dire, una quindicina di giorni appena dopo del naufragio del “Città di Bari”) e di quel naufragio nessuno più parlò né più nulla mai si seppe.
Sepolta, la tragedia, in tutta fretta, con tutti i suoi morti – erano tanti! – e tutti i suoi orrori, tutte le sue colpe e tutti i suoi misteri, in una bara comune, in fondo allo Jonio, - lo (lo Jonio gelidamaro [è la mia tomba]), come lo chiamava il tarantino Leonida in una sua celebre lirica1, - alle porte di casa, nei pressi di Corfù.
Chiusa e sigillata dentro i ferrei cassetti degli Archivi di Stato, romani e viennesi.
Imbavagliata e guardata a vista, perché non….ne evadesse, tanto era o la si giudicava….pericolosa.
Non dimenticata, però! – i morti, i Padri, non si dimenticano mai!, non si possono dimenticare!
Di là, da quella bara comune, da quelle gelide prigioni, la tira fuori, a fatica, oggi, ad oltre ottant’anni di distanza, senza paure e senza rémore, senza odio e senza spirito o desiderio di vendetta, la gran sete di sapere e di capire, e di piangere ancora – “il pianto dell’uomo, si sa, non ha mai fine, non si estingue mai!”, di uno dei tanti orfani – ahimè, non più bambino! – di quella angosciosa lontana vicenda.
Della quale egli, l’orfano, ripropone, qui, in questo studio, a puro titolo conoscitivo, per un incomprimibile bisogno dello spirito, tutto, volti e immagini, nomi e cognomi, eroismi e brutture, verità e reticenze, colpe e discolpe, quali gli rivengono dalle testimonianze e dai documenti che la sensibilità e il rispetto per la ricerca di alcune alte personalità della Marina Militare Italiana e dell’Ambasciata Austriaca in Italia hanno voluto molto gentilmente mettere a nostra disposizione.

Quello che queste pagine contengono è, pertanto, storia, ossia certezza, verità sacrosanta, che nessuno potrebbe mai mettere in dubbio, nascondere o ripudiare.
Che io, orfano, qui riporto con gioia, con orgoglio, direi, quasi con un senso di sollievo e di liberazione da una sorta di atto d’amore dovuto da figlio a padre, con la persuasione di fare cosa moralmente utile alla società, secondo i dettami dell’etica antica che dice: “malum in bonum tragoedia vertit” (Caes.Civ. 3,73,6).
Dappoiché, essa, la tragedia, quella tragedia, ha dentro di sé, a dire dello storico e filologo tedesco Iaeger (1888-1961) -, una sua efficacia educativa; contiene, come insegna il grande filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.) nella sua Poetica – una sua virtù purificatrice, in quanto, sia che la si riporti sulla scena, a teatro o a cinema, sia che la si racconti in un libro, fa pensare, appassiona, lascia un’eco profonda nel cuore dello spettatore o del lettore; racchiude un’accezione profondamente religiosa, ma nel senso greco e antico della “pietà” o “εύσέβεια” che coincide con il rispettoso e necessario ritrarsi innanzi a ciò che è inviolabile: in senso lato di fronte al divino.
Questo nella profonda convinzione che non tutto è nelle mani dell’uomo e soprattutto che “l’uomo non può fare tutto”: innanzi a lui vi è qualcosa d’invalicabile degno solo di rispetto. “Pietà” dunque per il dolore dell’uomo, per la sua debolezza e insieme capacità d’amore secondo le celebri parole di Antigone: “io sono nata per amare”.
In uno studio appena pubblicato dall’editore Einaudi, “La voce addolorata”, Nicole Loraux ha dimostrato che la tragedia per il suo carattere luttuoso può rivelarsi come l’essenza dell’antipolitica.
Per l’illustre antichista il lutto costituisce un elemento di ricezione del genere tragico che mette il lettore, e quindi lo spettatore, nelle condizioni di vivere il dramma in una dimensione particolare che non sia soltanto quella della partecipazione politica, bensì quella che permette di comunicare una situazione luttuosa attraverso la voce “addolorata” della tragedia che si sforza di far percepire la pregnanza della morte, del pianto rituale e di esorcizzare la causa originaria che andrebbe ricercata nel conflitto bellico.  La tragedia diventerebbe, così, “un’arma di lotta, di condanna della guerra, un mezzo di discussione attraverso l’azione dei protagonisti”.
Per Loraux la tragedia è la messinscena di un lutto, ma è soprattutto la messinscena di un’azione educativa dalla quale lo spettatore-lettore deve trarre il massimo vantaggio attraverso il gioco delle passioni, dei sentimenti e degli stessi turbamenti.
Ed eccone la trama.
« Tumulti popolari avvengono a Milano e nei sobborghi della città e in alcuni centri della Lombardia. La protesta contro il carovita, dovuto alla carestia e agli effetti della guerra sottomarina che ostacola l’arrivo dei rifornimenti alimentari essenziali per l’Italia, assume rapidamente il carattere della ribellione contro la continuazione della guerra. Come in altre numerose manifestazioni in diversi centri agricoli e urbani della Penisola (circa 500 tra il dicembre 1916 e l’aprile 1917) le donne hanno un ruolo di primo piano nelle agitazioni ».
« Episodi di ammutinamento, di diserzione e di insubordinazione fra i soldati sono frequenti nel corso dell’anno e non solo in Italia, determinati da sentimenti di ribellione spontanea agli orrori della guerra e alla dura disciplina della vita al fronte.
I gruppi interventisti e lo stesso generale Cadorna (Comandante in capo delle Forze Armate Italiane) ne attribuiscono però la responsabilità alla propaganda socialista e «disfattista» (termine, questo, con cui viene designata, ormai abitualmente, qualunque espressione di dissenso verso la guerra.
« Una sommossa operaia, a Torino, contro la mancanza di pane si trasforma in aperta ribellione contro la guerra con barricate e scontri sanguinosi contro le truppe chiamate a reprimere la rivolta. In alcuni casi i soldati solidarizzano con gli insorti e consegnano loro le armi ».
“La guerra, - annota il De Rosa in un suo volume2-, cominciava a provocare evidenti segni di stanchezza fra le due parti in lotta e non mancarono iniziative per raggiungere un’intesa che ponesse fine al conflitto.
In Austria, ove il 22 novembre 1916 era morto il vecchio imperatore Francesco Giuseppe ed era salito al trono Carlo I (1916-1918). Cominciava a farsi strada l’idea della pace, anche perché la situazione interna stava facendosi pesante: la stessa stabilità della dinastia asburgica sembrava in pericolo.  Alla fine del 1916 si assisteva ad una vera e propria “offensiva della pace” da parte degli imperi centrali, allo scopo di convincere l’Intesa a venire a patti, approfittando anche della migliore situazione militare.  Infatti Belgio, Lussemburgo, Polonia, Balcani, parte della Russia e della Francia erano sotto il controllo austro-tedesco. Ma le potenze dell’Intesa, soprattutto l’Inghilterra, orientate ormai per la distruzione dell’Austria, non erano disposte a trattare, riconoscendo nell’offerta degli Imperi Centrali una proposta propagandistica per far ricadere sugli alleati la responsabilità di un mancato accordo.
Il 1° agosto 1917 anche papa Benedetto XV3 faceva sentire la sua parola a favore della pace, così come l’aveva già fatta sentire a pochi mesi dallo scoppio del conflitto con l’enciclica “Ad beatissimi” (1° nov.1914).  In una nota inviata a tutti i capi delle potenze belligeranti, il papa si chiedeva: “Il mondo civile dovrà dunque ridursi ad un campo di morte? E  l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da follia universale, all’abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio?” Invitando i governanti a cessare un’inutile strage, Benedetto XV proponeva come soluzione la reciproca restituzione dei territori occupati, tenendo conto delle “aspirazioni” dei popoli e coordinando “i propri interessi con quelli comuni del grande consorzio umano” sostenne ed appoggiò con calore, ma senza successo, il disperato tentativo diplomatico presso la Francia, condotto dai fratelli della moglie del santo imperatore CARLO I, di cui è prossima la beatificazione, l’imperatrice ZITA di BORBONE.
Ma neanche l’appello del papa ebbe l’esito sperato. Gli egoismi nazionali prevalsero sui richiami alla pace.
Sul fronte russo poi l’esercito stava sfaldandosi progressivamente ed inesorabilmente sotto i colpi d’ariete della rivoluzione e la propaganda leniniana faceva anche presso i soldati sempre nuovi adepti. Gli ammutinamenti dei reparti di terra e di mare si succedevano senza tregua: i soldati fraternizzavano col nemico, abbandonavano le loro posizioni e tornavano a casa.
Le notizie sui moti di Pietroburgo e sulla rivoluzione bolscevica in Russia giungevano anche sugli altri fronti della Guerra, benché i comandi militari cercassero con ogni mezzo di evitarlo; passavano di bocca in bocca fra le truppe, animavano le speranze di pace e di un nuovo ordine sociale.
Scioperi si verificarono nelle industrie tedesche, tanto che il governo cercò di rafforzare il potere esecutivo e dell’esercito militarizzando anche le industrie.
Anche in Italia, a Torino, nel mese di agosto si ebbe un tentativo di rivolta operaia, che il governo in carica riuscì a controllare.
In Francia aumentò il fenomeno degli ammutinamenti.
Moltiplicandosi i fronti della guerra, anche la Grecia, il 26 agosto 1917, entrava in guerra contro la Germania, dopo che il re Costantino, filo-tedesco, era stato costretto ad abdicare.
Nella seconda decade di settembre, il territoriale Pasqualino tornava momentaneamente a casa, al suo paese natìo, per fruirvi di una licenza straordinaria di 15+6.
«Lo ricordo bene quel momento, oh, se lo ricordo! - soleva ripetere spesso il buon « Faél » Simone « M-rìsch », il « vecio » sannicandrese dalla « naia » più lunga, (classe 1910), - mentre lui, Pasqualino, scendeva dalla « diligenza » - la « carròzz », così la chiamavano tutti - di «Vit Ncòle du brecch» (Manchisi), all’arrivo di questa dalla vicina Canneto, uno dei centri pugliesi attraversato dalla ferrovia Sud-Est.
Nel mettere piede a terra, per quanto fosse ingoffato dalla divisa di soldato e appesantito da pacchi e pacchetti che si trascinava dietro, sbirciandomi, lui, Pasqualino, mi riconobbe e « Faél », disse ansioso porgendomene uno, questo é per mia madre, tu la conosci, vero? « Marì Cicchlain », e questa - (una grossa moneta, d’argento credo, straniera, forse greco-macedone) è per te. Corri, fa’ un salto, sai dove abita, no, e dille: Pasqualino è arrivato. E’ qui. Sta andando a casa. Sarà da voi fra poco ».
Dopo quella volta, non l’ho più rivisto. Peccato! Era veramente una gran brava persona.
A casa, nella sua piccola famiglia, Pasqualino trascorse giorni indimenticabili che lo rinfrancarono e lo resero sommamente felice, anche perché, così, sentiva appagato quel suo ardente desiderio, sempre rimarcato negli scritti inviati alla moglie, di guardare in faccia e di stringere a sé il suo rampollo, il suo « Giuannìn », come lui lo chiamava, calcando la voce sulla i finale.
Consumata la licenza, lo aspettava il suo rientro in sede, in Macedonia, e a quello si preparò con animo sereno e con la ferma decisione di respingere le sollecitazioni di amici e conoscenti che reiteratamente lo invitavano ad usare « astuzie » e « furbizie » per non tornare più al reparto. Lui, però, non abboccò mai all’amo della tentazione, allora così diffusa e praticata, né mai si lasciò intimidire dalle notizie che circolavano e dalle insidie nascoste nel braccio di mare tra l’Italia, l’Albania e la Grecia.
I rischi e i pericoli ch’egli realmente correva non sfuggivano a lui, ma non sfuggivano soprattutto a chi gli voleva più bene, la moglie, la quale, ancor prima che il consorte si rimettesse in viaggio, nulla tralasciò, acché il marito, sull’esempio altrui, si facesse assegnare almeno una piccola proroga. Invano.
« No, - fu la sua risposta -, devo tornare subito al reparto ». E tornò.
Il giorno stabilito, infatti, il mattino del 4 ottobre, riabbracciata la moglie, stretto forte forte a sé il tenero figlioletto, data un’ultima fuggevole occhiata al suo piccolo mondo, fermo e deciso come sempre, raggiunse la stazione ferroviaria più vicina, si rimise in treno e in poche ore fu a Taranto. 
Era qui la nave che doveva traghettarlo in Grecia e di qui in Macedonia. Bella, nuova, sicura. 
Fatta per infondere coraggio al solo vederla.
« Restai con lui circa due ore » - raccontava spesso tra le lacrime il cognato Vito, («Minz Mon-ch», per gli amici), marito di Domenica, allora sottufficiale in servizio presso l’Ufficio Imbarchi e sbarchi della Stazione Marittima della Città dei due mari; «quando fu l’ora della partenza della nave, lo accompagnai fin presso alla scaletta. Al momento di lasciarci, lui mi si fece più vicino e, stringendomi forte a sé, Vito, mi disse con voce velata di sconforto e di amarezza, mi vorrei sbagliare, ma ho tanta paura e un brutto presentimento», (ah, il subconscio!).
Furono le sue ultime parole. Il preannuncio di una tragedia imminente!

"LA TRAGEDIA"
PROLOGO
Il “Città di Bari” e i preparativi della partenza per il suo “ultimo” viaggio.

PORTO DI TARANTO  - MAR PICCOLO, Giovedì 4 ottobre 1917

Aria serena. Giornata mite e piena di sole, che fa ben sperare; una bella giornata ottobrina.
Il solito movimento del tempo di guerra, piuttosto ordinato e circospetto; il solito andirivieni tra le banchine del gran porto tarantino. 
Navi alla fonda, navi che vanno, navi che vengono; mercantili o da guerra. Ultimi controlli per i passeggeri pronti all’imbarco.
Attorno ad una, in particolare, ferve sin dal mattino un’insolita attività: si stanno mettendo a punto le ultime cose: fra le quali il funzionamento di un cannoncino da 76 m/m, di cui essa è stata dotata da poco; si stanno caricando le poche mercanzie, imbarcando, alla spicciolata, senza fretta alcuna, i pochi passeggeri, tutti militari, per la vicina Macedonia, via Grecia.
E’ il piroscafo “Città di Bari”.
Lo comanda un giovane ma esperto lupo di mare, un barese doc, credo, probabilmente parente stretto del defunto Pantaleo Castellano5, un coraggioso di poche parole, concreto, essenziale, il capitano L.Castellano, coadiuvato da un eccellente equipaggio, composto, in gran parte, di pugliesi, se non di baresi – i Violante, p.e., i De Santis, i De Tullio, i Cassano, gli Introna, i Bottalico, i Bellomo, per dirne qualcuno. Chi ne volesse conoscere tutti i nomi, uno per uno, può scorrerne gli elenchi che noi alleghiamo in questo volume, sez. Documenti.
Prima dello scoppio della “Grande Guerra” il “Città di Bari” aveva solcato con dignità e onore l’Adriatico e lo Jonio, soprattutto, attivamente partecipando ai traffici commerciali che si svolgevano nei due mari e tenendo ben collegate tra di loro le sponde che ne erano bagnate.
Con l’entrata in guerra del nostro Paese, era stato requisito e, armato di cannone, dopo aver partecipato alle operazioni di salvataggio, da parte della Regia marina, dell’esercito Serbo-Montenegrino e di trasporto, da S.Giovanni di Medua a Brindisi, dei membri del governo slavo e del tesoro statale (come provano e documentano fonti italiane e britanniche pubblicate dalla Rivista Marittima del gennaio 2003, che qui di seguito vi mostriamo), veniva adibito ad “ausiliario” della Regia Marina Militare, nel servizio-postale e passeggeri, con partenza da Taranto, al giovedì, sulla linea Taranto – Gallipoli – Corfù – Patrasso.
E qui, proprio qui, su questo tratto, la malasorte volle che, nel viaggio che stiamo per raccontare, si compisse il suo tragico destino.

IL   FATTO

La partenza del “Città di Bari” da Taranto. L’arrivo e la sosta a Gallipoli. L’imbarco di civili greci. Il primo siluramento. Il secondo siluramento. L’ammutinamento dei greci. Il cannoneggiamento da parte del sommergibile siluratore. L’affondamento del piroscafo. La scomparsa del capitano comandante. Lo sbandamento dei naufraghi.
Lasciata Taranto nel pomeriggio di giovedì 4 ottobre, il "Città di Bari" giunse a Gallipoli, fiorente centro commerciale affacciato sullo Jonio, a 38,5 Km. da Lecce), nelle prime ore della sera dello stesso giorno.
Era solo, senza scorta, avendo a bordo, oltre all'equipaggio civile composto di 40 persone e all'equipaggio militare di 11, soltanto 37 (o 35?) passeggeri militari del Regio Esercito (c'era tra questi il padre di chi scrive, Pasquale, soldato del "271° Btg. Milizia Territoriale", dislocato sul fronte Macedone, al quale faceva ritorno dalla licenza) e della Regia Marina ed un carico di 130 tonn. di viveri e materiali vari 6.
"Quando il "Città di Bari" giunse a Gallipoli - narra nel suo interrogatorio l'Ufficiale di Porto7 - mi recai a bordo della nave, e il Capitano di questa, Luigi Castellano, mi chiese se il Piroscafo "Imera", silurato due giorni prima, avesse avuto la scorta. Alla mia risposta negativa disse: "Chissà se per noi vi sarà la scorta". Risposi che non sapevo, ma che però non lo credevo e, quindi, lo informai che i passeggeri da imbarcare superavano le cento unità.
Al mattino seguente informai il Comandante di Spiaggia delle parole scambiate col Capitano a riguardo della scorta. Il Comandante Stranges mi rispose di non avere facoltà di dare la scorta, ma che, se il Capitano l'avesse ufficialmente richiesta, avrebbe telegrafato a Taranto per l'autorizzazione. Mi recai nuovamente a bordo e riferii quanto sopra al Capitano, ma questi mi rispose che non voleva chiedere scorta per non far credere di avere paura. Se queste non furono le sue precise parole, certo il senso ne era equivalente.
Rimasi a bordo del Piroscafo tutto il pomeriggio e verificai se tutti avessero il salvagente e se lance e zattere fossero a posto, libere da impedimenti ed in numero sufficiente, del che ebbi anche assicurazione dal Capitano.

Non mi occupai, perché non di mia competenza, del ritiro delle armi dei passeggeri; per quanto mi consta, ciò non fu fatto né dell'Autorità di Pubblica Sicurezza, né da quella di bordo, né dagli Agenti della Regia Dogana.  
Ritornai a terra mezz'ora prima della partenza e riferii al Comandante di Spiaggia che il Capitano non aveva creduto di chiedere la scorta.
Il "Città di Bari" partì regolarmente alle 18h,30m. A tenore delle norme vigenti, non feci alcun telegramma di partenza, però, in vista del rilevante numero di passeggeri, telegrafai subito ai Servizi Logistici che il Piroscafo era partito con 400 passeggeri".
"Imbarcati, dunque, 405 passeggeri e come merci del vino e dei tessuti di cotone - scrive il Contrammiraglio Paladini 8  - il Piroscafo lasciava, alle ore 18.30 del 5 ottobre, il  porto di Gallipoli...
...La partenza del Piroscafo fu telegrafata al Ministero, al Dipartimento di Taranto ed al Comando in Capo dell'Armata di Taranto, con queste parole: "Piroscafo «Città di Bari» mare"  -  Nessun telegramma fu fatto invece ai Comandi Navali di Brindisi, Valona e Corfù", perché, - si giustifica lo Stranges nel suo interrogatorio 9 - nessun ordine di tale specie avevo per quanto riguarda la partenza per Corfù".  E nessuna scorta fu data al Piroscafo, perché, - sempre a dire dello Stranges - non avevo alcuna istruzione di fornire scorta per interi viaggi, perché il Città di Bari è partito dopo il tramonto, ma, soprattutto, perché il Capitano del Piroscafo si diceva riluttante a dar mostra di temere il pericolo".

Trascorsero tranquille - scrive sempre il Paladini10  - le prime ore della notte": notte di luna - ricordano i superstiti -; aria fosca; forte vento di E-NE che rendeva il mare agitato; visibilità scarsa.
Ma, attorno alla mezzanotte, tra le 23h,45m e le 24h, il marinaio Albano - che era di guardia al cannone, e qualche altro, videro passare di poppa la scia di un siluro.  Avvisato, il Capitano della nave, si portò immediatamente sul posto, ma, non trovando conferma del lancio prospettatogli e non scorgendo alcun segno della presenza del sommergibile siluratore - (probabilmente perché questo si é affrettato a far perdere traccia di sé) - credette ad un abbaglio e tutto finì lì.
Invece abbaglio non era e l'Albano e gli altri avevano visto giusto.
E la conferma ce la dà il sopravvissuto - italiano o straniero? membro dell'equipaggio del «Città di Bari» o anonimo passeggero? - fatto prigioniero e condotto poi a Pola, del quale, però, la fonte austriaca non rivela il nome per ragioni di riservatezza 11.
Alle Autorità di marina che lo interrogavano, il sopravvissuto anonimo raccontò che quel primo lancio il sommergibile siluratore 12  lo effettuò esattamente alle 2h,30m del mattino del 6 ottobre. ("Am 6 Oktober um 2 Uhr 30' a.m.", è scritto nel documento precitato) e che il "Città di Bari" rispose all'attacco sparando alcuni colpi di cannone - ("Antwortete mit seinen Kanonen").
Veri o falsi, in tutto o in parte, questi particolari, sta di fatto che un primo siluro fu effettivamente lanciato contro il piroscafo italiano e che, probabilmente, l'U boot tedesco, andato a vuoto quel suo primo tentativo di siluramento, temendo la reazione del "Città di Bari", sospese momentaneamente l'attacco per riprenderlo più tardi.
L'allarme, perciò, rientrò;  la calma ritornò a bordo e tutti tirarono un sospiro di sollievo.


"L'aria era fosca ed un forte vento di E, NE rendeva il mare agitato. Le 4 erano passate da circa un quarto d'ora - racconta il 2° Ufficiale del Piroscafo 13 - e mi trovavo in sala nautica allorché udii lo scoppio...
"Il tempo era quasi nuvoloso, tirava un vento moderato da scirocco ed il mare era mosso. Si diceva anche che era possibile qualche sorpresa all'alba.  Alle 4h,10m circa, udimmo una forte esplosione"...- ricorda il 1° Ufficiale 14.
 "Mi trovavo sul primo cassero, - narra a sua volta il direttore di macchina15 - passeggiavo tra l'osterigio di macchina e la sala nautica;  erano passate da poco le 4h,00m allorché udii un colpo metallico fortissimo e vidi sollevarsi dall'osterigio di macchina un'alta colonna di acqua e vapore. Il siluro aveva colpito il bastimento proprio fra la caldaia e le macchine, che si fermarono immediatamente, insieme naturalmente alle due dinamo.  Il bastimento rimase all'oscuro".
"Svegliato dall'esplosione, - racconta, tra l'altro, Luigi Aleotti  16 per prima cosa corsi abbasso nella stazione R.T. che si trovava proprio nel corridoio che univa la prima con la seconda classe: vidi tutti gli strumenti per terra e capii che la stazione non poteva più funzionare.  In coperta la gente si agglomerava intorno alle sei imbarcazioni.  Vi erano anche molte zattere, circa 16 in legno e sei od otto in ferro. 
Il Comandante era sulla dritta e il capo timoniere sulla sinistra; ambedue cercavano di ottenere un po' di calma, per effettuare ordinatamente il salvataggio, ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei Greci: gettavano gli zatteroni a mare senza ritenuta, facevano capovolgere le lance, venivano alle mani..."
"Intanto il bastimento si sbandò un poco a dritta, molto a sinistra, e quindi si immerse per circa due metri, rimanendo orizzontale.  Una ventina di minuti dopo il siluramento - ricorda ancora il 2° Ufficiale 17 -, arrivò la prima granata che cadde una ventina di metri a sinistra del bastimento.  La seconda, credo colpisse il cannone di poppa.  Seguirono altri colpi.  Appena cominciato il fuoco, non fu possibile impedire alla gente di gettarsi a mare raggiungendo le zattere che, filate e senza ritenute, s'allontanavano dal bordo."
"Svegliato dall'esplosione, - riferisce a sua volta il sottocapo cannoniere 18 - corsi subito vicino al pezzo, ma non vidi nulla.  Dopo un po' scesi dalla tuga per cercare il capo timoniere ed il Comandante.  Trovato il capo timoniere, andai con lui ad aiutare a mettere le zattere in mare.  
Mentre facevo questa operazione, ho udito il primo colpo di cannone e visto il sommergibile al traverso a sinistra.  Corsi subito a poppa, ma fui fermato dai Greci che non volevano si sparasse, temendo che il sommergibile, per rappresaglia, sparasse sulla gente a mare...
...Prima di buttarmi a mare - a bordo eravamo rimasti solo io e il sottocapo francese AUGER  Renè - vidi i Greci che facevano segno al sottomarino con una camicia, affinché non sparasse più.  Mi precipitai addosso e strappai loro la camicia...
All'ultimo momento i Greci ammainarono pure la bandiera italiana".
"Restai a bordo fin quasi all'ultimo - ricorda VALENZO Pietro19.  Vidi all'inizio del bombardamento che dei Greci facevano segnale al sommergibile gridando: "Costantino" 20.
"Dopo una mezz'ora - racconta il marinaio cannoniere FAVAZZA Salvatore21 - il sommergibile emerse a circa 200 metri dalla poppa e cominciò a bombardare.  Due colpi raggiunsero il fumaiolo ed uno colpì in prossimità della stiva prodiera.  Durante il bombardamento (a base di granate incendiarie)  solo io rimasi in prossimità del cannone.  Poco dopo, però, me ne andai per mettermi al riparo.  Il sottomarino, allora, si affiancò a dieci o quindici metri di distanza e mi si domandò in buon italiano dov'era il Comandante.  Gli risposi che non c'era..."
"Nel frattempo il sommergibile si era avvicinato al Piroscafo e aveva sbarcato il radiotelegrafista dell'IMERA su una zattera  -  riferisce  il 2° Ufficiale-22.  Tirò una cannonata sulla prua del Piroscafo al galleggiamento determinando l'affondamento"
Colpito a morte, senza preavviso23, da quindici granate incendiarie, l'ultima delle quali al bagnasciuga, tutte sparate tranne l'ultima, mentre la gente era ancora a bordo e cercava in tutti i modi e con tutti i mezzi di convincere gli artiglieri di bordo a non sparare contro il sommergibile e, alzando bandiera bianca e ammainando la bandiera italiana, quelli del sommergibile a non sparare sui passeggeri ancora presenti sulla nave, il "CITTA' DI BARI", lentamente affondò in fiamme - "...endlich sank das schiff in flammen"24.
Trascinando con sé, in fondo al mare, uomini e cose e inabissandosi a 39° 20' Lat.N., 19° 23' Long.E. - rotta 107° magnetico da un punto 15 miglia a sud di S.Maria di Leuca  - 25  al largo dell'isoletta di Paxòs o Paxì, a sud di Corfù, nel mentre in cielo e sul mare già albeggiava e si scatenava un furioso temporale che durò tutta la notte.
Sfasciate le imbarcazioni per l'imperizia dei Greci che se n'erano impadroniti e che pagarono con la vita l'atto precipitoso, le zattere di bordo raccolsero i rimanenti passeggeri e affrontarono il viaggio della salvezza, che per i più non giunse mai.
Ma, quasi a rendere più intricata  e drammatica la fase finale di questa angosciosa vicenda, ecco, fosco ed oscuro, il dramma personale del coraggioso sfortunato Capitano: non é presente fisicamente, come noi ci aspetteremmo, alla morte della sua nave.
Eppure, subito dopo l'esplosione del secondo siluro, molti lo hanno visto, lo hanno notato, mentre...
...si precipitava fuori (della cabina di comando) gridando: "Salvagenti a posto"! - deposizione del secondo ufficiale -;26
...cercava di organizzare il salvataggio e infondere un po' di calma" -(direttore di macchina)-;
...sulla dritta cercava di ottenere un po' di calma per effettuare ordinatamente il salvataggio..., ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei greci – 
...diceva all'artigliere: "Sono Capitano e la mia nave è stata già silurata. Non faccia fuoco, altrimenti sparano contro le zattere!"  - (primo timoniere) -;...27
...vedendo la nave sbandare a dritta in modo che giudicò pericoloso, ordinava: "Gente in riga e zattere e lance a mare!" - (primo ufficiale) -;...
Dopo tutto questo, il Capitano non si vede più, esce di scena, scomparendo proprio mentre ci si aspettava di vederlo, nel solco della tradizione marinara, fermo al suo posto di comando, andare coraggiosamente a fondo e morire insieme con la sua nave.
Secondo un testimone oculare, egli si gettò a mare.  Infatti, il primo cameriere testimoniò: "Mi gettai a mare dopo il Comandante dal boccaporto n.2".
Allora, gettatosi a mare, è per caso affogato? o, piuttosto, è sembrato gettarsi a mare, mentre, invece, vi cadeva accidentalmente probabilmente ferito a morte da..."quel colpo di rivoltella sparatogli contro dal basso da uno sconosciuto?", come racconta nella sua deposizione il 2° Capo timoniere?28.
Non lo sapeva chi gli stava dattorno, non lo sappiamo nemmeno noi.
Se, però, dobbiamo dar credito alla fonte austriaca, il capitano Castellano sarebbe morto di morte violenta, ucciso, con altri, durante la sommossa scoppiata a bordo del piroscafo in seguito alle prime cannonate sparate dal sommergibile29.
Vera o falsa, questa versione, verosimili o inventati questi particolari, il mistero resta e ci è difficile svelarlo.
Quando, verso le ore 5.30 del mattino, la luce del giorno scese a illuminare questa parte del Mar Jonio, sulla scena del disastro non c'era più nulla ormai: non la snella mole della bella nave barese, sprofondata con tutto il suo carico negli abissi;  non la sagoma scura del sommergibile tedesco, apparentemente assente, ma, di fatto, aggirantesi ancora minaccioso in quei paraggi;  non le scialuppe di salvataggio, che, pur stracariche di naufraghi, vagavano sempre più lontane, alla deriva, facile preda delle onde, delle correnti e della forza dei venti.
"Nelle zattere si trovarono mescolati italiani e greci, che, numerosi, usarono soprusi e violenze, pestando coi piedi e ferendo di coltello e rasoio i nostri connazionali ed altri che si affollavano intorno alle già gremite imbarcazioni 30."
Dura, lunga e faticosa fu la lotta dei naufraghi in una situazione oltremodo loro avversa, folle e vana la speranza di veder arrivare da un momento all'altro il soccorso liberatore: Corfù non sapeva; Taranto nemmeno.  Finché, poi, qualcuno non darà l'allarme.
Nella notte, ad appena poche ore dall'affondamento, qualcuna delle zattere giunse anche a vedere in lontananza la terra della salvezza, ..."ma il forte mare ci impedì assolutamente di avvicinarci a Fano, racconta un sopravvissuto31.

EPILOGO

I soccorsi. Il recupero e il ricovero dei naufraghi superstiti negli ospedali di Gallipoli e di Corfù. L’inchiesta. L’amaro bilancio. Considerazioni finali.
Nessun mezzo di soccorso videro i naufraghi durante tutto il giorno 6.
"Verso il mezzogiorno del 7 - appena due ore prima che fossero scoperti e tratti in salvo - calmatosi ormai il mare, abbiamo visto una leggera imbarcazione, una specie di caicco, contenente un greco. Un greco che era con noi allora abbandonò la nostra zattera e andò a parlare con quello.  Ritornò poco dopo dicendo che quella imbarcazione non poteva salvarci ” 32.
“ Verso le prime ore del pomeriggio (del 7) apparve l'ESPERO ”.33
“ Potevano essere le 2.00 del pomeriggio, allorché avvistammo un caccia ed un rimorchiatore"...credo che la nostra zattera sia stata l’ultima ad essere recuperata dall'ESPERO ”.34
“ Alle 01.30 del giorno 7 - racconta il Comandante della Settima Squadriglia -35 ricevetti a Taranto un fonogramma che mi ordinava di accendere i fuochi per eseguire una missione.
Ricevetti solo verso le 3.00 le istruzioni scritte che dicevano: 
di percorrere la rotta del Città di Bari che non era ancora giunto a Corfù.  Dovevo continuare le ricerche fino al tramonto e passare la notte a Gallipoli.
Partii alle 3.30 da Taranto con una velocità di 20 miglia e seguii la rotta ordinatami... Avvistai la prima zattera verso le 2.05 / 2.10 del pomeriggio.
Questa conteneva tre o quattro uomini tra cui il 2° Ufficiale... Siccome sapevo che pure alla ricerca dei naufraghi si trovavano i C.T. "Pilo" e "Bronzetti", feci loro un radiotelegramma, comunicandogli le coordinate geografiche del luogo ove mi trovavo.  Infatti, dopo appena un quarto d'ora, essi arrivarono.  Vennero altri due idrovolanti francesi che indicavano la posizione delle zattere.  Continuai il salvataggio sino alle 16.45, raccogliendo ben 98 persone.  Tra i salvati ve n'erano 97 della Città di Bari e uno R.T. dell' "IMERA".  Avendo visto che vi erano dei feriti da coltello, ordinai il disarmo generale.  Un greco, DEMETRE PRIFTIS, consegnò un rasoio insanguinato.  A Gallipoli tutti i naufraghi ebbero assistenza." 36 
A loro volta, il "Pilo" e il "Bronzetti", ne recuperarono altri 58 che provvidero a trasportare all'ospedale di Corfù.  
"Di 493 persone che erano a bordo al momento della partenza da Gallipoli, - conclude malinconicamente nella sua relazione il Comandante della Divisione Base di Taranto - solo 156 si erano salvate e pure é certo che lo scoppio non può aver ucciso che, al massimo, una diecina di persone e che qualche altro può aver trovato la morte per aver battuto qualche forte colpo nel gettarsi in mare, forse tra questi ultimi il Capitano del piroscafo, del quale non si riuscì ad avere alcuna notizia dopo l'affondamento." 37
Dunque, terminate le operazioni di ricerca e fatta  la conta dei superstiti, all'appello risposero soltanto 156 persone - (160, secondo la fonte austriaca).38
E le altre 337 o 368 o 560, o forse più?  (se dobbiamo credere alla predetta fonte straniera).
Disperse. Morte.  Tutte morte.  Tutte finite in fondo al mare. Precipitatevi, non dalla nave che le trasportava, ma dalle scialuppe di salvataggio, in cui erano riuscite, bene o male, a trovar posto, prima che il “ Città di Bari ” affondasse.  Precipitatevi da sole. Lasciatevisi andare così, con semplicità, quasi con un dolce senso di abbandono e di rassegnazione nel proprio destino. Uccise dagli stenti, dal maltempo, dalla violenza di prepotenti compagni di viaggio, dagli scoraggiamenti, dalla lunga attesa e permanenza in mare - durata, è incredibile, un giorno e mezzo! –
Ce ne parlano diffusamente, nelle loro deposizioni, i pochi fortunati superstiti. Basti leggere, come ha fatto l’orfano che scrive, - “ un groppo alla gola, l’occhio inumidito di  pianto, il cuore in subbuglio ” - gli scioccanti racconti che i superstiti fanno alle autorità giudiziarie.

Vi trovi tutto: 
  • La logica perversa 
  • della guerra;
  • L’imponderabilità;
  • L’imprevedibilità, l’inevitabilità, la fatalità, - come si usa dire in certi casi – degli eventi;
  • L’impotenza dell’uomo nella lotta contro le forze scatenate della natura;
  • L’insano egoismo, che spesso scaccia vincendolo l’altruismo, e sempre alberga nel cuore dell’uomo – come inorridisce tutta quella violenza! come suonano male tutti quei “mors tua, vita mea”, lanciati dal fratello contro l’altro fratello, al momento del pericolo!;
  • L’irresponsabilità, o la totale mancanza di senso di responsabilità, la superficialità, la leggerezza nel governare talune contingenze;
  • La temerarietà di qualcuno – che – si badi - non è coraggio, ma audacia eccessiva, sconsiderata, irragionevole;
  • L’incapacità, l’apatía o mancanza di “páthos”, in alcuni, la negligenza « nell’adempimento dei doveri del proprio ufficio », in altri: (“non si manda una nave allo sbaraglio, stracarica di passeggeri, sola, senza scorta, non ce se ne lava le mani, non la si lascia partire, ci si oppone, se non si vuole andare incontro a disastro sicuro…; bisognava riflettere, pensarci due volte, prima di…obbedire almeno alla legge del…buon senso; non….”).

Tutte cause o incidenze gravi, che hanno avuto un peso non indifferente nella dinamica dei fatti. Ove fosse stato possibile ridurne il malefico influsso, si sarebbe potuto almeno contenere, limitare, ridurre al minimo, le proporzioni di una “catastrofe annunciata”, che invece ebbe a costare la vita a un gran numero di persone.

Oltre 400, certamente. Forse 500. Forse anche di più.

La violenza, spesso senza volto e senza perché, era così diffusa, allora e dappertutto, che nessuno sapeva rinunciarci; e se ne ebbero i risultati!

Un vero disastro, torniamo a ripetere, una sciagura immensa, incredibile...
Non delle stesse proporzioni di quello lamentato nell’affondamento del “TITANIC” (1912), certo, o del “LUSITANIA”, il cui inabissamento, nel 1915, suscitò lo sdegno dell’opinione pubblica americana e contribuì ad orientarla in favore dell’entrata in guerra (nel 1917) degli Stati Uniti a favore dell’Intesa, ma pur sempre, enorme, raccapricciante, impressionante, che aveva chiaramente colpe ben definite.

Un disastro, nel vero senso della parola. Una strage, o carneficina se preferite.
Una tragedia che si poteva contenere, ridurre al minimo. Ma mancò l’impegno, la volontà di obbedire in pienezza di spirito e di partecipe generosità ai doveri precisi dello stato di ciascuno degli…addetti ai lavori.
Colpa anche della propaganda insidiosa che tanto male stava predicando ed inculcando, anche nei soldati di prima linea, forse! -. Mancò, infine quello spirito di solidarietà che fa grande un fratello al momento del bisogno.

E di scalpore e di impressione ne fece veramente tanta il malaugurato evento che ne rimasero giustamente preoccupati politici e militari, considerato anche e soprattutto, il grave momento in cui esso avveniva - si era, infatti, in un mese “caldissimo” della guerra in atto: nel fatale ottobre ‘17 -.

E, per far piena luce e chiarezza sulla triste vicenda e tacitare le coscienze turbate, usando prudenza, cautela e circospezione, il Ministero della Marina, aprì in tutta fretta un’ampia inchiesta: furono sentiti, in primo luogo i sopravvissuti (italiani e stranieri): i membri dell’equipaggio, gli artiglieri, i radiotelegrafisti, i passeggeri imbarcati, tutti i veri protagonisti insomma della vicenda. Furono ascoltati inoltre, come parte in causa, indiziati di reato, il Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Taranto, il Comandante in Capo dell’Armata R.N. “ Trinacria ”, il Comandante della Divisione Base di Taranto, il Comandante della Divisione Navale dello Jonio R.N. “ Città di Catania ”, il Comandante di Spiaggia di Gallipoli, il Commissario militare del piroscafo “ Città di Bari ”.

E, dopo due mesi circa di minuziose indagini, acclarata ogni cosa e individuati i veri responsabili del disastro, il Tribunale Militare emanò la sua sentenza: inflisse le pene che ciascuno si meritava, ma con mitezza, senza infierire contro nessuno. 
Le sanzioni e i provvedimenti presi restarono però nel chiuso degli uffici, ammantati di discrezione e di riservatezza, mai svelati. Solo pochi conobbero le conclusioni della Giustizia. Esse non furono mai rese pubbliche “ per l’impressione ”39  si disse.  Come non venne mai reso pubblico il numero preciso delle persone scomparse, tutte insieme, in uno stretto braccio di mare:
morte,
a due passi dalla salvezza, pensate!
Sotto i nostri stessi occhi.
Con la nostra stessa complicità.
Come non pensare che essi, i morti, tutti quei morti, pesino, ancora oggi, sulla comune coscienza?
Le colpe, le responsabilità, stavano là e parlavano da sole e chiedevano giustizia, non vendetta, ma neppure dimenticanza.
Giunse sì la giustizia, e anche presto; arrivarono le conclusioni del Tribunale, puntuali, rapide, immediate, ma non proprio eque, cioè giuste, commisurate alla gravità o levità dei reati realmente commessi, non proprio riparatrici, accompagnate, vorremmo dire, da giusto rigore morale e giuridico.  
Sapevano, esse, troppo di affrettato, di condizionato, di biasimevole, di ovattato, forse di vergognoso da nascondere ad ogni costo, chiusi a doppia mandata nei ferrei cassetti degli archivi di Stato, insieme con la verità.

E le lacrime non furono mai asciugate!
Sicché, una tragedia sì grande e sì grave, lentamente, fatalmente, scivolò nel dimenticatoio. Con tutti i suoi ricordi dolceamari.

Che tristezza! 

Questi i fatti, nudi e crudi.  Queste le dure verità.  Queste le colpe e le responsabilità acclarate dalla Magistratura, quali ci rivengono dalla lettura “a caldo” dei documenti dianzi citati e riportati. Non li ho certo inventati io e neppure manipolati o adulterati. Li ho soltanto “raccontati” in tutta la loro rapida successione, ruvida asprezza, estrema angosciosità.
Certo con la morte nel cuore per quello che stava succedendo al mio papà. Con l’animo straziato dal dolore. Con rabbia impotente. Con intensa passione e partecipazione.
Non mi si farà poi colpa grave, se, talvolta, mi è capitato di condirli, senza volerlo, con un pizzico di amara insoddisfazione, dettata, peraltro, dal mio stato di “dolente parte in causa”.

A mente fredda, invece, a mente libera dal velo della passione, questi stessi fatti, questi stessi comportamenti umani, riconsiderati più attentamente e visti alla luce di una più approfondita riflessione, assumono, possono assumere, come in un processo di decantazione, un aspetto nuovo; offrono, possono offrire una diversa valutazione e interpretazione dell’accaduto.  Secondo la quale il personale della Marina Militare Italiana dislocato nel Basso Adriatico e nello Jonio, dall’ufficiale più elevato in grado al semplice marinaio, non avrebbe nulla da rimproverarsi nella triste “Historia” del “Città di Bari” e che, nel disimpegno delle proprie specifiche mansioni, tutti avrebbero operato “in assoluta buona fede” per il buon fine del pericoloso viaggio intrapreso dalla nave barese.  E che, se dei responsabili del disastro c’erano, essi sarebbero da ricercare non tanto fra gli equivoci e i malintesi, fra le carenze e le omissioni lamentate o fra gli “sfilacciamenti” e le inadempienze di questo o di quello, quanto piuttosto nel “virus della discordia e della disobbedienza”, nei “veleni” della contrapposizione e della divisione, dell’odio e della violenza, che, penetrando nell’animo umano e stringendo nella morsa del contagio, tutti e ciascuno, avrebbe sconvolto anche le coscienze corazzate, le difese resistenti dei marinai italiani impegnati nella guerra.
Analisi precisa, argomentazioni giuste, verità palesi, indiscutibili, che, però non hanno la forza e il potere di dimostrare l’infondatezza delle accuse mosse e comprovate in sede di inchiesta giudiziaria; di mandare assolti i presunti responsabili della sciagura, di rendere meno gravi e dolorose le proporzioni del disastro.
Di un “caso” sì grave riesce veramente difficile, se non impossibile, diluirne nella verità il pianto ed il rimpianto di ciò che si è responsabilmente o irresponsabilmente perduto.
«Per il dono del tuo Spirito, Signore, fa che ogni condizione di paura si apra alla fiducia, ogni situazione di dolore sia illuminata dalla speranza della pasqua, ogni atteggiamento di egoismo o d’indifferenza si converta nella gioia della condivisione e del servizio verso il fratello».

«Ma, di questa immensa tragedia - si domanda a questo punto l’uomo della strada -, di tutte queste vittime innocenti dell’umana follia, che cosa ricorda oggi la memoria storica? che cosa resta di bello e di buono e di moralmente utile alla società odierna?».  

«Se per poco tendi l’orecchio - risponde pronta una voce - senti:
nel silenzio d’una casa, nel buio di una stanza, in via Cassano, al civico 81,
......una zana dondola pian piano
un orfano piange il piccol dito in bocca...
.............ancora!...sempre!
......sopra e dentro il « formicolar » d’una piazza di paese
......una Campana, una grande Campana, rintocca
cinque volte di seguito; ogni sera, tutte le sere: 
forte, sonora, accorata, lamentosa...
chiama i vivi per i Morti alla preghiera...
.............
E’ la Campana di don Cosimo40; è «l’Augustea», che troneggia sul Monumento ai Caduti della Grande Guerra eretto in Sannicandro di Bari; è la «voce» viva e vera, simbolicamente parlando s’intende, degli oltre cento figli di Sannicandro morti durante il primo conflitto mondiale, ivi compresa quella di Pasqualino, che 
...«del Vivente il cor incanta e l’animo suo nel conforto della Fede immerge...»;
...............
...«del Caduto la memoria rinnova e rinverdisce e 
nel crogiolo dei Ricordi purifica...»
* * *
Al di fuori di queste due singolari esperienze di vita...
...solo e soltanto...
...vite umane inutilmente spezzate...
...sogni infranti...
...speranze deluse...
...ombre vaganti, inquiete...
...ricordi... brevi... pallidi... fuggevoli... lacrimevoli e carezzevoli... lontani, lontani... sempre più lontani...
...sulla soglia dell’oblìo!...

“In nessuna ora, però, – in nessun tempo, dirò con il Pietrobono chiudendo il mio dire - la lettura di queste pagine giungerà inopportuna. 
Sono quasi sempre umide di pianto, e talvolta ebbre ancora di dolore; ma non uccidono la speranza, ma confermano la fede negli alti destini dell’uomo; insegnano ad amare la vita – come Pasqualino, come tutti i naufraghi del “Città di Bari” e, quel ch’è più, famigliarizzano con il pensiero della morte, esaltano e fortificano”.

FONTI:
  • Archivio del Comune di Sannicandro di Bari;
  • Archivio di Stato austriaco: Verschluss – marine – Sektion – Wien – 26 oktober 1917;
  • Ufficio Storico della Marina Militare Italiana;
  • Rivista marittima – Anno CXVI – Maggio 1983;
  • Rivista marittima – Giugno 1998;
  • P.B.Trizio: La Società di navigazione “Puglia” nel I Conflitto Mondiale - Rivista marittima – Maggio 1983;
  • G.Pavlik – Lothar Baungartner – H.Weishaupt Verlag: S.M. Unterseeboote – Graz;
  • E.Ferrante: La grande Guerra in Adriatico – Roma 1987;
  • Bagnasco-Rastelli: Navi e marinai Italiani nella Grande Guerra – Ed. Albertelli – Roma;
  • John C. Tailor: GERMAN WARSHIPS OF WORLD WAR I. London;
  • S.M. Unterseeboote Das K.U.K. Unterseebootswesen 1907-1918;
  • G. De Rosa: Storia Contemporanea – Minerva Italica – Bergamo;
  • R. Labellarte: Leonida da TARANTO    JAPIGIA  Ed. – Bari;
  • G. Carotenuto:  Storia della Letteratura Greca – vol. II – Canova – Treviso;
  • G. Pascoli: Poesie – a cura di L.Pietrobono – Mondadori – Milano;
  • J.F.POLLARD: Il Papa sconosciuto Benedetto XV e la sua ricerca della pace. S.Paolo – Torino;
  • VICTOR Ehremberg: Sofocle e Pericle. Marcelliana – Roma;
  • NICOLE LORAUX: La voce addolorata – EINAUDI ed. – Milano;
  • HARALD BENDERT: Die Ub-boote der Kaiserlichen MARINE 1914-1918 – Verlag Mittler E.S. – HAMBURG – BERLIN – BONN;
  • STORIA ILLUSTRATA – novembre 1981;
  • “DIE UB-BOOTE DER KAISERLICHEN MARINE 1914-1918”, di H.BENDERT, MITTLER-Berlin.
Prof. Giovanni Vernì, Sannicandro di Bari.


Il prof. Giovanni Vernì (1916 - 2014), autore del Libro e padre del responsabile del blog.


Il piroscafo Città di Bari.


Modello del Città di Bari, museo civico di Bari.


Il comandante dell'UB48.


Pasqualino Vernì e la moglie Lucia Guglielmi, nonni paterni del responsabile del blog.




Il responsabile del blog Nico Vernì e l'autore del libro prof. Giovanni di Sannicandro di Bari. 


Il varo del piroscafo Città di Bari.















Sommergibile UB III class.



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